Prospettive
assistenziali, n. 134, aprile-giugno 2001
L’ombra lunga del pregiudizio sull’accoglienza
familiare
Maria Teresa Pedrocco Biancardi (*)
1. Bambini in difficoltà
Benché il calo della natalità non accenni a cambiare
ed il figlio sia considerato nell’immaginario individuale e collettivo di molti
cittadini appartenenti alla cultura cosiddetta occidentale una realtà rara e
preziosa, le situazioni in cui un bambino o un ragazzino si trovano ad aver
bisogno di essere accolti in un ambiente diverso dalla loro famiglia sono
piuttosto numerose e varie.
Al fondo, comunque, si possono individuare due
ragioni: da un lato la crescente fragilità della vita di coppia, fragilità che
porta i protagonisti ad una concentrazione sui propri problemi, con la conseguente
caduta di disponibilità educativa, fino alla maltutela e al maltrattamento;
dall’altra una maturata coscienza dei diritti del bambino e del dovere di
prestargli i sostegni indispensabili alla sua evoluzione.
Tra questi due dati di fatto, tra queste due realtà
attinenti il mondo degli adulti, si trovano i bambini.
Quando i servizi o i tribunali per i minorenni
decidono il loro allontanamento dal contesto familiare sono già spesso
grandicelli, molto provati da esperienze di trascuratezza, di violenza subita o
assistita, di relazioni affettive disperanti.
Sono bambini che hanno bisogno di un periodo di
tranquillità, in una situazione familiare rassicurante, per ritessere dentro di
loro la possibilità di costruire nuovi legami di fiducia con adulti che non li
deludano più.
Le competenze psico-pedagogiche recentemente
guadagnate insegnano che il luogo in cui ricostruire la possibilità di nuovi
legami di filialità è la famiglia, cioè l’esperienza della genitorialità.
Si crea così, più forte che mai, la necessità di
trovare famiglie disposte all’accoglienza.
2. Possibili risposte
Le forme dell’accoglienza familiare possono essere
varie, e vi dovrebbe essere una disponibilità adeguata ai diversi bisogni del
bambino.
Molti allontanamenti potrebbero essere abbreviati con
solleciti interventi psico-diagnostici sulla recuperabilità della famiglia e
successive, conseguenti pratiche psico-terapeutiche che ne attivino il percorso
riabilitativo.
In questi casi si potrebbe trattare di affidamenti
familiari, ma ciò non avviene quasi mai, perché l’attenzione che viene data
alla famiglia è di natura quasi esclusivamente sociale. In altre situazioni,
più gravi, la diagnosi infausta sulla possibile riattivazione di competenze
genitoriali nella famiglia di origine induce i tribunali a dichiarare lo stato
di abbandono e di conseguente adottabilità del bambino.
La durata di queste procedure è lunghissima; il
doveroso garantismo che deve necessariamente tutelare il rapporto
genitori-figli da ogni possibile sopruso giudiziario, mentre è assicurato ai
genitori, non scatta altrettanto correttamente nei confronti del bambino, la
cui crescita armoniosa non solo non viene garantita, ma viene decisamente e
irrimediabilmente compromessa dai tempi lunghissimi delle varie istituzioni
coinvolte: servizi territoriali e tribunali per i minorenni in particolare.
Così le risposte non arrivano e i bambini restano in
istituto, fino a quando l’ipotesi adottiva diventa impraticabile e il bambino,
ormai ragazzino, ha imparato ad attuare tutte le strategie opportune per
portare a fallimento qualsiasi tentativo di affidamento familiare, non
conoscendo ormai più altro ambiente in grado di dargli garanzie di tutela
all’infuori dell’istituto.
3. Le radici e gli effetti del
pregiudizio
Perché queste lungaggini? Perché, a fronte di tanto
emergente bisogno di esercitare la genitorialità da parte di un numero di
coppie sterili in costante crescita, più di 20.000 bambini sono ancora in
istituto in Italia?
Le ragioni possono essere numerose, e possono
riguardare sia aspetti di carattere culturale, come il pericoloso passaggio dal
bambino-persona al bambino-risorsa nella percezione diffusa degli adulti, come
denunciava Alfredo Carlo Moro alcuni anni addietro, sia aspetti di carattere
organizzativo, come il superlavoro dei tribunali, la cui territorialità di
competenza a misura regionale è troppo vasta perché possano intervenire
tempestivamente e in modo informato ed efficace sul disagio minorile.
Ma quella che manca è prevalentemente le disponibilità
dei genitori.
In genere la dichiarazione di disponibilità
all’adozione è suscitata come risposta residuale al fallimento accertato dopo
lunghe e costosissime pratiche di manipolazione genetica mirate ad ottenere la
possibilità non tanto di avere,
quanto di fare un figlio, non tanto
per dargli possibilità di vita, quanto per trarre da lui/lei e dalla novità che
può costituire nuove energie vitali.
Le radici del pregiudizio in questo caso sono
profonde, e stanno in un’esaltazione della dimensione biologica della vita
umana, che condizionerebbe in modo deterministico i rapporti affettivi.
È la cosiddetta “legge del sangue”, che domina ancora
con prepotenza non solo l’immaginario collettivo dell’“uomo della strada”, ma
anche la cultura alta di operatori sociali e scolastici, psicologi, magistrati.
Questa legge da un lato induce a ritardare interventi
di protezione in base al luogo comune che la peggior famiglia sia migliore
della migliore comunità di accoglienza; dall’altro getta un’ombra di sospetto
non solo sul momento della decisione dei genitori di diventare genitori di un
figlio procreato da altri, ma su tutta la loro esperienza genitoriale e
l’esperienza di filialità del bambino.
È un sospetto sottile, non sempre verbalizzato,
manifestato con occhiate allusive e con giri di parole più che con
dichiarazioni chiare, ma costantemente presente come un rumore sordo e non ben
identificato in tutto il rapporto affettivo genitori-figli, che viene così
minato alle radici.
Da questo pregiudizio non sono esenti nemmeno quei
genitori e quei figli adottivi che la scelta l’hanno fatta e hanno costruito un
ottimo rapporto di filialità-genitorialità: il permanere di una certa curiosità
nella gente, non appena ha notizia di una situazione di famiglia adottiva,
l’ambiguità di numerosi messaggi mass-mediali non solo nell’ambito della
fiction ma anche e soprattutto nell’ambito dell’informazione, che si impegna
puntualmente a specificare la qualità di figlio adottivo (mentre non specifica
mai la filialità biologica) quando deve dare notizia di un atto delinquenziale
commesso da un cittadino (così come si omette la nazionalità se il delinquente
è italiano, ma la si sottoliena se è invece uno straniero); il persistere di un
giudizio di “eccezionalità” nei confronti della relazione genitoriale adottiva,
l’ulteriore pregiudizio che si manifesta anche attraverso eccessive espressioni
di ammirazione o di sorpresa, quando il figlio adottato proviene da un paese
straniero, tutto questo contribuisce a creare anche nella psicologia dei
protagonisti una percezione di “diversità”, che può emergere con esiti anche
molto negativi ma almeno destabilizzanti nei momenti di difficoltà relazionale
che ogni famiglia sana e normale si trova necessariamente ad attraversare nel
corso della sua storia.
In questi momenti, le difficoltà assumono un colore
diverso, più cupo, come se la loro causa fosse nella relazione adottiva e non
invece intrinseca al cammino della famiglia, alle tappe evolutive, alle istanze
di libertà e di indipendenza che ad un certo punto ogni figlio naturalmente
esprime, all’emergenza di un evento luttuoso, all’insorgenza di una malattia,
destando nei genitori il ben noto allarme e il bisogno di controllo.
L’ombra lunga del pregiudizio aggrava allora queste
situazioni, complica il percorso per il loro superamento, rallenta il processo
evolutivo di tutta la famiglia e del figlio in particolare, per cui il loro
esito può essere compromesso.
I ritardi nelle soluzioni delle crisi adolescenziali
possono, ad esempio, essere utilizzati come prova, per chi è alla ricerca di
queste prove, che l’adozione è da evitare, perché si tratta pur sempre di un
rimedio che qualche volta può rivelarsi più dannoso del male, perché comunque i
rapporti tra genitori e figli adottivi non possono avere buon esito perché “il
sangue non è acqua”, e la legge del sangue deve essere rispettata.
Probabilmente, in modo più o meno consapevole, è lo
stesso pregiudizio ad ispirare le recenti aperture per favorire ai figli
adottivi un percorso a ritroso, alla ricerca di radici biologiche (non certo
affettive); aperture e ricerche la cui prospettiva può tenere aperte ferite
antiche e conservare instabilità attuali, in una insicurezza di identità
pericolosa per la formazione della personalità, ed aprire delusioni future
anche cocenti e molto dolorose.
4. Gli interessi favoriti dal
pregiudizio
Se la maggior parte di questi pregiudizi sono frutto
di ingenua ignoranza, non si deve escludere la possibilità che il loro effetto
possa procurare qualche vantaggio.
Se ieri le persone impegnate nella tutela dei bambini
dovevano sostenere l’ostitlità dei genitori che, con il decreto di adottabilità
si sentivano non solo esautorati dalle loro prerogative genitoriali, ma anche
giudicati come genitori fallimentari, oggi l’ostilità nei confronti di queste
decisioni sta assumendo anche una coloritura culturale attraverso campagne di
stampa che tendono sempre e comunque a difendere la legge del sangue, e
addirittura una coloritura politica con l’organizzazione di gruppi sociali che
tendono in ogni modo alla visibilità e che avanzano proteste nei confronti
delle decisioni assunte.
Abbiamo così l’associazione “mamme defraudate”, che
riscuote molta più simpatia e che può liberamente diffondere informazione e
disinformazione, mentre non altrettanto possono fare i giudici e gli operatori,
anche perché legati al segreto della deontologia professionale e da precise
leggi sul diritto alla privacy dei
loro utenti.
Così cresce e si sviluppa la cultura adultocentrica,
che si preoccupa delle sofferenze di una madre privata di un figlio al quale
non è stata in grado di prestare le cure di cui ha bisogno, mentre trascura le
sofferenze di un bambino che, privato delle stesse cure, vive in un mondo di
adulti non protettivi, nei quali si trova smarrito e confuso, senza la
possibilità di tessere quei legami sicuri senza i quali la sua personalità
futura sarà gravemente compromessa.
Attorno a questa cultura adultocentrica sta fiorendo
un mondo di psicologi, psichiatri, consulenti, avvocati disposti ad assumere
incarichi a favore della famiglia potenzialmente o realmente maltrattante, ed i
bambini sono sempre più soli.
Ma non basta: il peso dell’opinione pubblica negativa
non può non giungere ad influenzare anche l’inconscio dei tecnici deputati ad
assumere le decisioni necessarie per il futuro di un bambino privo di famiglia
affidabile, causando ritardi nelle decisioni, incertezze, provvedimenti
provvisori che a loro volta allungano i tempi dell’inserimento sociale
definitivo del bambino, e qualche volta giungono a renderlo impossibile.
Ma non basta ancora: l’ostilità dell’opinione pubblica
ostacola anche le decisioni delle coppie, specie di quelle che si renderebbero
disponibili all’accoglienza di un bambino in affidamento familiare temporaneo,
che possono chiedersi se la loro disponibilità non possa renderle complici
delle “crudeltà” e delle “politiche antifamiliari” dei giudici e degli
operatori sociali. Così, proprio quegli sposi che più di altri sarebbero
disposti ad impegnarsi in modo disinteressato, ad accogliere un bambino nel suo
esclusivo interesse, possono giungere a pensare che sia meglio tenersi fuori da
queste complicazioni e da queste ambiguità.
Se il pregiudizio produce queste remore nei confronti
dell’affidamento familiare, più gravi ne produce nei confronti dell’adozione di
bambini già grandicelli, rispetto ai quali il fantasma del fallimento sembra
assumere ancor maggiore concretezza.
E gli istituti, le comunità alloggio, le case famiglie
continuano a tener stretti i loro piccoli clienti che intanto diventano grandi
senza poter sperimentare il potere del benessere generativo o rigenerativo
dell’ambiente familiare del quale hanno bisogno e al quale hanno diritto.
5. Conclusione
Il bambino già provato da vicende familiari
dolorosamente istruttive come sono tutte quelle che portano ad una
dichiarazione di adottabilità o comunque ad un allontanamento dal suo nucleo
familiare, si trova suo malgrado stretto tra due diverse modalità di intendere
l’adozione: da un lato ha chi fa la promessa inquietante e insulsa, dettata da
puri motivi populistici, quindi adultocentrici, di adozioni più facili;
dall’altro ha chi lo vorrebbe per sempre in istituto, per tutelare gli adulti
da possibili contestazioni o da un’esperienza di genitorialità pregiudicata
come “artificiale”. Tale infatti sarebbe la genitorialità adottiva, se quella
biologica viene definita, come avviene a tutti i livelli della comunicazione
mass-mediale, “naturale”!
E come possono vivere bene due genitori e un figlio
che sentono definire il loro rapporto “artificiale”?
(*) Psicologa e psicoterapeuta.
www.fondazionepromozionesociale.it