Prospettive
assistenziali, n. 134, aprile-giugno 2001
Quale formazione per gli alunni con handicap dopo la scuola
dell’obbligo
emanuela buffa (*)
Prima di parlare di offerte formative dopo la scuola
dell'obbligo per le persone con handicap vorrei dire due parole su questi
ragazzi, quali possono essere le tipologie di handicap da cui sono affetti, di
quale gravità e soprattutto che cosa si aspettano dalla vita, sia loro che le
loro famiglie.
Voi sapete bene che non esiste un solo tipo di
handicap, siete certamente già venuti in contatto con ragazzi con problemi più
o meno gravi: non udenti, non vedenti, ipovedenti, persone affette da paresi e
costrette su una sedia a rotelle, persone con handicap intellettivo o psichico
e così via. Sono tutte situazioni molto dolorose che necessitano ovviamente di
interventi ad hoc, interventi individualizzati che aiutino la persona ad essere
il più possibile autonoma ed indipendente.
Ma c’è un'altra distinzione a mio avviso molto
importante da fare quando si parla di handicap e cioè bisogna imparare a
distinguere quelle patologie che presentano delle compromissioni solo a livello
fisico o sensoriale lasciando inalterate le capacità intellettive e quelle
invece in cui l'handicap sta proprio nel non riuscire a raggiungere dal punto
di vista intellettivo degli standard adeguati. La compromissione a livello
intellettivo può essere più o meno grave e ovviamente ciò comporta delle
capacità più o meno elevate e quindi degli interventi che vanno in una
direzione piuttosto che in un'altra. Sono queste le persone che secondo noi
hanno bisogno di tutele e di attenzioni particolari:
1) perché non hanno gli strumenti intellettivi per
poter gestire autonomamente la propria vita e le proprie scelte;
2) perché la presenza di interventi su di loro può
rendere queste persone autonome e attive e quindi farle sperare in una vita il
più possibile normale mentre la mancanza di interventi idonei può al contrario
costringerle per tutta la vita ad essere dei soggetti passivi solamente da
assistere.
Chi è costretto su una sedia a rotelle ma ha un
cervello che funziona benissimo, una volta risolto il problema delle barriere
architettoniche, del trasporto, dell'adeguamento del posto di lavoro, ha la
possibilità di fare una vita abbastanza normale. Non potrà correre, questo è
vero, ma potrà studiare, andare all’università, trovare un lavoro, mantenersi
da solo. Potrà fare delle scelte, viaggiare, comunicare con gli altri, stare in
mezzo alla gente, avere degli amici.
Chi ha un handicap intellettivo ha altre disabilità
che possono sembrare a prima vista meno invalidanti (se l'handicap non è grave)
ma che invece non sempre permettono loro di essere indipendenti,
autosufficienti, in grado di reggere le richieste di una società come la nostra
che richiede prestazioni sempre più elevate e che tende ad emarginare chi non
riesce a stare al passo. Essi devono imparare anche le piccole cose, ciò che
gli altri fanno senza problemi per loro è spesso motivo di ansia, di
difficoltà, non sono in grado di farle se per esempio non le hanno provate
tante e tante volte.
Ma noi sappiamo, e questa è la grossa scommessa che
vogliamo a tutti i costi vincere, che anche loro possono farcela. Ma ciò può
avvenire solo a determinate condizioni e cioè se tutta la società si fa carico
del loro problema, crede nelle loro capacità e mette a loro disposizione gli
strumenti idonei per farli crescere e diventare indipendenti e produttivi.
Arriviamo al nodo principale: il lavoro
Il lavoro è importante per tutti in questa nostra
società, ma per una persona con handicap e per la sua famiglia è fondamentale.
Per questi ragazzi è la chiave d'accesso alla normalità, è forse l'unico modo
per sentirsi come tutti gli altri, è la più efficace delle medicine. Solo
andando a lavorare potranno uscire dalle loro case, stare in mezzo alla gente,
sentirsi utili e non un peso, migliorare le loro capacità e condurre una vita
il più possibile autosufficiente e gratificante.
La nostra esperienza, e quella di chi si occupa da
anni di queste problematiche, fa dire che l'handicap in moltissimi casi si può
ridurre, può essere contenuto ovviamente se non è così grave da rendere
impossibile qualsiasi intervento rivolto ad un inserimento nel mondo del
lavoro: per queste persone con un handicap molto grave comunque la società deve
garantire certi servizi fondamentali che aiutino loro ed i loro famigliari a
vivere meglio: ecco perché, accanto al diritto al lavoro per coloro che hanno
potenzialità, anche minime, noi lottiamo perché le leggi sull'assistenza
prevedano in ogni Comune un numero adeguato di centri diurni assistenziali e
comunità alloggio.
Ma per tutti coloro per i quali è concretamente
ipotizzabile un inserimento lavorativo, è assolutamente doveroso prevedere
percorsi per metterli in condizione di poter un giorno entrare nei normali
circuiti lavorativi.
Così come nessuno si sognerebbe di mandare allo
sbaraglio, senza un'adeguata preparazione, i ragazzi normali in un'azienda,
allo stesso modo, anzi a maggior ragione, si deve prevedere una formazione
idonea anche per chi ha delle disabilità. Non è pensabile infatti che un
qualsiasi datore di lavoro voglia assumere una persona che non sia in grado di
svolgere una mansione, magari semplice ma pur sempre utile. E se non si prevede
un corretto percorso di formazione lavorativa per questi ragazzi, essi non
troveranno mai nessuno disposto ad assumerli. E nemmeno noi vorremmo che
qualcuno li assumesse solo per obbligo di legge per poi metterli da una parte a
non fare nulla, cosa che purtroppo una volta succedeva e adesso molto meno,
proprio grazie agli sforzi fatti per far comprendere che queste persone,
adeguatamente formate, possono benissimo essere produttive soprattutto se
inserite in contesti che li accettano, con mansioni a loro idonee e dopo anni
di formazione adatta. Anche la nuova legge sul collocamento dei disabili
prevede percorsi di questo tipo, percorsi che sono poi l'equivalente di quelli
previsti per le persone normali che ad un certo punto della loro vita hanno
bisogno di riqualificazione.
Ma ecco uno dei punti cruciali: qual è la formazione
adatta per loro? Che cosa serve veramente a questi ragazzi? L’esperienza ci
dice che per formarli correttamente bisogna innanzitutto lavorare duramente e
con costanza: questi ragazzi devono prima di tutto avere delle basi su cui
costruire le abilità lavorative, essere autonomi il più possibile nella vita di
tutti i giorni, saper muoversi sul territorio, sapere usare il denaro. Tutte
cose che possono sembrare ovvie e facili ma che non lo sono affatto per chi ha
un deficit intellettivo: sono apprendimenti fondamentali senza i quali non si
può andare avanti e che richiedono ore ed ore di lezioni, di prove e di
verifiche sul campo. E che richiedono anche una grande fiducia in questi
ragazzi, un po' di incoscienza talvolta e soprattutto una grande
professionalità in chi si deve occupare di insegnarle.
In particolare, essi devono imparare ad avere fiducia
in se stessi, ad essere coscienti dei propri limiti ma anche delle proprie
potenzialità. Devono avere accanto persone preparate che li accompagnino
all'interno del mondo del lavoro, che spieghino loro ciò che devono fare non
astrattamente come si fa sui banchi di una scuola ma praticamente all'interno
di normali ambienti di lavoro, a contatto con persone normali. Con qualcuno
riusciranno ad instaurare dei buoni rapporti interpersonali, con altri meno ma
tutte queste esperienze li aiuteranno a crescere e maturare.
È un investimento grosso e importante quello che si
deve fare su questi ragazzi, ma vi assicuro che ne vale la pena, non solo dal
punto di vista umano ma anche dal punto di vista puramente economico. Infatti è
un investimento che alla società ritornerà presto: una persona che deve essere
assistita tutta la vita perché non è stata messa in grado di creare il proprio
futuro costa tantissimo alle casse dello Stato, ma una persona che si guadagna
la vita col suo lavoro, anche semplice, è produttiva, paga le tasse e
contribuisce allo sviluppo del suo paese oltre che al suo personale.
Le nostre associazioni per prime hanno capito l'importanza
di questo ragionamento e certamente Torino adesso è all'avanguardia per quanto
riguarda gli inserimenti lavorativi: nel corso degli anni, molti sono i ragazzi
che dopo numerosi percorsi formativi hanno potuto trovare lavoro presso aziende
pubbliche e private o presso cooperative.
Noi continuiamo da anni a batterci perché vengano
garantiti posti di lavoro idonei alle loro capacità all'interno delle aziende,
all'interno delle pubbliche amministrazioni.
Ma soprattutto non possiamo permetterci di smettere di
chiedere che sia garantito il diritto ad una formazione professionale specifica
anche per loro così come per tutti gli altri giovani e gli altri lavoratori che
hanno bisogno di una qualifica o di una riqualifica nel corso della loro vita
lavorativa.
Cosa può e deve fare la scuola superiore in questo
contesto?
Le nuove direttive sull'innalzamento dell'obbligo
scolastico e formativo danno alle scuole una grande responsabilità e non nego
che ci preoccupino non poco. L'inserimento dei ragazzi con handicap all'interno
dei normali circuiti scolastici è stata ed è una grossa conquista della nostra
società che dobbiamo difendere a tutti i costi ma dobbiamo stare attenti che
non ci si ritorca contro perché ciò che dobbiamo difendere innanzitutto è la
qualità di questa integrazione: la scuola superiore, nei confronti delle
persone con handicap, non deve solo avere il compito di inserirle e
possibilmente integrarle, ma, come del resto per tutti i ragazzi, deve
preparare il terreno per il loro futuro lavorativo, deve dar loro una corretta
informazione ed un corretto orientamento e strumenti idonei per raggiungere gli
obiettivi del loro progetto di vita. Laddove esistono anche delle pur minime
potenzialità, questi ragazzi e le loro famiglie hanno diritto a qualcosa di più
di un semplice parcheggio, di un semplice inserimento a scopo socializzante:
hanno bisogno di attenzioni e di interventi mirati che non si possono
improvvisare e che purtroppo non tutte le scuole sono ancora in grado, o non
ritengono loro compito, dare.
L'anno scorso ci siamo battuti perché fosse possibile
assolvere all'obbligo scolastico anche nella formazione professionale o nei
corsi prelavorativi, ma ciò non è stato accettato ed i ragazzi che avevano
scelto quel percorso hanno dovuto iscriversi alla scuola superiore. Ci
piacerebbe sapere come è andata questa esperienza, è stata produttiva,
arricchente, li ha aiutati a maturare ed a scegliere meglio il loro futuro? Se
le risposte a queste domande sono positive ne siamo certo tutti contenti. E per
i prossimi anni quali indicazioni sono state loro date? Che orientamento è
stato fatto? È prevista l'uscita dalla superiore o invece li si terrà fino a 18
anni ed oltre nella scuola e con quali progetti? E il dopo? Tutti i ragazzi che
entrano in una scuola superiore hanno come obiettivo quello di arrivare fino in
fondo, di diplomarsi o di conseguire una qualifica professionale. Perché non
chiedere questo anche ai ragazzi con handicap intellettivo? Perché non aiutarli
in tutti i modi possibili a raggiungere questi obiettivi? Perché in tante
scuole si chiede subito, fin dai primi giorni, la valutazione differenziata
senza nemmeno aver verificato le loro potenzialità? È ovvio che il lavoro da
fare per portare un ragazzo con handicap intellettivo ai livelli di apprendimento
minimi del resto della classe è molto duro per tutti ma se si lavora bene e in
sinergia (famiglia, insegnanti, compagni, il ragazzo stesso) si può pensare di
riuscirci. Mi piace, a questo proposito, portare l'esempio di mio figlio
Stefano che è riuscito a conseguire la sua qualifica professionale di
"tecnico dell'industria grafica": ciò è stato possibile, ad essere
sinceri, non tanto per la spontanea disponibilità del corpo docente della
scuola quanto per la caparbietà della famiglia che ha lottato fin dal primo
anno perché gli fosse data questa chance, che ha creduto in lui e nelle sue
possibilità anche a dispetto di quanto ritenessero molti insegnanti, che ha
preteso che tutti gli insegnanti lavorassero per garantirgli di arrivare a
raggiungere gli obiettivi minimi richiesti, che l'ha aiutato in ogni modo
possibile a studiare, a fare i compiti, a raggiungere un livello di
apprendimento soddisfacente in tutte le materie. È stata una grossa fatica ma
io sono convinta che ne sia valsa la pena. Io sono convinta che se non mi fossi
imposta e avessi accettato la valutazione differenziata, Stefano non avrebbe
avuto lo stimolo a studiare, a cercare di imparare le stesse cose dei suoi
compagni anche se per lui molto difficili, a raggiungere delle abilità pratiche
che potranno servirgli in un futuro lavorativo. E allo stesso tempo anche gli
insegnanti non sarebbero stati stimolati a stargli dietro, a progettare delle
soluzioni per rendere semplici determinati argomenti, a coinvolgerlo il più
possibile nelle lezioni, a creare intorno a lui tutta una rete di supporti che
lo aiutassero a raggiungere il suo obiettivo.
Perché allora non dare a tutti questa possibilità?
Perché limitarsi a progettare per loro dei progetti SEF (Scuola e Formazione)
che prevedono un certo numero di ore fatte all'interno di un Centro di
formazione professionale?
Ma siamo sicuri che questi progetti siano proprio il
meglio che si possa chiedere per questi ragazzi? A me sembrano un modo di dare
un contentino a tutti ma poi alla fine non accontentano nessuno: così come sono
attualmente strutturati questi progetti presentano secondo noi dei grossi
limiti il più importante dei quali è la riduzione drastica di opportunità
formative che la Regione mette in campo per questi ragazzi. Infatti a fronte
delle 2400 ore dei corsi prelavorativi, agli allievi che frequentano un corso
SEF sono garantite al massimo 200 ore per 4-5 anni, e cioè per un totale di
800-1000 ore. Non bastano. E lo stage in azienda? Non è previsto. Perché?
Perché, ad esempio, i ragazzi normali che frequentano i corsi post-qualifica
all'interno di un centro di formazione professionale hanno un monte ore
decisamente superiore e fanno tirocinio all'interno di normali aziende? Per i
nostri ragazzi che hanno più problemi, che sono più tardi nel comprendere sono
sufficienti 200 ore? Io non credo proprio.
Inoltre questi percorsi differenziati allontanano il
ragazzo dalla classe per un certo numero di ore vanificando l'integrazione
dello stesso all'interno del gruppo classe, facendolo sentire ancora più
diverso dai suoi compagni e deresponsabilizzando ulteriormente gli insegnanti
di classe. Se proponessi una cosa simile a mio figlio rifiuterebbe di
parteciparvi se non ci sono anche i suoi compagni.
Ecco, secondo me, se la scuola vuole veramente fare
qualcosa per questi ragazzi deve aiutarci a fare pressione presso le Regioni
perché prevedano ogni anno corsi di formazione veramente adeguati, corsi
prelavorativi o inserimenti all'interno di normali corsi professionali con
adeguato supporto o corsi di avvio al lavoro per quei ragazzi che dalla scuola
superiore non riescono a trarre stimoli idonei alle loro esigenze. La scuola
superiore d'altronde o si attrezza ed in tutti i modi cerca di far emergere le
loro potenzialità e le loro capacità oppure forse è meglio che li aiuti a
scegliere la strada più consona alle loro esigenze. D’altronde anche le nuove
normative prevedono questo: I'obbligo formativo si può espletare o nella scuola
superiore, o nella formazione professionale (ed i corsi prelavorativi fanno
parte di questa) o nell'apprendistato. Opportunità per tutti, quindi anche per
gli handicappati.
So che molti non sono d'accordo con questo
ragionamento e vorrebbero che tutte le persone con handicap rimanessero il più
a lungo possibile all'interno della scuola superiore quasi che, togliendoli da
lì per inserirli in altri circuiti formativi, venisse tolto loro il diritto
allo studio. Noi non siamo di questa idea perché crediamo che tutte le
opportunità formative devono avere pari dignità perché tutte devono
innanzitutto aiutare i ragazzi a crescere in modo armonico, a rendersi conto
dei propri limiti non senza aver prima esplorato le proprie potenzialità.
Certo, tutti coloro che lo richiedono devono avere la garanzia di poter
rimanere nella scuola superiore, ma in questo caso la scuola deve fare di tutto
perché questo rappresenti per loro una vera opportunità di crescita, non solo
un parcheggio. A maggior ragione per chi ha potenzialità lavorative.
Ed invece mi sembra che questo nella scuola di tutti
non avvenga: la scuola è ancora concepita come luogo in cui si va per imparare
delle nozioni e non per imparare a vivere, è una scuola che include solo quelli
che sanno stare al passo con determinate richieste: chi per sua fortuna è
bravo, intelligente, ha una situazione famigliare ottimale, ha stimoli
socioculturali appropriati allora va avanti senza problemi e s'inserirà bene o
male nel mondo del lavoro e nella società. Chi al contrario ha, per i più
svariati motivi, delle difficoltà e non riesce a stare al passo con gli altri,
poco per volta diventa un emarginato, un drop-out che poi si cercherà di
ricuperare quando sarà troppo tardi. Ma non è meglio allora cercare di non
perderlo subito? Lavorare con chi è già bravo non mi sembra poi una grossa sfida,
ma lavorare per cercare di far emergere chi ha più difficoltà, aiutarlo a
capire quale potrà essere la sua strada, questa sì che è una sfida che tutti
dovrebbero cercare di vincere. Aiutare un ragazzo con un handicap intellettivo
che tutti consideravano irrecuperabile, "da gettare dalla finestra"
(leggere a questo proposito il bel libro di Giulia Basano “Nicola, un’adozione
coraggiosa”) a fare una vita normale, a trovare un lavoro, ad essere autonomo
nella sua vita di tutti i giorni, ecco questa è la vera sfida da cogliere.
Ma quanti la vogliono cogliere? Quanti sono disposti a
vedere dietro uno sguardo perso nel vuoto delle potenzialità tutte da scoprire?
Lavorare con la normalità è molto più facile, non richiede grosse abilità, non
fa rimettere in discussione anni consolidati di insegnamento. Ma lavorare
sull'handicap presuppone la voglia di rimettere tutto in gioco, prima di tutto
se stessi, dimenticare le certezze, accettare certe sfide ed umilmente andare
verso l'altro, mettersi se è il caso tutti contro, stravolgere il proprio modo
di far lezione, dare la precedenza ad altri valori che sono quelli della
solidarietà, della condivisione, della partecipazione. Valori che ai ragazzi, a
tutti i ragazzi, serviranno nella vita molto di più che non la nozione imparata
per forza e poi in fretta dimenticata.
Quanto più la scuola saprà dare una risposta a questa
tipologia di ragazzi: gli handicappati, i ragazzi a rischio, i ragazzi
cosiddetti difficili tanto più a mio avviso potrà dire di aver assolto al suo
compito. E la scuola dell'autonomia dovrà sempre più confrontarsi anche con
queste problematiche e dovrà mettere in atto dei progetti e delle strategie per
dare delle risposte concrete a queste persone.
La scuola superiore ha molto da imparare
dall'esperienza dei corsi prelavorativi e sarebbe bello che ogni tanto ci
fossero dei momenti di confronto anche con queste realtà. In tantissimi casi le
esperienze maturate con i disabili poi sono state utilizzate anche per le
persone normali. Faccio un esempio: solo fino a qualche anno fa gli Istituti
professionali non facevano esperienza concreta all'interno del mondo del lavoro
come fanno adesso con i corsi post-qualifica o post-diploma, con stage
all'interno delle aziende. Questa metodologia, al contrario, è sempre stata
attuata nel caso dei corsi prelavorativi perché si era già capito molto prima
che la sola teoria non poteva essere sufficiente e che i ragazzi dovevano
potersi mettere alla prova concretamente. Quanti ragazzi sono più bravi nel
fare concretamente delle cose piuttosto che solo spiegarle in teoria!
E nel campo del lavoro: una volta il tutor aziendale
di cui si parla tanto era riservato solo ai portatori di handicap, adesso ce
l'hanno anche i ragazzi normali che entrano per la prima volta in azienda.
Un'ultima cosa vorrei dire: Cari insegnanti, ascoltate
i genitori, progettate insieme a loro i percorsi, chiedete loro informazioni su
come relazionarsi al meglio con il ragazzo. Chi meglio di un genitore conosce
le esigenze dei propri figli? Chi le potenzialità ed i limiti? È vero, forse
talvolta qualche genitore non è del tutto obiettivo, qualche volta ha delle
aspettative che non corrispondono alle reali capacità del ragazzo o ancora
talvolta non sa valutare correttamente delle potenzialità che invece ci sono. Ma
io credo che questo sia raro. Ma quanti insegnanti ascoltano veramente ciò che
un genitore ha da dire sul proprio figlio? Nel caso poi dei ragazzi con un
handicap la famiglia è un punto di riferimento importantissimo e deve essere
considerata una risorsa, la prima risorsa a cui fare riferimento, prima dello
psicologo, prima del medico, prima di tutti gli specialisti.
Nelle direttive ministeriali questo è ben specificato
ma quante volte ciò avviene veramente? Quante volte si parla con la famiglia
prima di fare il Pei (Piano educativo individuale)? Si chiede quali sono le sue
aspettative, gli obiettivi di vita per il figlio, si concorda un percorso
idoneo a far emergere tutte le sue potenzialità? Nella mia esperienza personale
questo è accaduto raramente e solo quando io stessa ho preteso che ciò
avvenisse. Solitamente l'insegnante di sostegno compila il PEI, quando ne è
capace, e poi me lo fa firmare, se tutto va bene. Quest'anno non ho ancora
avuto il piacere di vederlo e siamo a ... Pasqua!
Un grosso rischio che si corre con questi ragazzi è
l'eccesso di medicalizzazione, I'idea che abbiano solo bisogno di rieducazione,
di riabilitazione, di interventi specifici mentre il più delle volte hanno solo
bisogno di più tempo, di persone che li ascoltino, che li accolgano, che
sappiano far emergere quelle potenzialità che ci sono in ognuno di loro, anche
nei più gravi. Il grosso problema è che troppo spesso si pensa solo a ciò che
non sanno fare e non a ciò che potrebbero fare. Si pensa alla percentuale di
invalidità e non alla capacità lavorativa. E questo non li aiuta certo ad
andare avanti e a crescere: se non si fanno prima emergere le potenzialità e si
lavora molto su di esse gratificando il bambino o il ragazzo per fargli capire
che anche lui è abile, è capace a fare delle cose belle come si potrà pensare
che questa persona abbia voglia di impegnarsi e superare le sue difficoltà, il
suo handicap? Purtroppo questo è un lavoro lungo da fare, richiede tanta
attenzione e pazienza che invece nella scuola non sempre c'è. Ci sono i
programmi ministeriali da svolgere, i compiti in classe da fare e da
correggere, le interrogazioni, il tempo è poco e se stiamo dietro alle esigenze
di ognuno rischiamo di arrivare alla fine dell'anno senza aver svolto tutto il
programma. E allora? Sarebbe così grave? Io credo che ai nostri ragazzi, a
tutti i ragazzi farebbe meglio un po' più di stima in se stessi, un po' più di
apprendimento cooperativo, un po' più di sana cultura sull'handicap e sulla
diversità.
Queste cose non le dimenticheranno facilmente: avranno
imparato a rapportarsi con gli altri, anche con le persone che hanno più
problemi, con chi è diverso da loro e che ha bisogno anche del loro aiuto.
Impareranno e ricorderanno la disponibilità e la tolleranza verso tutti se verrà
loro insegnata giorno per giorno nella scuola e questo insegnamento servirà
molto nella vita futura.
(*) Coordinatrice del G.G.L. “Gruppo Genitori per il
diritto al lavoro delle persone con handicap intellettivo”. Relazione tenuta il
6 aprile 2000 all’Istituto professionale di Stato “Paolo Boselli” di Torino.
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