Prospettive assistenziali, n. 135, luglio-settembre 2001

 

I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà... “pericolosi per l’ordine pubblico” hanno ancora diritto ad essere assistiti dai comuni

Massimo dogliotti (*)

 

 

Certo, se tutto quanto promesso dalla legge n. 328/2000 fosse adempiuto, si realizzerebbe una sorta di paradiso in terra, non vi sarebbero più poveri ed emarginati, e la vita del ricco, come del meno ricco (i poveri scomparirebbero del tutto…) sarebbe la migliore possibile.

Un’utopia inutile e pericolosa. Non potendosi attuare quanto prefigurato, la legge usa una tecnica assai ambigua e… notevolmente ipocrita. Tutto è lasciato alla discrezionalità degli enti locali: le Regioni per la programmazione, i Comuni per l’erogazione delle prestazioni (quando non ancora - per alcune competenze, seppur limitate - le Province). Essi potenziano i servizi, determinano i sussidi, ecc. “nei limiti delle disponibilità di bilancio”. È vero che si prevedono priorità nell’assistenza ad alcune categorie di soggetti emarginati: anziani non autosufficienti, handicappati, malati di mente, tossicodipendenti, minori a rischio, ecc., ma “la priorità”, ancora una volta, dipende dalla scelta incontrollata dell’ente che potrebbe destinare all’assistenza le briciole di un bilancio volto ad altri fini, magari più utili elettoralisticamente. E allora, in tal caso, con un procedimento perfettamente “legale”, l’ente non erogherebbe le prestazioni “minime” per soggetti emarginati. Né questi potrebbero chiedere l’erogazione, in quanto il bilancio non lo permetterebbe.

Ma allora la vecchia (e superata) distinzione tra spese obbligatorie e facoltative del Comune, laddove le prime, ispirate ad esigenze irrinunciabili di interesse generale, dovevano necessariamente prescindere dai limiti di bilancio, era forse più condivisibile?

Si è detto - nei lavori preparatori della legge, nelle dichiarazioni entusiastiche di Ministri e politici, e di alcuni commentatori - che la legge n. 328/2000 migliorerà notevolmente la vita di ciascun cittadino, e soprattutto dei più poveri ed emarginati. Se questo è il principio, il criterio ispiratore e, conseguentemente, il metro di interpretazione della legge, bisognerà allora affermare che tutte quelle disposizioni (che non sono state esplicitamente abrogate) e che prevedono obbligatoriamente prestazioni a servizi da parte della pubblica amministrazione (centrale o periferica, e comunque oggi in genere attribuita alla competenza dell’ente locale) sono ancora in vigore; altrimenti il soggetto destinatario (quasi sempre soggetto “a rischio”, emarginato) potrebbe paradossalmente trovarsi in una situazione deteriore rispetto… al 1930 o addirittura al 1889, quando all’obbligatorietà di (poche) prestazioni, magari previste più per ragioni di ordine pubblico che per garantire una vita appena dignitosa al soggetto emarginato, corrispondeva un diritto esigibile del soggetto, che invece non si individua con le ampollose e roboanti affermazioni della legge n. 328/2000.

Gli articoli 154 e 155 del testo unico di pubblica sicurezza non sono mai stati abrogati, né lo potevano essere da una legge quadro sull’assistenza, stante la diversità di fini perseguiti: nella specie, come si diceva, esigenze di ordine pubblico (e infatti gli “inabili a proficuo lavoro” venivano considerati “persone pericolose per la società”, in quanto avrebbero potuto mendicare in luogo pubblico o aperto al pubblico, incorrendo così in ipotesi  di reato). L’articolo 154 precisa che, per le persone riconosciute dall’autorità locale di pubblica sicurezza inabili a qualsiasi proficuo lavoro (e tra questi vanno sicuramente considerati, tra gli altri, i minori, i soggetti handicappati, gli anziani con limitata autosufficienza) e che non abbiano mezzi di sussistenza, quando non si possa provvedere con la pubblica beneficenza, i provvedimenti di ricovero in un istituto di assistenza o di beneficenza del luogo o di altro Comune sono attribuiti al Prefetto (ora al Sindaco ai sensi dell’articolo 19, punto 16, del Dpr 616/1977). Il successivo articolo 155 precisa che i parenti tenuti agli alimenti del soggetto inabile al lavoro sono diffidati ad adempiere al loro obbligo, dall’autorità di pubblica sicurezza; decorso il termine l’inabile è ammesso al beneficio del gratuito patrocinio per promuovere il giudizio per gli alimenti, senza che vi sia possibilità alcuna di sostituzione dell’avente diritto con l’ente erogatore, come è ormai sostanzialmente pacifico, e senza che l’inottemperanza alla diffida da parte dei parenti - è doveroso aggiungerlo - possa ostacolare e sospendere la procedura del ricovero.

Ma il regolamento di attuazione del testo unico di pubblica sicurezza  è ancora più specifico e chiaro al riguardo. L’art. 277 considera inabili a qualsiasi lavoro proficuo i fanciulli che non hanno compiuto i dodici anni e le persone che per infermità cronica o per gravi difetti fisici o intellettuali, non possono procurarsi i mezzi di sussistenza. Secondo i successivi articoli, l’autorità di pubblica sicurezza indirizza all’ufficiale sanitario (oggi all’Asl) la persona che afferma di essere “inabile al lavoro”; l’ufficiale sanitario fa pervenire, addirittura entro cinque giorni, seppur prorogabili, la relazione; se la persona, riconosciuta “inabile”, è priva di mezzi di sussistenza, essa è “proposta” dall’autorità di pubblica sicurezza agli istituti di beneficenza e assistenza pubblica, esistenti nel Comune, per il ricovero, ovvero, perfino, per il soccorso a domicilio. Ove non sia possibile provvedere con la pubblica beneficenza, l’autorità di pubblica sicurezza trasmette la proposta di ricovero al Sindaco per i provvedimenti del caso. La procedura si attiva, anche quando l’inabile possa parzialmente provvedere alle spese di mantenimento. È vero che, come il testo unico, anche il regolamento, si riferisce ai parenti tenuti agli alimenti e in grado di fornirli. Ma il preminente interesse pubblico (originariamente per evitare il turbamento derivante dalle possibilità che il soggetto inabile mendicasse o compisse più gravi reati, oggi in modo ben più accettabile, per affermare la piena e diretta tutela della persona umana e della sua dignità, ciò che - almeno  astrattamente - è pure ampiamente proclamato dalla stessa legge n. 328/2000) esclude che  il mancato contributo dei parenti impedisca l’attivarsi della procedura, con il ricovero o il soccorso a domicilio (come si diceva, i parenti riceveranno una diffida e il soggetto inabile, ammesso al gratuito patrocinio, potrà, se lo vorrà, agire in giudizio nei loro confronti, lui stesso, com’è noto, ma non, in sua sostituzione, l’ente erogatore della prestazione).

La visita all’ufficiale sanitario  (oggi Asl), il ricovero o il soccorso a domicilio da parte della “beneficenza pubblica” (oggi ovviamente gestita dal Comune, per l’intervento specifico, e dalla Regione, per la programmazione generale), i provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza e del Sindaco sono sicuramente atti dovuti, e l’inottemperanza potrebbe dar luogo a responsabilità penale per i soggetti tenuti; d’altro canto per l’interessato “inabile” non si potrebbe certo parlare di semplice aspettativa, ma di vero e proprio diritto (se si dovesse ritenere preminente oggi, sulla preoccupazione dell’ordine pubblico, quella di garantire la protezione del soggetto debole e della sua salute) o quanto meno di interesse legittimo. Nel primo caso “l’inabile” potrebbe rivolgersi al giudice ordinario per ottenere una sentenza dichiarativa del proprio diritto al ricovero o al soccorso a domicilio (in caso di persistente inottemperanza della pubblica amministrazione, si potrebbe, tra l’altro, ipotizzare un intervento a pagamento dell’assistenza privata, con successiva richiesta di rimborso e risarcimento dei danni all’autorità pubblica). Nel secondo, ci si potrebbe rivolgere al giudice amministrativo, chiedendo direttamente la condanna della pubblica amministrazione al compimento degli atti dovuti.

 

(*) Magistrato della Corte di appello e docente di diritto all’Università di Genova.

 

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