Prospettive assistenziali, n. 136, ottobre-dicembre 2001

 

 

aspetti salienti della vicenda relativa ai contributi economici illegittimamente richiesti dagli enti pubblici ai congiunti di assistiti maggiorenni

francesco santanera

 

 

Appena è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale, abbiamo manifestato la nostra viva soddisfazione nei riguardi del decreto legislativo 130/2000, in base al quale, per le prestazioni sociali erogate a domicilio, presso centri diurni e strutture residenziali ai soggetti con handicap grave ed agli ultrasessantacinquenni non autosufficienti, gli enti pubblici (Comuni, loro Consorzi, Comunità montane, Province, Asl, ecc.) devono prendere in considerazione esclusivamente la situazione economica dell’assistito e non quella dei parenti, compresi i congiunti tenuti agli alimenti (1).

Siamo anche lieti che, finalmente, dopo 16 anni dall’avvio della prima vertenza, il Comune di Torino abbia “esonerato” i parenti degli anziani non autosufficienti dal versamento di contributi economici, anche se, in realtà, non si tratta di una “esenzione” benevolmente concessa, ma dell’approvazione di norme conformi alle leggi vigenti (2).

 

Premesse

Anche se i lettori di Prospettive assistenziali conoscono da anni il problema, riteniamo opportuno riepilogare nelle sue linee principali il sofferto percorso di questa lunga e durissima battaglia, non ancora terminata (3).

Va notato che le norme del decreto legislativo 130/2000 non fanno altro che ribadire non solo la validità della nostra posizione, ma anche il contenuto, spesso ignorato, dell’articolo 438 del codice civile, in vigore dal 1942!

Confidiamo che, dai risultati positivi raggiunti, i lettori traggano la forza necessaria per ottenere il rispetto delle leggi, tanto più se esse sono in favore delle persone più deboli.

Ricordiamo, inoltre, che la vertenza sui contributi illegalmente richiesti ai parenti di assistiti maggiorenni è stata condotta dalle associazioni aderenti al Csa, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, di Torino e da Prospettive assistenziali non solo senza alcun aiuto concreto da parte di altre organizzazioni, comprese quelle a cui aderiscono gli assistenti sociali, ma anche con l’opposizione dei Sindacati Cgil, Cisl e Uil.

Rarissimi i sostegni forniti dagli operatori dei servizi socio-assistenziali, fatto che la dice lunga sulla loro sensibilità nei confronti dei soggetti deboli.

Non sono nemmeno mancati gli attacchi perso­-nali (4).

Senza alcun risultato concreto le richieste di interventi rivolte ai Prefetti (5).

 

Riferimenti legislativi essenziali

j Il primo comma dell’art. 438 del codice civile stabilisce che «gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento» (6). La legge è, dunque, chiarissima: solo chi è in situazione di bisogno può (non deve) chiedere gli alimenti ai suoi congiunti. Nessuno (persona o ente) può sostituirsi al soggetto interessato, salvo che questi sia stato dichiarato interdetto e quindi venga rappresentato dal tutore nominato dall’autorità giudiziaria. Pertanto, è evidente che gli enti pubblici che si sostituiscono al soggetto interessato compiono un’azione illecita.

k Il terzo comma dell’art. 441 del codice civile prevede quanto segue: «Se gli obbligati non sono concordi sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze». Anche in questo caso la norma non lascia spazi a dubbi: se non c’è l’accordo fra colui che richiede gli alimenti e coloro che sono tenuti a fornirli, ogni decisione spetta all’autorità giudiziaria.

Ciò nonostante, quasi tutti gli enti pubblici (Comuni, Consorzi di Comuni, Comunità montane, Province, Asl, ecc.) non hanno mai tenuto in alcuna considerazione la legge e si sono arrogati indebitamente non solo il potere di individuare i soggetti dai quali pretendere i contributi, ma hanno altresì definito arbitrariamente l’ammontare degli oneri imposti ai congiunti degli assistiti maggiorenni, addirittura emanando delibere contenenti le tabelle delle quote che dovevano essere versate dai familiari in base ai loro redditi.

Si è arrivati al punto che, pur di spillare denaro ai più deboli, l’Assemblea dei 55 Sindaci dell’Asl 9, comprendente anche il Comune di Ivrea (Torino), abbia approvato in data 4 settembre 1998 la deliberazione n. 1090, in base alla quale ai soggetti con handicap intellettivo, incapaci di svolgere qualsiasi attività lavorativa, il cui reddito mensile era allora di appena 388 mila lire al mese, venisse richiesto un contributo mensile di lire 76 mila per la frequenza di un centro diurno.

Evidentemente, per quei Sindaci, con 388 mila lire mensili (a tanto ammontava nel 1998 la pensione di invalidità) (7), i soggetti di cui sopra conducevano un’esistenza da nababbi e quindi erano in grado di versare le 76 mila lire mensili richieste. Se i redditi superavano le 400 mila lire al mese, la delibera
citata prevedeva la corresponsione di 152 mila lire mensili!

In conclusione, dall’esame della legislazione in vigore, emerge in modo indiscutibile che l’eventuale richiesta e/o la rinuncia agli alimenti sono un problema interno della famiglia.

Al riguardo, segnaliamo che l’Ussl 27 di Ciriè (Torino) ha richiesto il versamento di contributi economici ai figli che erano stati dichiarati in stato di adottabilità, in quanto il genitore non aveva fornito loro alcun sostegno né materiale, né morale. Solo uno dei ragazzi era stato adottato in quanto per gli altri non erano stati reperiti coniugi o persone singole disponibili. Al compimento del 18° anno di età, lo stato di adottabilità di tre figli era quindi venuto meno. Di conseguenza, anche se la situazione di abbandono non era cambiata, si erano ristabiliti i rapporti giuridici fra il padre ed i tre figli (8).

 

La vertenza con gli enti pubblici

ha inizio nel 1985

La vertenza del Csa nei confronti degli enti pubblici ha inizio con la pubblicazione sul n. 72, ottobre-dicembre 1985, dell’articolo di Massimo Dogliotti “Obbligo alimentare e prestazione assistenziale”, in cui il noto giurista, dopo aver illustrato le norme vigenti, afferma che «non è data possibilità all’ente erogatore di assistenza di chiamare in giudizio i parenti tenuti agli alimenti per sentirli condannare all’adempimento della prestazione nei confronti del congiunto povero», precisando che «non si vuole evidentemente, con queste affermazioni, incoraggiare la famiglia ad infrangere gli obblighi verso un suo componente che sono senza dubbio morali prima ancora che giuridici».

Nell’articolo era inoltre precisato che «obbligo alimentare e prestazioni assistenziali rispondono a logiche diverse e non vanno confusi (anche se confusioni e commistioni farebbero molto comodo a chi – e sono oggi in molti – sull’onda della crisi eco­nomica, predica la fine dei sistemi di sicurezza sociale)».

Abbiamo assunto come riferimento la posizione di Dogliotti, non condividendo l’opinione di coloro che, trascinati dall’emotività e da un falso moralismo, ritengono che alle famiglie con soggetti colpiti da gravi handicap o da malattie invalidanti debbano essere imposti oneri aggiuntivi rispetto a quelli sostenuti dagli altri nuclei, i cui componenti possiedono piena autonomia e buone condizioni di salute.

Riteniamo, invece, valida l’esperienza del Csa (funzionante ininterrottamente dal 1970) e dalle associazioni aderenti (9), la quale dimostra che, per fornire aiuti concreti ai soggetti non autonomi a causa di handicap (10) o di malattie invalidanti, occorre favorire concretamente la loro permanenza in famiglia.

È molto preoccupante dover constatare che, mentre molti ritengono corretta l’imposizione di contributi economici ai congiunti di malati di Alzheimer, di anziani cronici non autosufficienti e di soggetti col­piti da gravi handicap ricoverati in istituti di assistenza (11), gli stessi non hanno mai avanzato alcuna protesta nei riguardi dell’integrazione al minimo delle pensioni Inps, nonostante che quest’ultimo intervento sia fortemente oneroso per lo Stato. Infatti la spesa annuale complessiva nel 1999 era di ben 41 mila miliardi.

Eppure anche l’integrazione al minimo delle pensioni Inps è un intervento di natura assistenziale e mai, per la sua erogazione, è stato fatto riferimento, ad esclusione del coniuge (12), alla situazione economica dei parenti tenuti agli alimenti. Inoltre, fatto a nostro avviso moralmente inaccettabile, per il trattamento minimo delle pensioni Inps, non si tiene conto dei patrimoni posseduti dall’interessato, che possono anche raggiungere l’ammontare di 1-2 miliardi.

Analoghe considerazioni valgono per le pensioni e gli assegni sociali, erogati senza tener conto dei patrimoni dei beneficiari, ma solo dei relativi redditi. La casa in cui il soggetto abita non è considerata, qualunque sia il suo valore.

Inoltre, in base ai decreti legislativi 109/1998 e 130/2000, per la corresponsione delle quote dovute da coloro che utilizzano prestazioni sociali, il patrimonio posseduto è calcolato solamente nella misura del 20%.

Tuttavia, di fronte a queste palesi ingiustizie sociali, tutti tacciono.

In sostanza, numerosi enti pubblici, pur essendo vicini ai cittadini (Regioni, Province, Comuni, Asl, ecc.), invece di attuare iniziative di solidarietà nei riguardi delle persone e dei nuclei familiari colpiti sul piano psicologico, morale ed economico a causa della presenza di loro congiunti con handicap invalidanti o con malattie inguaribili, si accaniscono, spesso con odiosi ricatti (se non firmate l’impegno di pagamento a vostro carico, il parente non verrà assistito), pretendendo l’esborso non dovuto di somme di denaro anche consistenti.

Premesso che tutti i malati devono essere curati dalla sanità, i congiunti devono essere sostenuti nella loro azione di volontariato intra-familiare consistente nell’accogliere a casa loro i parenti handicappati o malati, soprattutto se si tratta di soggetti non autosufficienti (13).

Estremamente negativo sul piano etico e spesso controproducente sotto il profilo sociale è la tendenza, purtroppo diffusa, di addossare ai familiari oneri anche insopportabili approfittando della loro disponibilità e facendo leva sui legami affettivi e umanitari che inducono molti congiunti a sostituirsi ai compiti che la legge (e il buon senso) attribuiscono al set­tore pubblico, com’è il caso delle prestazioni sanitarie (14).

 

La prima iniziativa concreta

Dalla pubblicazione dell’articolo di M. Dogliotti trascorrono più di due anni, prima che un genitore si ribelli all’imposizione di contributi per la frequenza di un centro diurno per adulti colpiti da handicap intellettivo.

È datata 25 maggio 1988 la lettera inviata all’Assessore alla sicurezza sociale della Provincia di Torino dall’Avv. Vincenzo Enrichens che riproduciamo integralmente: «Si è a me rivolto il signor S.C., il quale ha negli ultimi giorni ricevuto Vostra missiva destinata a richiedere la documentazione utile a determinare la contribuzione relativa alla sig.na S.D.

«Il signor S.C., il quale agisce altresì per conto della consorte signora D.A., rileva preliminarmente che la sig.na S.D., di anni 31, è maggiorenne, non interdetta e non inabilitata.

«In secondo luogo, il signor S.C., richiamate le disposizioni di cui alle norme relative all’individuazione delle categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale, che escludono dalla disciplina ivi prevista i servizi finalizzati all’inserimento sociale dei portatori di handicap, richiamate altresì le norme del codice civile che non prevedono la sostituzione da parte degli enti pubblici nella titolarità del diritto agli alimenti, ritiene di non poter accedere alla richiesta di codesta Amministrazione».

Come ha precisato lo stesso S.C., i criteri che hanno ispirato la sua iniziativa sono stati:

«1) nessuna legge prevede che possano essere chiamati a contribuire al costo della retta i parenti, anche quelli tenuti agli alimenti, di handicappati intellettivi maggiorenni;

«2) l’art. 438 del codice civile specifica chiaramente che solo chi è in stato di bisogno (o il di lui tutore) può chiedere gli alimenti ai parenti elencati nell’art. 433 del codice civile;

«3) se c’è contrasto fra le due parti, è il giudice a stabilire se gli alimenti devono essere corrisposti ed a fissarne l’entità. Ciò in ossequio all’art. 441 del codice civile. Gli enti pubblici non hanno alcuna competenza in materia;

«4) l’aspetto etico della pretesa. È mai possibile che ad un cittadino, la cui vita è già così fortemente compromessa ed il cui unico reddito, per la quasi generalità dei casi, è costituito dalla pensione di invalidità [all’epoca 250.000 lire mensili!], si possano richiedere contributi?».

Numerosi sono stati i tentativi messi in atto dall’Amministrazione provinciale di Torino per indurre S.C. e gli altri genitori a versare i contributi illegittimamente richiesti. In particolare è stato sostenuto che:

– il pagamento deve essere effettuato poiché stabilito da una delibera esecutiva ai sensi di legge (lettera dell’11 febbraio 1991);

– la circolare emanata dalla Regione Piemonte che esenta i soggetti con handicap assistiti dal versamento di contributi «non può comunque avere valore vincolante sui provvedimenti divenuti esecutivi» (lettera del 14 giugno 1991);

«l’art. 54 della legge 142/1990 di riordino delle autonomie locali ha chiarito una volta per tutte che gli Enti locali determinano per i servizi pubblici tariffe o corrispettivi a carico degli utenti anche in modo non generalizzato» (stessa lettera sopra citata).

Con la lettera del 7 luglio 1993 viene richiesto al signor S.C. il versamento degli arretrati per gli anni 1988, 1989 e 1990 entro 90 giorni, minacciando che, nel caso di mancata corresponsione della somma richiesta (L. 912.000), «questa Ammini­strazione darà senz’altro inizio alla procedura di recupero del credito, senza ulteriore avviso, valendo la presente quale formale diffida e messa in mora».

Anche a seguito delle pressioni esercitate dal Csa, e non avendo argomenti da contrapporre alle precisazioni fatte da S.C., la Provincia di Torino si rivolge alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli affari sociali, che gira la richiesta al Ministero dell’interno.

Il Direttore generale dei servizi civili del suddetto Ministero, nella nota 27 dicembre 1993, n. 12287/70, precisa che «la rivalsa in ordine ai contributi ai costi di determinate prestazioni assistenziali – da parte degli enti locali nei confronti dei soggetti obbligati agli alimenti ai sensi degli art. 433 e seguenti del codice civile – verso le persone in concreto assistite debba basarsi su espresse previsioni di legge».

Sottolinea inoltre che l’art. 33 bis della legge della Regione Piemonte n. 20 del 1982, mentre demanda a successive delibere la determinazione dei criteri per il concorso al costo dei servizi, si riferisce in modo inequivocabile «ai soli utenti in rapporto alle proprie condizioni economiche» (15).

Pertanto la Provincia di Torino, a seguito delle reiterate insistenze del Csa, dapprima (settembre 1994) comunica ai parenti che ogni contribuzione era da considerarsi non più dovuta dai parenti di handicappati maggiorenni frequentanti i centri diurni o ricoverati in strutture residenziali e, in seguito, dopo estenuanti trattative, nel luglio 1997, il Consiglio provinciale delibera di ritenere estinto ogni debito da parte degli utenti (16).

Va precisato che la Provincia di Torino, nonostante abbia introitato illegittimamente molti milioni dagli utenti e dai loro parenti, non ha previsto nessun rimborso.

 

La vertenza con il Comune di Torino

Essendosi dimostrate senza alcun esito le numerose iniziative assunte nei confronti del Comune di Torino per segnalare l’illegittimità della richiesta di contributi economici ai parenti di assistiti maggiorenni, nel giugno 1986, vengono presentati al Tar, Tribunale amministrativo del Piemonte, tre ricorsi sottoscritti dal Presidente dell’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale e da alcuni parenti di ricoverati per chiedere l’annullamento delle delibere approvate dall’amministrazione del capoluogo
piemontese e dalle Ipab “Casa geriatrica Carlo Alberto” (17) e “Convalescenziario alla Crocetta”.

Gli aumenti deliberati, concernenti la cosiddetta quota alberghiera (18), erano i seguenti:

– 41,25% (da lire 17.700 a lire 25.000) per l’Istituto di riposo per la vecchiaia, gestito direttamente dal Comune di Torino. Nessun aumento era previsto per la quota sanitaria;

– 26,60% (da lire 19.750 a lire 25.000) per l’Opera pia Convalescenti alla Crocetta, che ha incrementato la quota sanitaria di sole 50 lire (da lire 32.950 a lire 33.000);

– 12,60% (da lire 22.200 a lire 25.000) per la Casa geriatrica Carlo Alberto, che ha elevato la quota sanitaria del 6,85% (da lire 39.400 a lire 42.100).

Nei tre ricorsi viene contestato «il dover corrispondere, quali parenti, anche la quota alberghiera per la cura di malati solo perché questi non sono ricoverati, come dovrebbero, in ospedale».

Il Comune di Torino e le due Ipab sostengono, invece, che i parenti, avendo sottoscritto l’impegno di corrispondere la quota della retta non coperta dai redditi del congiunto ricoverato, sono obbligati a rispettarlo, trattandosi di un contratto di natura privata. A nulla era servita la precisazione che le firme erano state apposte dai parenti solamente perché il personale degli enti suddetti li aveva indotti in errore, avendo asserito che i familiari erano obbligati ad intervenire sul piano economico in base alle norme del codice civile sugli alimenti.

A seguito della ingannevole posizione espressa dal Comune di Torino, il Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, invita i parenti a disdettare gli impegni sottoscritti a favore del Comune stesso (19).

Precisiamo, inoltre, che non avevano ottenuto alcun risultato positivo le argomentazioni giuridiche presentate agli Amministratori comunali (20), le lettere agli Assessori, gli incontri con funzionari e operatori, gli articoli pubblicati su giornali e riviste, le interrogazioni presentate al Parlamento ed ai Consigli regionali e comunali, gli interventi svolti in occasione di convegni e conferenze, i volanti­naggi.

Nessun esito aveva avuto, altresì, l’intervento del Difensore civico della Regione Piemonte, al quale il Presidente dell’Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale aveva indirizzato il rapporto redatto dal Capo del Servizio sanitario ausiliario, dal quale risultava che presso l’Istituto di riposo per la vecchiaia, gestito direttamente dal Comune di Torino, nessun ricoverato era autosufficiente, tutti erano colpiti da patologie: anzi il 26% dei ricoverati ne aveva più di una. Di conseguenza, trattandosi di persone malate, non solo non doveva essere versata alcuna somma dai parenti, ma nemmeno dai ricoverati.

Nonostante tutti i tentativi operati (note inviate al Responsabile dell’Ussl ed agli Assessori regionale e comunale alla sanità e all’assistenza, incontro con l’Assessore all’assistenza del Comune di Torino avvenuto il 20 giugno 1988, contatto diretto con il Sindaco del 12 ottobre dello stesso anno), al Difensore civico nessuno inviò una risposta.

Solo l’aumento del numero delle disdette indirizzate al Comune di Torino mettono in crisi l’Amministrazione e in particolare l’Assessore all’assistenza di allora, Giuseppe Bracco. Questi, per non riconoscere l’illegittimità del suo comportamento, ricorre ad un espediente: modifica la delibera concernente i contributi illegalmente imposti ai parenti degli assistiti, elevando la quota esente da lire 400 mila a 1 milione e 400 mila lire. Di conseguenza, la maggior parte dei familiari non è più costretta a versare alcuna somma e l’Assessore è da molti giudicato un amministratore magnanime.

Nonostante l’inevitabile calo di partecipazione da parte dei familiari dei ricoverati, continua con immutata intensità l’azione del Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti (21).

 

Causa vinta contro il Comune di Torino

In seguito, il Comune di Torino tenta di risolvere la questione inviando una ingiunzione di pagamento al signor A.R.; questi, con l’appoggio del Csa, si oppone. Il Giudice conciliatore, con sentenza dell’11 novembre 1991, dopo aver rilevato che «la signora C.E. – ricoverata presso l’Istituto di riposo per la vecchiaia – è una malata cronica non autosufficiente» e che «il Comune di Torino, attraverso l’Istituto di riposo per la vecchiaia, svolge una funzione sanitaria in luogo e sostituzione del ricovero ospedaliero» precisa quanto segue: «La distinzione operata tra quota cosiddetta alberghiera posta a carico della malata e quota sanitaria a carico del fondo sanitario regionale (...) non ha alcun senso logico e ragionevole» in quanto «se una persona è malata ha il diritto all’assistenza sanitaria e questa assistenza non è distinguibile in parte alberghiera e in parte sanitaria».

Di conseguenza il Giudice accoglie l’opposizione presentata contro l’ingiunzione e condanna il Comune di Torino a rifondere al signor A.R. le spese di giudizio. Non avendo presentato ricorso, la sentenza diventa definitiva.

Purtroppo, sul piano giuridico, l’esecutività della sentenza riguarda solamente il signor A.R. e non è quindi estensibile in modo automatico a tutti i casi analoghi.

Se il Comune di Torino si fosse comportato correttamente, avrebbe applicato il provvedimento del Giudice a tutti i congiunti dei ricoverati. Invece, continua ad imporre ai parenti degli assistiti la sottoscrizione, prima del ricovero, dell’impegno di versare la quota della retta non coperta dai redditi dei ricoverati stessi. A loro volta, gli assistenti sociali del Comune perseverano, senza sollevare obiezioni di sorta, a segnalare ai cittadini coinvolti che tale richiesta è conforme alla legge, in particolare agli articoli 433 e seguenti del codice civile.

 

Una iniziativa gravemente vessatoria

del Comune di Torino

Nel novembre del 1994 il Comune di Torino attiva una procedura coattiva di pagamento, notificando alla signora A.B. una cartella esattoriale con la richiesta di 43 milioni per le rette non versate per il ricovero della madre, con l’addebito di altri 15 milioni per interessi.

Decorsi 10 giorni, la somma richiesta sale da 58 a 64 milioni per interessi di mora, compensi per la riscossione coattiva, diritti e spese per gli atti esecutivi. Gli interessi di mora (nel caso in esame di lire 4.066.000) devono essere corrisposti interamente quando il ritardo varia da 1 a 182 giorni. L’importo è doppio se il ritardo del pagamento è compreso fra i 183 giorni ed i 364 giorni. Nello stesso modo si procede per gli ulteriori ritardi.

Da notare che la procedura coattiva è prevista (ma non imposta) dall’art. 69 del Dpr 13/1988. Si tratta di un atto che comporta gravissime ripercussioni per i cittadini:

1) se il pagamento non viene effettuato, è immediatamente emesso un avviso di mora con l’ulteriore addebito degli interessi nella misura del 6% semestrale e delle spese per la procedura esecu­tiva;

2) nell’avviso di mora è intimato il pagamento entro 5 giorni in difetto di che l’ufficiale giudiziario può procedere immediatamente al pignoramento e alla vendita dei beni, compresi i mobili;

3) il ricorso all’autorità giudiziaria non sospende le azioni di cui al punto precedente;

4) la sospensione ha luogo solo al momento dell’emissione da parte dell’autorità giudiziaria di uno specifico provvedimento, anche di natura provvisoria;

5) l’autorità giudiziaria emana un provvedimento definitivo spesso dopo molto tempo (a volte anche alcuni anni);

6) se prima dell’emissione del provvedimento di sospensiva di cui al punto 4, l’ufficiale giudiziario ha già provveduto alla vendita dei beni e il cittadino ottiene un provvedimento definitivo a lui favorevole, riceve la somma incassata dalla vendita dei beni che è sempre di un importo notevolmente inferiore al valore dei beni venduti. Quindi se i mobili valgono 100 milioni e la somma incassata dall’ufficiale giudiziario è di 5, il cittadino – vinta la causa – riceve 5 milioni!

Lo scopo persecutorio dell’iniziativa del Comune di Torino è confermato dalla scelta dell’invio della cartella esattoriale in alternativa al decreto ingiuntivo, procedura adottata dallo stesso Comune di Torino nel procedimento citato in precedenza.

Infatti, mentre l’esecutività del decreto ingiuntivo viene bloccata con il semplice inoltro del ricorso all’autorità giudiziaria, per la sospensione dei provvedimenti conseguenti alla notifica della cartella esattoriale (pignoramento dei beni e loro vendita) occorre, come abbiamo visto, un provvedimento del giudice, provvedimento che può anche essere emanato dopo molti mesi dalla presentazione dell’istanza all’autorità giudiziaria.

Com’era stato dichiarato dall’allora Assessore all’assistenza, il ricorso alla cartella esattoriale era stato fatto non solo per colpire la persona interessata (fra l’altro responsbaile del Comitato dei parenti dei ricoverati della struttura in cui era inserita la madre), ma anche, se non soprattutto, per infliggere una solenne, e se possibile risolutiva sconfitta al Csa e alle sue richieste concernenti la competenza del Servizio sanitario nazionale in materia di cura degli anziani cronici non autosufficienti e l’illegit­timità delle richieste di contributi economici avan­zate nei riguardi dei parenti degli assistiti maggiorenni.

A seguito del ricorso presentato dalla signora A.B. in data 14 dicembre 1994, il Giudice istruttore dispone il 19 aprile 1995 «la sospensione dell’esecutorietà della cartella di pagamento notificata il 18 novembre 1994» (22).

A sua volta, la prima Sezione civile del Tribunale di Torino emette la sentenza n. 3241, depositata in cancelleria in data 5 giugno 1998.

La sentenza è molto importante in quanto:

a) dichiara che le somme riportate nella cartella di pagamento notificata alla signora A.B. «non sono da questa dovute»;

b) condanna il Comune di Torino a rimborsare alla signora A.B. le spese processuali;

c) precisa che «non vi è alcun titolo legale o contrattuale in base al quale le somme pretese dal Comune per le rette di ricovero della signora G.M.T. presso l’Irv di Torino (v. lettera del 22.3.1994 e cartella di pagamento) possano essere richieste direttamente alla figlia dalla predetta».

Al riguardo, il Tribunale, preso atto che l’impegno sottoscritto dalla signora A.B. a garanzia del pagamento di una quota parte della retta è stato revocato dalla stessa A.B., ha stabilito che «trattandosi di un impegno assunto a tempo indeterminato, l’autrice aveva senz’altro il diritto di esercitare la propria facoltà di recesso, né ciò comportava la cessazione del ricovero della signora G.M.T. presso l’Irv».

Ricordiamo altresì che, nonostante che le firme raccolte fossero 6.200 (ne occorrevano solo 2.000) non sortì alcuna conseguenza giuridica la presentazione al Consiglio comunale di Torino con iniziativa popolare di una delibera in cui, fra l’altro, era precisato quanto segue: «Occorre che siano rispettate le leggi vigenti che non consentono al Comune di Torino (e a tutti gli enti pubblici) di obbligare i parenti, compresi quelli tenuti agli alimenti, al versamento di contributi per l’assistenza di loro congiunti maggiorenni» (23).

Da notare che il Comune di Torino e gli altri enti locali mai si sono rivolti ai parenti tenuti agli alimenti per gli interventi sociali erogati al di fuori dell’ambito assistenziale. Ci riferiamo, ad esempio, ai soggiorni di vacanza di minori e di anziani, ed alla frequenza di asili nido e di scuole materne. In questi casi, quando i soggetti interessati o, per i minori i loro genitori, non dispongono di redditi sufficienti per il pagamento completo della prestazione, finora nessuno ha chiesto ai parenti tenuti agli alimenti il versamento di contributi economici.

Quando i soggetti sono in gravi difficoltà a causa di handicap invalidanti o di malattie inguaribili, i Comuni, le Province e le Asl, invece di esprimere atti concreti di solidarietà, pretendono denaro dai loro congiunti, spesso di importo non indifferente.

 

La delibera del Comune di Torino del 4.12.2000

La citata decisione del Tribunale non determina nessun cambiamento nella posizione del Comune di Torino che, imperterrito, continua a pretendere la corresponsione di contributi economici da parte dei parenti degli assistiti maggiorenni, con la sola esclusione dei congiunti, compresi quelli conviventi, dei soggetti con handicap, esclusione ottenuta dal Csa da alcuni anni.

Pertanto, il Csa mette in atto le solite azioni: articoli sui giornali cittadini, volantinaggi, raccolta di firme, presidi di protesta, incontri con le forze politiche presenti nel Consiglio comunale, richiesta di presentazione di interrogazioni e interpellanze, ecc.

Una iniziativa che ha un buon successo riguarda le disdette. Visto che il Comune di Torino impone ai congiunti degli assistibili la preventiva sottoscrizione dell’impegno a corrispondere parte della retta non coperta dai redditi dell’interessato, il Csa - Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti, consiglia che detta clausola sine qua non venga firmata e quindi disdettata appena ottenuto il ricovero: alla pretesa illegittima del Comune di Torino si risponde con l’unico mezzo disponibile.

Finalmente, si arriva alla mozione approvata all’unanimità dal Consiglio comunale di Torino in data 10 gennaio 2000 in cui si impegnano «il Sindaco e l’Assessore competente a disporre (...) l’immediata attuazione da parte di tutti gli uffici municipali delle norme di legge che non consentono agli enti pubblici di pretendere contributi economici dai parenti, compresi quelli tenuti agli alimenti, degli assistiti maggiorenni».

La mozione resta lettera morta, e nessun effetto ha sugli amministratori e funzionari del Comune di Torino il decreto legislativo 130/2000 (24) in cui è precisato che gli enti pubblici devono prendere in considerazione la situazione economica del solo assistito per le prestazioni sociali «erogate a domicilio o in ambiente residenziale, a ciclo diurno o continuativo, rivolte (...) a soggetti ultrasessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali».

Nello stesso decreto legislativo è scritto che le nuove disposizioni «non modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti ai sensi dell’articolo 433 del codice civile» e che esse «non possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione agli enti erogatori della facoltà di cui all’articolo 438, primo comma del co­dice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione sociale agevolata».

Preso atto del mancato rispetto da parte del Comune di Torino delle disposizioni in vigore, il Csa organizza nuove iniziative di protesta.

Occorre aspettare quasi un anno dalla votazione unanime della mozione, per ottenere l’approvazione da parte del Consiglio comunale della delibera del 4 dicembre 2000 in cui viene stabilito «nel caso di persone anziane non autosufficienti così valutate dalla competente Unità di valutazione geriatrica, di escludere i loro parenti tenuti agli alimenti ex art. 433 del codice civile dalla contribuzione al costo dei servizi socio-assistenziali».

Da notare che l’esclusione dal versamento di contributi non è un atto generoso del Comune di Torino, ma la semplice applicazione della normativa vigente (25).

Attualmente l’intervento del Csa è diretto ad ottenere dal Comune di Torino la piena applicazione della vigente normativa a tutti gli altri parenti degli assistiti maggiorenni.

 

I ripetuti tentativi dell’Associazione dei Comuni

dell’ex Ussl 27 (Ciriè)

Venuto a conoscenza di una delibera emanata dall’Ussl 27, con la quale, tra l’altro, era prevista la richiesta di contributi economici ai parenti di assistiti maggiorenni, il Csa redige apposita istanza, inoltrandola alla Sezione di Torino del Coreco, Comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali, che con provvedimento del 21 dicembre 1995 «ha annullato parzialmente la deliberazione dell’As­sociazione dei Comuni dell’ex Ussl 27 (Ciriè) n. 27 del 14 novembre 1995 laddove prevedeva la richiesta di contributi finanziari ai congiunti degli utenti» stabilendo che «i contributi possono essere richiesti solo in base a precise disposizioni di legge statale e/o regionale, giusto il parere reso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri DAS/4390/1/H/795» (26).

La sopracitata delibera prevedeva che, nel caso in cui i redditi del soggetto con handicap inserito in comunità alloggio non fossero (come quasi sempre avviene) sufficienti a coprire la retta di ricovero (in media l’importo è di 4,2 milioni al mese), l’Associazione dei Comuni potesse rivalersi sui congiunti. Pertanto, ad essi era imposto l’obbligo di versare in base ai loro redditi una somma che poteva raggiungere anche 3,3 milioni al mese!

Per aggirare l’ostacolo frapposto dal Coreco, l’Associazione dei Comuni dell’ex Ussl 27, predispone una delibera sconvolgente: viene, infatti, stabilita una illegittima disparità di trattamento fra le persone che richiedono l’intervento assistenziale (e quindi gli utenti sono soggetti sprovvisti dei mezzi necessari per vivere) a seconda della sottoscrizione o meno dei parenti dell’impegno di versare contributi economici. Tale disparità di trattamento, riguardante gli interventi di assistenza economica e l’integrazione della retta di ricovero, è così definita:

a) i contributi erogabili al cittadino bisognoso sono ridotti nella misura del 70% «qualora i parenti tenuti agli alimenti, invitati per iscritto dai servizi sociali a produrre la documentazione richiesta, non vi provvedevano»;

b) le rette di ricovero sono assunte dall’Asso­ciazione dei Comuni prioritariamente nei confronti degli «utenti senza parenti tenuti agli alimenti», nonché nei riguardi dei soggetti i cui congiunti hanno sottoscritto l’impegno a versare contributi.

Su nuova iniziativa del Csa, la delibera viene interamente annullata dal Coreco. Non soddisfatto delle due bocciature, l’Associazione dei Comuni dell’ex Ussl 27 approvava una terza delibera sempre con l’intento di imporre contributi ai parenti di assistiti maggiorenni; anch’essa è annullata dal Coreco, anche questa volta per effetto del tempestivo intervento del Csa (27).

 

Il comportamento sconcertante

della Regione Piemonte

Di fronte alle documentate segnalazioni del Csa e alle iniziative assunte (volantinaggi, articoli, interventi in occasione di convegni, ecc.), gli Assessori ed i funzionari regionali all’assistenza si sono comportati in questo modo:

1ª fase - hanno sostenuto che la richiesta di contributi da parte di Comuni, Province, Usl era pienamente valida ai sensi della legge 3 dicembre 1931, n. 1580. Peccato che la legge suddetta non fosse più in vigore da quasi 20 anni!;

2ª fase - come risulta dalla lettera inviata in data 1° aprile 1994 dall’allora Assessore regionale all’Amministratore straordinario dell’Ussl 26, la Regione interpreta in modo fantasioso le vigenti norme di legge e suggerisce, per intimidire i cittadini rispettosi della legge e per chiudere la bocca al Csa, l’iscrizione nella cartella esattoriale del presunto (ma inesistente) credito dell’ente pubblico per il mancato versamento di contributi dei parenti di assistiti;

3ª fase - rispondendo ad una interrogazione in data 7 marzo 1996, l’Assessore regionale all’assistenza, riconosce che non vi sono norme di legge che consentano ai Comuni, alle Province e alle Usl di pretendere contributi economici dai parenti di assistiti maggiorenni;

4ª fase - la Giunta regionale presenta in data 7 maggio 1996 il disegno di legge n. 169 con lo scopo di introdurre una normativa regionale che consenta la richiesta dei contributi. La Giunta, però, non tiene conto che le Regioni non possono legiferare nelle materie di competenza del Codice civile e cioè nel campo del matrimonio, della filiazione, dell’adozione, degli alimenti, ecc. D’altra parte, in base all’art. 23 della Costituzione, spetta solo al Parlamento imporre prestazioni personali o patrimoniali. A nostro avviso, la presentazione della suddetta proposta di legge dimostra (e conferma) la profonda ignoranza giuridica di coloro che l’hanno predisposta e la volontà di imporre oneri economici ai congiunti già colpiti dalla presenza di familiari con handicap gravi e/o malattie inguaribili.

Tuttavia, la presentazione del suddetto provvedimento da parte della Giunta regionale viene strumentalizzata da molti Comuni e Usl per continuare a pretendere contributi economici mai dovuti.

Nonostante tutte le iniziative intraprese (presentazione della documentazione giuridica, parere del Difensore civico della Regione Piemonte favorevole alle richieste del Csa, consultazioni presso la Commissione consiliare preposta alla sanità e assistenza, interrogazioni, ecc.), finora la Regione non ha voluto abrogare le delibere che prevedono la richiesta illegale di contributi economici ai parenti dei soggetti maggiorenni, assistiti da Comuni singoli e associati, Province e Asl.

Si è solamente ottenuto l’emanazione della circolare 24 marzo 1999, prot. 3458/30, in cui è previsto che per quanto riguarda le persone con handicap intellettivo, sono esentati «dalla contribuzione al costo dei servizi offerti dai centri diurni (comprese le prestazioni di mensa e trasporto e ogni altra prestazione attinente ai servizi stessi) i soggetti il cui reddito e patrimonio individuale sia inferiore al minimo vitale determinato dagli stessi enti gestori», nonché l’invio agli enti gestori delle attività socio-assistenziali della nota del 23 luglio 1999, prot. 8683/30, in cui il direttore regionale dell’assessorato all’assistenza «chiede cortesemente agli enti in indirizzo di trasmettere copia dell’allegato parere ai Comuni singoli non capoluogo di provincia». Il parere, redatto dal Ministero dell’interno, Direzione generale dei servizi civili, che reca la data dell’8 giugno 1999, prot. n. 190 e 412 B 5, conferma che gli enti pubblici non possono pretendere contributi economici dai parenti di assistiti maggiorenni, è stato ignorato da quasi tutti i Comuni piemontesi, anche per l’assenza di ulteriori iniziative da parte della Regione Piemonte.

 

La posizione degli organi centrali dello Stato

Come abbiamo già segnalato, rispettando le norme vigenti, i competenti organi centrali dello Stato, per la concessione di prestazioni di natura socio-assistenziale (pensioni e assegni sociali, erogazioni economiche ai soggetti invalidi, integrazione al minimo delle pensioni Inps, ecc.), non hanno mai tenuto conto dei redditi dei parenti tenuti agli alimenti, coniuge escluso.

 

Mancato rispetto della legge 675/1996

In base alla legge 675/1996 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento di dati personali”, gli enti pubblici possono richiedere ai cittadini i loro dati personali «soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali» (art. 27).

Inoltre, «i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute (...) possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante» (art. 22).

Violano, pertanto, le norme suddette gli enti pubblici che interpellano i parenti dei ricoverati e, previa comunicazione delle condizioni di salute dei loro congiunti (non autosufficienti a seguito di malattia di Alzheimer o di esiti di ictus, ecc.), segnalano che i redditi di questi ultimi sono insufficienti per la copertura della retta di degenza.

 

Conclusioni

Mentre continua l’azione del Csa per ottenere il rispetto delle leggi vigenti da parte di tutti gli enti pubblici, fin d’ora possiamo affermare che le esperienze riferite in questo articolo e quelle relative agli altri soggetti incapaci di autodifendersi (28) dimostrano in modo incontrovertibile che, per ottenere risultati concreti, non sono sufficienti – anche se indispensabili – né la segnalazione alle competenti autorità delle leggi vigenti che tutelano le esigenze ed i diritti dei più deboli, né i messaggi, gli articoli pubblicati su riviste specializzate, i seminari di approfondimento, le iniziative di ricerca e aggiornamento professionale degli operatori, e le altre analoghe azioni.

È, altresì, necessario difendere i singoli soggetti se del caso rivolgendo istanza alla magistratura, distribuire volantini, organizzare cortei e presidi, ecc. sia allo scopo di informare l’opinione pubblica sia e soprattutto per mettere in crisi le basi etiche e la credibilità delle forze politiche, degli amministratori, dei funzionari e degli addetti sociali coinvolti.

Coloro che ritengono che bastino le semplici prese di posizione verbali e scritte, dovrebbero anche segnalare – per essere credibili – quali sono stati i risultati da essi conseguiti.

 

 

 

(1) Cfr. “Un’altra importante conquista del volontariato dei diritti: gli enti pubblici non possono più pretendere denaro dai congiunti di soggetti con handicap grave o di ultrasessantacinquenni non autosufficienti”, Prospettive assistenziali, n. 130, 2000.

(2) Cfr. “Il Comune di Torino ha esonerato i parenti degli anziani non autosufficienti dal versamento di contributi economici”, Ibidem, n. 133, 2001. Da molti anni il Comune di Torino non pretende alcun contributo dagli utenti con handicap e dai loro congiunti sia per la frequenza di centri diurni, sia per l’accoglienza presso comunità alloggio e istituti.

(3) Numerosi sono ancora gli enti locali che costringono i parenti degli assistiti a corrispondere quote a volte di importo molto elevato, anche 1-2 milioni al mese. Il Comune di Torino continua a imporre contributi ai congiunti di adulti e anziani autosufficienti assistiti.

(4) Cfr. F. Santanera, “Sono un immorale: per i più deboli ho chiesto il rispetto delle leggi vigenti”, Ibidem, n. 123, 1998.

(5) Cfr. “Il comportamento pilatesco dell’ex Prefetto di Torino nei confronti dei Comuni che illegittimamente pretendono contributi economici dai parenti di assistiti maggiorenni”, Ibidem, n. 132, 2000.

(6) Ai sensi dell’art. 433 del codice civile «all’obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell’ordine: il coniuge; i figli legittimi o legittimati o naturali o adottivi o, in loro mancanza, i discendenti prossimi, anche naturali; i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti; i generi e le nuore; il suocero e la suocera; i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali».

(7) L’ammontare della pensione di invalidità negli ultimi tre anni è stato: 395.060 per il 1999, 401.380 per il 2000 e 411.420 per il 2001. La pensione è erogata per 13 mensilità.

(8) Il Tribunale civile di Torino, con sentenza n. 1178 emanata il 25 gennaio 1999, depositata in cancelleria il 1° marzo 1999, ha respinto la richiesta avanzata dall’Ussl 27 di Ciriè (Torino) nei confronti dei figli di X. Y. poiché «nella legislazione vigente non è dato di rinvenire una norma di rivalsa verso i parenti del ricoverato, che legittimi una sostituzione processuale dell’assistito da parte dell’ente erogatore; perché infatti di questo si tratterebbe: di sostituirsi all’interessato nel richiedere una prestazione alimentare che l’interessato non ha richiesto».

Sulla stessa linea la sentenza della Prima Sezione civile del Tribunale di Verona del 13 marzo 1996 e del Tar per il Veneto dell’8 luglio 1999.

(9) Attualmente aderiscono al CSA le seguenti organizzazioni: Associazione GEAPH, Genitori e Amici dei Portatori di Handicap di Sangano (To); Associazione Genitori Fanciulli Handicappati di Orbassano (To); Associazione Italiana Assistenza Spastici di Torino; Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie; Associazione “La Scintilla” di Collegno-Grugliasco (To); Associazione “Odissea 33” di Chivasso (To); Associazione “Oltre il Ponte” di Lanzo Torinese (To); Associazione “Prader Willi”, Sezione di Torino; Associazione Promozione Sociale; ASVAD, Associazione Solidarietà Volontariato a Domicilio; Associazione Spina Bifida; Associazione Tutori Volontari; COGEHA, Collettivo Genitori dei portatori di handicap, Settimo Torinese (To); Comitato Integrazione Scolastica Handicappati; Coordinamento dei Comitati Spontanei di Quartiere; Coordinamento Paratetraplegici; CUMTA, Comitato Utenti Mezzi Trasporto Accessibili; GRH, Genitori Ragazzi Handicappati di Venaria-Druento (To); Gruppo Inserimento Sociale Handicappati ex USSL 27 di Ciriè (To); Unione per la Lotta Contro l’Emarginazione Sociale; Unione per la Tutela degli Insufficienti Mentali; “Vivere Insieme” di Rivoli.

(10) Per quanto riguarda i minori dichiarati adottabili colpiti da handicap anche gravi o da malattie (Aids, ecc.), un numero consistente, soprattutto di soggetti in tenera età, viene adottato, sempre che vi sia un attivo intervento dei Tribunali per i minorenni e dei servizi socio-assistenziali dei Comuni. Positive esperienze sono state realizzate anche nel campo degli affidamenti familiari a scopo educativo. Sull’argomento si vedano: Giulia Basano, Nicola: un’adozione coraggiosa. Un bambino handicappato grave conquista una vita adulta autonoma, Rosenberg & Sellier, Torino, 1999, e gli articoli pubblicati su Prospettive assistenziali: «Sensibilizzazione della comunità e affidamento eterofamiliare di bambini handicappati psichici», n. 10, 1970; «Proposta di legge “Norme concernenti l’affidamento familiare di minori a scopo educativo”», n. 21, 1973; «Interventi regionali per favorire l’inserimento sociale degli handicappati fisici, psichici e sensoriali», n. 30, 1975; «Iniziative regionali in materia di affidamento di minori a scopo educativo», n. 32, 1975; «Delibera del Comune di Torino sugli affidamenti di minori e sugli inserimenti di adulti handicappati e di anziani», n. 35, 1976; «Come ricercare le famiglie e persone affidatarie», n. 42, 1798; «Atti del seminario di studio e scambio di esperienze sull’affidamento di minori a scopo educativo e sull’adozione», n. 52, 1980; «Affidamenti educativi di minori e inserimento di handicappati adulti presso parenti», n. 54, 1981; B. e S. Arri, «Esperienze di adozione di minori handicappati», n. 57, 1982; «Affidamenti familiari a scopo educativo di minori handicappati: una importante delibera», n. 70, 1985; «Nuova frontiera dell’adozione e dell’affidamento», n. 79, 1987; «Condizioni minime per la realizzazione di adozioni e affidamenti familiari di minori handicappati e/o disadattati», n. 80, 1987; «Deliberazione del Comune di Torino per consentire l’adozione di una minore gravemente handicappata», n. 83, 1988; «Il diritto alla famiglia dei bambini in difficoltà o in situazione di abbandono: un appello alla collaborazione ed alla solidarietà», n. 87, 1989; «L’adozione riuscita di una bambina difficile», n. 106, 1994; «Abbiamo adottato una bambina gravemente handicappata», n. 107, 1994; «Gli affidamenti familiari a Torino», n. 109, 1995; B. e R. De Luca, «Abbiamo adottato un bambino Down», n. 111, 1995; A. e M. Liberti, «Abbiamo adottato un bambino con un grave handicap», n. 113, 1996; E. e M. Quirico, «La storia di Chiara», n. 115, 1996; «Le nuove frontiere dell’adozione», n. 115, 1996; «Proposta di piattaforma su alcuni servizi essenziali per le persone con handicap gravi», n. 115, 1996; «Richieste in merito agli ultradiciottenni in affidamento familiare», n. 123, 1998; «Messaggio del Cardinale Martini alle persone handicappate intellettive o con sindrome di Down», n. 124, 1998; F. Santanera, «Esperienze di prevenzione del bisogno assistenziale e dell’emarginazione sociale», n. 129, 2000.

Numerosi sono, altresì, gli articoli pubblicati su Prospettive assistenziali per promuovere la priorità degli interventi domiciliari rivolti ai soggetti con handicap ed agli anziani, con particolare riguardo a quelli colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza.

(11) Ricordiamo, ancora una volta, che in base alle leggi vigenti, è gratuita la degenza presso ospedali o altre strutture sanitarie dei malati di Alzheimer, degli anziani cronici non autosufficienti e dei malati psichiatrici.

(12) Per le pensioni con decorrenza anteriore al 1994 si tiene conto soltanto dei redditi del pensionato.

(13) Con viva soddisfazione abbiamo segnalato l’approvazione da parte del Consorzio intercomunale dei servizi alla persona di Collegno e Grugliasco di un provvedimento sul volontariato intra-familiare. Cfr. “Approvata la prima delibera sul volontariato intra-familiare”, Prospettive assistenziali, n. 132, 2001.

(14) Cfr. gli articoli “Per curare l’anziana madre malata cronica non bastano l’affetto e il denaro delle figlie”, Ibidem, n. 117, 1997 e “La drammatica esperienza del figlio di una anziana malata cronica non autosufficiente”, Ibidem, n. 119, 1997.

(15) Il sopracitato parere del Ministero dell’interno è stato confermato dalle note del Capo dell’Ufficio legislativo del Ministro per gli affari sociali - Presidenza del Consiglio dei Ministri datate 15 aprile 1994, prot. DAS/4390/1/H/795 e 28 ottobre 1995, prot. DAS/13811/1/H/795.

(16) Per evidenziare sino a qual punto era arrivata la perfidia dell’Amministrazione provinciale dell’epoca, sottolineiamo due aspetti a dir poco sconcertanti:

a) la tabella contributiva deliberata prevedeva l’esclusione da qualsiasi contributo i redditi inferiori a 3 milioni annui. Poiché la pensione di invalidità ammontava allora a 250 mila lire mensili per 13 mensilità, nessuno era esentato dal pagamento;

b) di conseguenza coloro che percepivano la pensione di 250 mila lire al mese (somma insufficiente persino per la semplice sopravvivenza), dovevano versare 31 mila a titolo di “contributo” per la frequenza del centro diurno riservato ai soggetti con limitata o nulla autonomia a causa di handicap intellettivo grave o gravissimo.

(17) Nel 1989 l’Ipab “Casa geriatrica Carlo Alberto” è stata dichiarata estinta. Al Comune di Torino sono stati trasferiti non solo un consistente patrimonio immobiliare del valore di 14 miliardi e 236 milioni, ma anche titoli e contanti per un ammontare di ben 1 miliardo e 825 milioni, nonché attrezzature varie e mobili per un valore di 591 milioni. Dunque, gli aumenti della quota alberghiera erano stati richiesti, nonostante la rilevante consistenza delle risorse dell’ente. Da osservare che le Ipab sono enti pubblici senza fini di lucro.

(18) La quota alberghiera non è prevista da nessuna legge dello Stato e le Regioni possono imporre contributi economici solo nei casi in cui siano state delegate dal Parlamento.

(19) Per poter ottenere il ricovero i congiunti erano obbligati a firmare l’impegno; pertanto l’unica possibilità di reagire all’imbroglio messo in atto dal Comune di Torino era quello di revocare l’impegno sottoscritto.

(20) Ricordiamo, in particolare, i numerosi articoli di Massimo Dogliotti pubblicati su Prospettive assistenziali e il suo volume “Doveri familiari e obbligazione alimentare”, Giuffrè editore, 1994, nonché gli interventi di Pietro Rescigno “L’assistenza agli anziani non autosufficienti: notazioni civilistiche”, Giurisprudenza italiana, ottobre 1993, pag. 687 e seguenti, di Gaspare Lisella, “Rilevanza della condizione di anziano nell’ordinamento giuridico”, in Pa­squale Stanzione (a cura di), “Anziani e tutele giuridiche”, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991. A pagina 52 del n. 127, 1999 di Prospettive assistenziali è riportato l’elenco degli articoli pubblicati in materia di contributi economici richiesti ai congiunti di assistiti maggiorenni.

(21) Del tutto improduttivi sono stati gli esposti inviati ai vari Ministri alla sanità e per la solidarietà sociale succedutisi. Privo di conseguenze è stato anche l’esposto inviato alla Corte dei Conti in cui si faceva presente che, trattandosi di anziani malati, erano illegittime le spese sostenute dal Comune di Torino, invece che dal Servizio sanitario nazionale.

(22) Nel frattempo l’ufficiale giudiziario, per fortuna, non aveva compiuto, come però avrebbe potuto fare, alcun atto di pignoramento, atto indispensabile per procedere poi alla vendita all’asta dei mobili di casa e degli eventuali altri beni.

(23) Il testo della delibera comunale di iniziativa popolare è stato pubblicato sul n. 109, gennaio-marzo 1995, di Prospettive assistenziali. Le richieste riguardavano: la trasmissione dell’elenco dei patrimoni delle Ipab trasferiti al Comune di Torino il cui valore supera i 1.000 miliardi, la creazione di comunità alloggio e di centri diurni per handicappati intellettivi, il superamento delle sezioni speciali delle scuole materne, l’assunzione di iniziative per ricondurre alla competenza degli anziani malati cronici alla sanità, la sollecitazione da parte del Comune di Torino nei confronti della Regione Piemonte per il riconoscimento concreto della priorità delle cure domiciliari per i soggetti malati acuti e cronici, ecc.

(24) Cfr. la nota 1.

(25) Cfr. “Il Comune di Torino ha esonerato i parenti degli anziani non autosufficienti dal versamento di contributi economici”, Ibidem, n. 133, 2001.

(26) Le Regioni non possono approvare leggi che modifichino gli articoli 433 e seguenti del codice civile, concernenti gli alimenti, trattandosi di materia non di loro competenza.

(27) Purtroppo la legge 127/1997 ha limitato notevolmente le funzioni dei Coreco in materia di accertamento preventivo della legittimità degli atti sugli enti locali. Pertanto, i gruppi di volontariato non possono più chiedere ai Coreco di esaminare le delibere contenenti disposizioni illegittime, dato che i suddetti comitati di controllo non hanno più competenze in merito. Infatti, in base alla legge 127/1997 il loro compito «si esercita esclusivamente sugli statuti dell’ente, sui regolamenti, (...) sui bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, sul rendiconto di gestione».

   (28) Del tutto simili sono le altre esperienze realizzate dal Csa, ad esempio, per ottenere l’istituzione dei servizi alternativi al ricovero in istituto di minori e di soggetti con handicap e per il riconoscimento del diritto alle cure sanitarie degli anziani cronici non autosufficienti e dei malati di Alzheimer.

 

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