Prospettive
assistenziali, n. 136, ottobre-dicembre 2001
L’adozione
fa i conti con l’incertezza indotta
Andrea canevaro *
Questa riflessione ha bisogno di una
dichiarazione preliminare. Riteniamo che la genitorialità, e quindi l’essere
figli e figlie, non dipende dal sangue ma da un rapporto che mette radici
nell’amore, nella responsabilità, nella condivisione delle quotidianità.
Riteniamo che l’adozione sia un modo pieno e completo di realizzare la
genitorialità e l’essere figlio o figlia. A partire da queste convinzioni, ci
domandiamo: come mai rinasce la questione del “sangue”? Come e perché
l’adozione viene rimessa in discussione e si riaprono polemiche circa la piena
fondatezza di vincoli famigliari costruiti attorno all’adozione?
Cerchiamo le risposte. Ci aiuta un testo
che riteniamo di grande interesse: si tratta del libro di Z. Bauman (Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari,
2001).
Bauman, nella prefazione, delinea i punti
forti della sua riflessione che partono dalla constatazione che l’insicurezza
attraversa tutti noi. Noi siamo immersi in un mondo che è diventato
insicurezza: è una dimensione impalpabile, imprevedibile, e che inganna essendo
un prodotto indotto che sembra naturale. Assume dei nomi immediatamente
tradotti da ciascuno di noi con un elemento di minaccia. Sentiamo dire
“liberalizzazione” e lo traduciamo in “mancanza di punti di riferimento”, di
ancoraggi; sentiamo parlare di “flessibilità” e lo traduciamo immediatamente in
“incertezza diffusa”; pensiamo che “mobilità” si traduca per noi in
“precarietà”; pensiamo che “competitività” si traduca in “vince chi è più
forte, chi urla di più, chi strepita”. E ciascuno vive, quindi, un senso di
grande incertezza che si traduce in una necessità di vivere da solo. La ricerca di un modo di saltarne
fuori, perché tutte le “ricette di sistema” sembrano votate al fallimento. Si
chiama, questo, “morte delle ideologie”, che sono state però sostituite da
nuove ideologie che si proclamano non ideologiche, con una tortuosità
paradossale ben nota. Non fidandoci più dei sistemi, cerchiamo delle soluzioni
personali a contraddizioni sistemiche. Il sistema è contraddizioni, quindi,
personalmente, cerco di difendermi, di uscirne. È un problema di difesa. E la
difesa comporta anche la ricerca di altri elementi che sembrano di sicurezza
più portati alla dimensione individuale.
Le tecnologie, la modernità e la
post-modernità sembrano aiutarci a cercare di risolvere in termini individuali
la ricerca di certezze. E allora cerchiamo in tutti i modi di garantirci in termini
individuali la certezza della salute, la certezza di alcune proprietà sicure,
la casa, i trasporti personali e non collettivi, la possibilità di avere
informazioni che ci permettano di scegliere quelle che vogliamo, e le
tecnologie permettono di “cambiare canale”, come si dice.
Ascoltare ma anche cancellare, essere
assediati, dalle informazioni per esempio, ma avere sempre l’illusione di
poterne scappar via a piacere. Tutto è nella dimensione personale. Perché non
anche immaginare che questa sicurezza possa in qualche modo diventare tale
anche per i figli? È la chiave di lettura di molte notizie che quotidianamente
ci raggiungono e possono permetterci di leggere il mondo come incertezza e
ricerca di sicurezza personale. Possiamo arrivare alla previsione attraverso il
DNA circa la salute di un possibile figlio o figlia, all’individuazione del
sesso; e si può arrivare alla richiesta di risarcimenti se qualcosa non andasse
bene.
Di recente, in Francia, si è acceso un
grande dibattito a proposito di sentenze che riguardavano il possibile
risarcimento per persone handicappate che avrebbero potuto non nascere se le
informazioni fossero date a tempo, alla madre e ai genitori. E la nascita con
una situazione di disabilità è stata interpretata come esigenza di risarcimento
di una vita... Allo stesso modo di un frigorifero.
Ricerca di sicurezze personali può voler
anche dire decidere che il sangue del proprio sangue è la vera figliolanza, e
che l’eredità è quella che nasce da me e che devo “controllare” perché diventi
un’eredità sana, sicura, accertata per il suo valore. Da questo punto di vista,
si può capire come un bambino o una bambina adottata non venga ritenuta
“sicura”; manca una possibilità che è utilizzata poi, in fondo, da pochi, al
momento, ma che in qualche modo è diventata un punto presente nei nostri
pensieri: poter controllare la qualità del prodotto. Usiamo questa espressione
in una voluta ricerca di indicazione di come si trasferisce alla procreazione,
e quindi al senso di genitorialità, un elemento proprio del commercio e della
produzione di beni di commercio. Vorremmo il certificato di garanzia di qualità
per chi nasce dal nostro sangue. Il bambino o la bambina adottabile ha un
vincolo di segreto, è accompagnata da un segreto circa l’ascendenza e quindi
circa la possibilità di risalire ai genitori e a capire quale stato di
“garanzia di qualità” possa avere.
Questo è forse un ragionamento troppo
crudo e indecente. Possiamo immaginare che nessuno lo viva con questa crudezza,
e quindi ha bisogno di essere in qualche modo imbellettato, truccato, per
assumere delle fattezze moralmente accettabili. Moralmente accettabili
significa non certo di una morale assoluta ma di una morale relativa, propria
di un cambiamento radicale nella percezione della morale e dei diritti, e non
del diritto: le morali e i diritti. Peraltro noi condividiamo, e chi scrive
queste note ne è fermamente convinto, che esistano realmente le culture e che
quindi esistano le morali ed i diritti, e non la morale ed il diritto.
Ma conviene essere chiari su questo: le
morali e i diritti sono le chiavi d’accesso alla ricerca di una verità
unitaria, sempre nella necessità di essere ricercata. Altra cosa è considerare
le morali e i diritti come uno stato permanente che non desidera il dialogo per
la ricerca, e al contrario afferma la necessità di difendersi dall’altro con la
sua morale e con il suo diritto. È quindi un’impostazione difensiva che vuole
chiudere il rapporto con l’altro, con l’esterno, con l’estraneo. Vi è una
ricaduta anche sull’adozione.
In qualche modo l’adottabile, bambino o
bambina, è un estraneo, ed in più è circondato da un segreto che non permette
di arrivare a quel “certificato di garanzia” di qualità che dicevamo. E dagli
estranei oggi ci difendiamo; non abbiamo più bisogno del viaggiatore che ci
porta notizie al di là dell’orizzonte, al di là dei monti, perché abbiamo le
informazioni che ci raggiungono. Cade quindi la necessità di essere informati
attraverso chi si sposta. Avere separato l’informazione dal movimento dei corpi
permette di vedere i corpi estranei come degli invasori, e oltretutto degli
invasori inutili e quindi dannosi; occupano dello spazio che può essere per
noi, portano desideri, abitudini che non vanno in sintonia o che rischiano di
essere addirittura in conflitto con le nostre abitudini, con i nostri desideri.
Che bisogno abbiamo dei corpi? Giusto ne
abbiamo bisogno per il lavoro, e allora vogliamo degli adulti, maschi o femmine
a seconda del tipo di lavoro, ma guardiamo con qualche diffidenza la possibilità
che avvengano i ricongiungimenti famigliari, che vi siano poi dei bambini,
delle bambine, a cui dobbiamo assicurare anche dei servizi: la scuola, la
salute, la compagnia di altri bambini che saranno i nostri figli. E arriviamo
ai nostri figli, a questa “proprietà” che deve essere garantita dal fatto di
essere sangue del nostro sangue, con la possibilità di quel raggiungimento
della “garanzia di qualità” che ci sembra tanto importante per difendere la
nostra sicurezza personale dall’insicurezza sistematica, le nostre certezze
dall’incertezza.
Questo è il modo con cui si può leggere
una quantità variegata di riflessioni che portano a sentire l’adozione come una
genitorialità inferiore, e non come la genitorialità piena, che ha pieno
diritto e piena dignità culturale e sociale. Su questo, però, vale la pena
anche compiere una riflessione che riguarda la stessa adozione, evitando di
comporre un disegno che veda i buoni nella situazione degli adottanti – coloro
che considerano l’adozione con favore – e i cattivi quelli che invece la
considerano una genitorialità di secondo livello, e quindi non le danno piena
dignità.
Probabilmente la riflessione che parte da
Bauman attraversa i due settori, se così vogliamo chiamarli, perché anche nella
parte degli adottandi e delle famiglie adottive vi possono essere degli
elementi che vanno nella direzione proposta da Bauman. Per semplificare e,
forse, rendere un po’ stereotipata questa riflessione e questa immagine, si può
immaginare che il senso di incertezza della mancanza di figli possa portare a
ricorrere all’adozione per avere maggiore certezza. Non è una novità, questa, e
di ciò abbiamo sempre potuto riflettere considerandola come una delle possibili
dinamiche rischiose ma anche umanamente molto comprensibili che può portare
alla scelta dell’adozione. D’altra parte, la grande letteratura delle grandi
religioni ci mostra più volte una dinamica che nella letteratura cristiana è
rappresentata dalla parabola dei due fratelli invitati dal padre ad andare a
vangare la vigna: chi ha rifiutato con le parole, è poi andato a vangare la
vigna, chi ha detto sì, non c’è andato. Nelle grandi saggezze delle religioni
vi è un’attenzione particolare a un fenomeno che è presente nelle nostre
dinamiche umane: il potere individuale, un interesse spicciolo, quindi un po’
auto-referenziale o se vogliamo – usando terminologie morali, con rischio di
moralismo – o comunque scelte che fanno riferimento ai nostri interessi e che
diventano, però, nel breve volgere di una vita, forti pulsioni altruistiche e
di offerta all’altro di qualcosa di prezioso.
La novità consiste in quella riflessione
che Bauman ci permette di fare relativamente all’altro esterno che vogliamo
conquistare e che ci permette, in due modi, di confermare le possibilità di
sicurezza. Il primo modo non riguarda forse tanto chi è nella scelta
dell’adozione, chi è contro l’adozione o semplicemente chi la considera un
fenomeno non pienamente di genitorialità. Ed è quindi l’individuazione
dell’altro come pericolo su cui scaricare le nostre paure. In qualche modo,
l’esterno, l’estraneo, lo straniero diventa un elemento sicurizzante perché
raccoglie in sé tutte le diffuse paure. È più semplice difendersi quando si
crede di aver individuato con chiarezza il nemico, mentre nel caso di una paura
diffusa non si sa l’ora in cui si presenta il pericolo, da che parte arrivi il
pericolo, come si manifesti, sotto che vesti. È molto più ansiogena una
situazione in cui il pericolo non è raccolto in un solo elemento. Crediamo o ci
illudiamo di essere più capaci di difenderci quando abbiamo individuato chi è e
dove è il pericolo.
Per questo è molto diffusa nella storia
dell’umanità la ricerca del capro espiatorio, con la possibilità di dire: “Lo
straniero, il marocchino, il magrebino… è pericolo!”. E per questo è tanto più
pericoloso il diverso che ha una sembianza di diversità; molto più semplice è
assimilare a noi, nelle nostre culture, nelle nostre abitudini chi viene da
paesi dell’est, dove le persone sono con il nostro stesso colore della pelle. E
curiosamente noi abbiamo molte più difficoltà ad ammettere la non pericolosità
dei magrebini che non quella degli africani neri, del Centro Africa,
dell’Africa sub-sahariana. La diversità più evidente è in qualche modo più
rassicurante; mentre una diversità meno evidente, più vicina a noi, ci rende
inquieti.
Questa è la strada per capire la seconda
dimensione: esorcizzare la paura assumendo l’estraneo come un elemento su cui
noi investiamo i nostri affetti. Ecco che allora diventa una sorta di capro
espiatorio rovesciato: anziché espiare, esorcizza. L’esorcismo fa parte di una
lunga storia umana, e probabilmente è nato con l’umanità: la necessità di
esorcizzare attraverso dei rituali e attraverso qualcosa che accompagna tutta
la vita. Ma è possibile – dirà qualcuno – che dobbiamo ritenere che l’adozione,
un impegno nella quotidianità, possa essere ridotto a qualcosa che chiamiamo
‘esorcismo’? Questa possibilità in realtà c’è. Bisogna considerarla non certo
come una possibilità pensata, progettata e realizzata con una totale lucidità
ma, senza scomodare nessuna delle tante psicanalisi, è possibile che noi agiamo
con delle giustificazioni che mettono al coperto alcuni degli elementi
inconfessabili nelle nostre vite.
È sempre presente, però, la dimensione
della nostra vita che permette di partire con una giustificazione
inconfessabile e di realizzare qualche cosa che è largamente positivo e quindi
largamente confessabile e apprezzabile da tutti. Non è detto che una partenza
all’insegna di quella che abbiamo chiamato ‘esorcizzazione’ del diverso non
diventi poi una vera e propria comunità di sentimenti, di trasmissione di
pensiero, e di accoglienza del pensiero dell’altro. Queste dinamiche sono
presenti.
A noi interessa capire come la
riflessione di Bauman sull’insicurezza e l’incertezza indotte e dominanti nella
nostra vita attuale creino possibili mappe di rischio, anche all’interno di una
situazione scelta con un elemento che dovrebbe essere altruistico, quale è
l’adozione. Sono rischi interessanti e importanti che non tolgono nulla alla
necessità di far capire e di capire profondamente come l’adozione abbia una
piena dignità di genitorialità e non possa essere interpretata come una
genitorialità imperfetta e mancante di qualcosa. L’interpretazione di una
genitorialità piena unicamente quando c’è trasmissione di sangue, come si dice,
quando il figlio o la figlia è ‘sangue del mio sangue’, non è ammissibile.
Dobbiamo capire le ragioni di tali incertezze, ed è quello che la riflessione
sul libro di Bauman ci può in qualche modo permettere.
Non sono più le stesse ragioni di diversi
anni fa quando le sicurezze erano maggiori, e l’asse – dice Bauman – su cui
ruotavano le sicurezze era per esempio il lavoro. Anche la composizione
familiare, forse un po’ idilliaca, era quella di una organizzazione per cui il
lavoro dell’individuo era l’asse attorno a cui ruotava tutto il resto. La donna
lavorava in casa, considerato un servizio e anche questo ruotava attorno
all’asse principale del lavoro dell’uomo. I figli, quando nascevano o quando
entravano nella famiglia, crescevano attorno alla sicurezza dell’asse del
lavoro. E il lavoro, ovviamente, non aveva una dimensione solo personale ma
diventava immediatamente, appena si emergeva dall’ambito familiare, una
dimensione sociale, con le sue regole e con le sue certezze. Il bisogno di
sicurezza veniva soddisfatto attraverso questa possibilità. Non era una
certezza ma era una possibilità forte, disponibile a molti.
Oggi è il contrario. Oggi la sensazione è
che l’asse del lavoro è spezzato irrimediabilmente, attorno a quest’asse
fluttuavano degli elementi che oggi sembrano impazziti, e quindi sembrano
andare ognuno per conto proprio. È per questo che si ricercano sicurezze negli
elementi che sono più strettamente controllabili dalla singola persona. Non
tutti hanno a disposizione i mezzi economici, ad esempio avvalendosi delle
tecnologie, per controllare la salute, prevenire gli elementi nocivi, e molti
pensano di poter fare a meno della prevenzione ritenendo che la quantità di
denaro è anch’essa fluttuante ma che tutto rientra in una dinamica che è tipica
del gioco. Lo stesso Bauman, in altri suoi scritti, ci ha fatto riflettere sul
fatto che oggi è molto diffusa l’idea dell’azzardo. Se sono fortunato divento
ricco. Non se ho capacità, se mi creo le competenze, se metto in atto delle
strategie; ma: se sono fortunato. La fortuna aiuta gli audaci: mai come oggi si
ritiene che l’audacia sia l’elemento vincente, oltre a una certa capacità di
presentarsi nelle circostanze che il gioco esige con la tracotanza, la
sicurezza che forse non è, ma basta che appaia tale.
Questa riflessione può portare lontano
dal nostro tema. Certamente anche questa parte di riflessione di Bauman è
interessante: anche i figli e le figlie possono diventare un elemento del gioco
d’azzardo. È una possibilità che vengano in qualche modo assunti come una
regalo della fortuna. Se noi, in qualche modo, abbiamo i mezzi per truccare la
partita e riuscire a vincere, ci sembra un vantaggio della sorte. Tutto è
organizzato secondo un investimento di gioco e di fortuna.
Il sostegno “a distanza” viene proposto
come altruistico da certe trasmissioni televisive. Riguarda una forma
particolare di aiuto che non va mescolata con l’adozione. Viene indicata con
un’espressione che in qualche modo si ricollega a quello che stiamo
riflettendo: “è la possibilità di aiutare un’infanzia meno fortunata”.
L’espressione risulta familiare. Sullo sfondo che abbiamo delineato, stabilisce
una connessione inevitabile con la fortuna del gioco, o la sfortuna dello
stesso gioco. La diffusione della logica del gioco d’azzardo rinforza il clima
di incertezza e quindi il desiderio di “certificati di garanzia”. Elementi che,
in un processo di logica rigorosa, sarebbero in un rapporto di esclusione (o
l’uno o l’altro), finiscono per rinforzarsi reciprocamente.
E arriva una parte di riflessione che
riguarda la possibilità di vivere nell’incertezza una difficoltà ulteriore per
chi è genitore adottivo e per chi è bambino o bambina adottata: quella di
essere in una condizione in cui sono venute meno, in gran parte, le
consuetudini di trasmissione delle notizie o se vogliamo delle competenze
informali che un tempo avvenivano molto più facilmente attraverso la
quotidianità e gli impegni che nella quotidianità si svolgevano. Più volte
abbiamo fatto riferimento, in altre occasioni, a una trasmissione di competenze
che avveniva, ad esempio, preparando da mangiare. È quasi banale dire che in
molte abitazioni la preparazione del mangiare si risolve in pochi minuti di
prodotti introdotti nel forno a microonde. Questo vuol dire una privazione
evidente di gesti offerti in visione a un bambino o a una bambina che cresce;
non vede certi gesti, quindi non può maturare una conoscenza per esempio dei
pericoli, vedendo come i gesti abbiano una loro disciplina, una loro
organizzazione, e vedendo anche certi errori che possono essere fatti per
distrazione, perché suona il telefono, perché vengo chiamato, e come rimediare
a questi errori. È deprivato di tutto questo.
Accogliere nella propria famiglia, come
figlio, come figlia, chi viene da lontano, da un altro paese, da un altro
contesto, impegni chi è genitore in una necessaria riorganizzazione di quelli
che erano i gesti, del tutto abituali in altri tempi, e quindi metta in moto
una genitorialità impegnativa, con un investimento genuino, certamente, ma con
la difficoltà ad essere riconosciuta nei comportamenti degli altri genitori,
degli altri familiari. Perché?
Schematizzando molto: io divento genitore
accogliendo in casa un bambino o una bambina, assumo comportamenti che
permettono di assorbire maggiormente quelle che ritengo essere le offerte della
genitorialità: lo o la porto di più con me, organizzo i miei pasti in modo tale
che partecipi alla preparazione, in qualche modo insegnando informalmente ma
con una certa intenzionalità i comportamenti della casa in cui coabiterà, e di
cui diventerà forse un giorno il padrone, o la padrona.
Questi gesti, questi comportamenti,
questo tempo organizzato non è lo stesso del mio amico, compagno di lavoro che
ha un figlio nato, cresciuto, che cresce quotidianamente con lui e con la sua
compagna, con sua moglie. La differenza c’è. Si potrebbe dire che ogni famiglia
ha delle differenze. Annotiamo questa differenza come sottolineata da
un’intenzionalità che impegna l’altro. E in questo c’è un piccolo rischio e
anche una ricchezza: organizzo diversamente dal compagno di lavoro, dal vecchio
amico, il mio tempo, la mia quotidianità, e a te che sei mio figlio o mia
figlia offro qualcosa, e vorrei che tu rispondessi con una adeguata capacità di
sviluppo. Il ritardo che puoi mostrarmi lo attribuisco al fatto che hai vissuto
vicende che ti hanno in qualche modo marcato. Ma io mi impegno con te perché tu
possa crescere bene.
E in questo immagino anche che cosa significhi
crescere bene, in qualche modo delineo un modello per la tua vita. Mi deludi?
Sono pronto ad accettare le delusioni. Hai degli scarti rispetto alla traccia
che io in qualche modo sto delineando, e vuoi scegliere altre strade,
comportarti in altro modo, avere altri sogni rispetto a quelli che io in
qualche modo idealizzo per te? È più difficile accettare che vi sia questa
diversa interpretazione della crescita, e che quindi ci sia una scoperta
dell’altro ancora di più altro. Sarebbe del tutto normale. Ma il contorno di
cultura dell’incertezza che intravede nel figlio sangue del proprio sangue un
elemento di sicurezza si insinua e mi inquieta; posso anche attribuire agli
altri un’azione nefasta nei miei confronti e alimentare ancora di più una
conflittualità che mi vede schierato contro, e gli altri a loro volta li
interpreto come schierati contro.
I punti di incontro sembrano sparire, e
sembra sempre più ritenersi, la mia posizione, come una posizione isolata alla
ricerca di una comprensione che mi sembra negata. Vivo anche i servizi attorno
a me come incapaci di comprendermi. Vivo la scuola, le organizzazioni
associative, come quelle che dovrebbero fare qualcosa che aiuti lo sviluppo
della mia genitorialità piena, che ho voglia che diventi sempre più piena nella
realizzazione di un’educazione; li trovo carenti, li trovo incapaci di
coordinarsi con me, di darmi quello che cerco. E vivo un certo isolamento.
Questo è un rischio, che ancora una volta è accompagnato dall’incertezza e
dall’investimento totale su un soggetto per il riscatto della mia insicurezza.
Questo può creare una paradossale tensione che si autoalimenta e che porta, a
volte, a quelli che chiamiamo fallimenti.
Dobbiamo ribellarci ad una cultura
dell’incertezza che colpevolizza il singolo. Dobbiamo proporre con più forza la
certezza della genitorialità piena dell’adozione.
* Professore Ordinario di pedagogia speciale e
Direttore del Dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università degli
studi di Bologna.
www.fondazionepromozionesociale.it