Prospettive
assistenziali, n. 136, ottobre-dicembre 2001
le esigenze essenziali delle persone con
handicap e limitata autonomia
vincenzo bozza
Il 21 giugno
2001 si è svolto a Nichelino (Torino) un incontro sul tema: “Assistenza e sanità: riconquistare i diritti” organizzato dall’Utim, Unione per la
tutela degli insufficienti mentali, delegazione di Nichelino. Nell’occasione
Vincenzo Bozza, Presidente della suddetta associazione, ha tenuto una
relazione dal titolo “Le esigenze essenziali delle persone con handicap e
con limitata autonomia” che riproduciamo
integralmente.
L’Utim (Unione per la tutela degli insufficienti
mentali) è una associazione di volontariato nata nel maggio del 1991. Questo è
infatti il decimo anno di attività da quando un gruppo di persone, tutte già
impegnate anche in precedenza nel volontariato, l’ha fondata.
Non vi sembri strana questa scelta visto che il numero
di associazioni e gruppi di volontariato esistenti sembra persino eccessivo.
Possibile che non ci fosse un luogo dove poter
svolgere il proprio impegno di volontari?
Questa domanda è anche, forse, quella che più spesso
viene fatta alle persone impegnate nel mondo del volontariato.
È necessario però, per dare una risposta, chiedersi
anche quali sono gli obiettivi che ogni singola associazione si pone e quali
sono gli strumenti che intende utilizzare per realizzarli.
È questa infatti la vera chiave di lettura per
districarsi nel mondo del volontariato. Per capire diversità e/o affinità non
bisogna fermarsi agli interessi dichiarati, ma darsi una risposta alla seguente
domanda: “Qual è il loro modo di lavorare
e quali sono le conseguenze di tale scelta?”
Il volontariato, specialmente quello organizzato da
associazioni, gruppi, comitati o altre forme di aggregazione, viene a contatto
con centinaia e a volte migliaia di persone e di nuclei familiari in stato di
bisogno.
Quasi tutti però, purtroppo, si occupano solamente di
problemi immediati ed intervengono esclusivamente per risolvere i casi
individuali, ad esempio regalando denaro a coloro che non hanno i mezzi per
vivere, oppure offrendo assistenza a malati (ricchi e poveri) ricoverati in
ospedale, in istituto o a domicilio, oppure assumendo altre iniziative ritenute
utili.
Si tratta di quello che noi chiamiamo “volontariato consolatorio”.
L’obiettivo di fondo, spesso inconsapevole, del
volontariato consolatorio è quello di rispondere ai problemi delle persone in
difficoltà di cui si occupano, senza chiedersi in quale direzione vada il loro
aiuto e senza tenere conto se la loro azione di fatto contrasti o meno con il
riconoscimento effettivo dei diritti delle persone più deboli.
Altre organizzazioni - è l’esempio dell’Utim - non si
limitano ad agire solamente sul singolo caso, ma operano anche e soprattutto
per ottenere idonee misure per tutti i cittadini ed i nuclei familiari che si
trovano nelle stesse condizioni.
Inoltre non accettano di agire esclusivamente sugli
effetti dell’emarginazione, ma operano anche per l’eliminazione o, almeno, per
la riduzione delle cause che provocano il disagio. In questo modo diminuisce il
numero sia delle persone e dei nuclei familiari in difficoltà, sia delle
problematiche che affliggono singoli individui e famiglie intere. Ad esempio,
la risoluzione di alcuni problemi dei soggetti colpiti da handicap non si
ottiene mediante prestazioni di mera assistenza (che ovviamente possono e
devono essere fornite per tamponare in qualche modo le emergenze), ma con
l’eliminazione delle cause che determinano l’esclusione degli handicappati
dagli asili nido, dalle scuole materne, da quelle dell’obbligo e dalle
superiori, o dal lavoro.
Sono queste alcune caratteristiche di quello che noi
chiamiamo “volontariato dei diritti”.
In questa ottica vediamo, allora, quali sono le
esigenze essenziali delle persone con handicap grave e/o con limitata o nulla
autonomia.
Evidentemente tali esigenze sono diverse in relazione
all’età e/o al tipo di handicap.
Io mi riferisco alle persone maggiorenni, persone
quindi che hanno finito il loro percorso scolastico e per le quali, alla fine
di quel ciclo, è accertato che non vi sono nemmeno residue possibilità di
inserimento lavorativo.
Anche la famiglia, che pure fino a quel momento ha
lottato per verificare ogni sia pur minimo spiraglio di progettualità per il
proprio congiunto, comincia infine a pensare ad una diversa impostazione delle
prospettive di vita propria e del proprio congiunto.
Analogamente, anche quando una famiglia si trova ad
affrontare problematiche relative all’insorgere della malattia di Alzheimer o
altre patologie che rendono un proprio congiunto malato, spesso non
autosufficiente e non di rado non in grado di intendere e di volere, le
prospettive di vita dell’intera famiglia vanno riviste.
Non pretendo di essere esaustivo nell’indicare le
esigenze delle persone con handicap e di quelle comunque non autonome ma alcune
di queste esigenze, credo, devono essere sicuramente accettate come necessarie
dalla totalità delle persone interessate.
Prima di passare a vedere quali sono, è però
necessario distinguere, tra queste esigenze, che taluni hanno definito come
necessarie e prioritarie, mentre noi le riteniamo indispensabili alla vita e
pertanto le avremmo voluto obbligatorie per legge, in due grandi filoni:
sanitarie e assistenziali.
È evidente a tutti che una persona malata di Alzheimer
o di demenza senile oppure una persona affetta da diverse patologie come spesso
avviene nelle persone anziane, hanno bisogno innanzitutto di cure sanitarie.
Altrettanto scontato dovrebbe essere che una persona
con handicap grave è una persona che certamente ha poca o nulla autonomia ma
non si può parlare di malattia se non quando anch’essa ha un raffreddore o
un’appendicite o cos’altro può capitare a qualsiasi persona “normale”.
Ma il portatore di handicap, in quanto tale, ha però
bisogno di ausili e supporti tecnici per essere aiutato a superare o quantomeno
ridurre le sue disabilità; soprattutto quando è grave ha anche bisogno di
vivere in un ambiente nel quale i suoi bisogni vengano compresi e soddisfatti.
Un ambiente quindi non totalizzante, dove quella
persona non sia solo un numero ma, appunto, una persona con desideri, simpatie
e antipatie, dolcezze e arrabbiature proprio come tutte le persone.
La migliore struttura che oggi conosciamo rispondente
a tali requisiti è la famiglia.
Famiglia che, investita da un evento che ha provocato
l’impatto con l’handicap, come può essere stata una nascita, ma anche magari un
incidente automobilistico, si trova ad affrontare difficoltà che sembrano
insormontabili con reazioni talora difficili da comprendere da chi non ha
vissuto l’evento. Famiglie nelle quali spesso uno dei suoi congiunti, quasi
sempre la madre, deve rinunciare al lavoro per dedicare la maggior parte del
suo tempo al congiunto in stato di bisogno.
È opportuno in proposito non dimenticare che nessuna
legge obbliga le famiglie a tenere in casa il congiunto maggiorenne
handicappato. Si potrebbe anzi dire che queste persone non sono solo figlie
della famiglia ma della società. Ma quasi sempre la famiglia sceglie di
tenersela in casa. Certamente non rinnegherò qui quell’obbligo morale che
deriva dall’amore per il proprio congiunto e che ognuno sente, a volte
lacerante, soprattutto di fronte a difficoltà oggettive che fanno a volte
sentire inadeguati; ma non è di questo che voglio parlare, anche se a volte
affrontare il problema anche dal punto di vista etico non guasterebbe.
La scelta che ha fatto la famiglia ha però bisogno di
sostegno; ha bisogno di supporti che aiutino a rifarla tutti i giorni, perché
proprio di questo si tratta, e che col passare degli anni è sempre più
difficile e faticoso portarla avanti.
I servizi minimi di cui c’è bisogno sono:
a) servizi che aiutino la famiglia per almeno quaranta
ore settimanali istituendo centri diurni. Ricordiamo che le restanti 128 ore
della settimana, per tutte le settimane dell’anno, sono a carico della
famiglia. Scopo dell’istituzione dei centri diurni è la creazione di
alternative al ricovero in istituto in modo da consentire la permanenza dei
soggetti nel vivo del contesto sociale e possibilmente in famiglia. Anche il
risparmio economico (che vedremo più avanti) che tale scelta, alternativa al
ricovero in istituto, comporta per le finanze degli enti responsabili, è da
tenere in considerazione;
b) soggiorni estivi di almeno 14 giorni nel caso di
soggetti non inseriti in alcuna struttura o frequentanti servizi diurni aperti
tutto l’anno; nel caso invece di servizi diurni per i quali sono previsti
periodi di chiusura, per tutto il tempo della chiusura. Il soggiorno estivo è
una necessità inderogabile sia per dare modo al soggetto handicappato di vivere
un periodo di stacco, come ognuno di noi pretende di fare per se, sia per dare
ai congiunti una boccata di ossigeno. Ci sono famiglie che non sanno neppure
più organizzarsi una giornata di tempo libero tanto sono schiave della loro
condizione;
c) prevedere e realizzare l’istituzione di comunità
alloggio, o case famiglia, di 8-10 posti al massimo, dove inserire queste
persone quando i congiunti non sono più in grado di tenerli presso di se,
oppure ritengono di non volervi più provvedere. Per comunità alloggio
intendiamo strutture residenziali distribuite in un ambito territoriale di
circa 30.000 abitanti che permetta alla famiglia ed alla rete parentale amicale
che è stata costruita nel tempo di non perdere il contatto con la persona
ricoverata e mantenga quindi un minimo di rapporti.
Certamente non siamo per luoghi più o meno ben
denominati e strutturati che assommino al loro interno numeri e situazioni che
finiscono inevitabilmente per assumere una fisionomia segregante. Parlo qui
anche delle Raf (Residenze assistenziali flessibili) dove sono assistite fino a
20 persone e che in alcuni casi si trovano nello stesso stabile, una accanto
all’altra, con spazi in comune, ritornando così di fatto a mega-strutture non
inserite nel territorio. L’esperienza ha già dimostrato che creare spazi propri
e protetti determina quasi sempre dinamiche di esclusione lontani dalle
responsabilità e dal coinvolgimento dei cittadini.
Finché ci sarà un posto “per gravi” ci saranno sempre persone tanto in difficoltà da
rinchiudere in un istituto, piccolo o grande che sia. Voglio citare in
proposito le parole di una madre intervenuta ad un convegno tenutosi a Trento
il 31 gennaio del 1998 nel quale si parlava di questi temi: “Mi piacerebbe immaginarla (la figlia) in
un gruppo famiglia, mentre continua a frequentare il centro diurno e quelle
attività di tempo libero che oggi la coinvolgono tanto e che le permettono di
vivere con la gente. Mi dispiacerebbe molto invece vederla privata di tutte le
sue sicurezze: la casa, il centro diurno, la città, le persone che gravitano
intorno alla sua giornata”.
Un altro aiuto che noi riteniamo indispensabile per
sostenere la permanenza a casa delle persone in difficoltà è quello che
chiamiamo “volontariato intra-familiare”.
Si tratta, come con evidenza dice la parola stessa,
del volontariato che vede protagonista la famiglia; è evidente la convenienza
che amministratori accorti avrebbero a sostenerlo proprio o anche solo
nell’interesse delle casse che amministrano.
Riprendo però prima il concetto di poc’anzi.
La famiglia, il singolo congiunto della persona priva
di autonomia, non ha nessun obbligo di legge di occuparsi di essa.
L’obbligo dei Comuni ad intervenire invece si evince
chiaramente dall’ancora vigente regio decreto n. 6535 del 19/11/1889 che
stabilisce che i Comuni devono intervenire nei confronti delle persone “inabili a qualsiasi lavoro proficuo che per
infermità cronica o per insanabili difetti fisici o intellettuali non possono procacciarsi
il modo di sussistenza”.
Tale obbligo viene ribadito dal regio decreto n. 773
del 18/6/1931, che richiamandosi alla legge sopra citata, recita: “Le persone riconosciute dall’autorità di
pubblica sicurezza inabili a qualsiasi lavoro proficuo e che non abbiano mezzi
di assistenza né parenti tenuti per legge agli alimenti ed in condizioni di
poterli prestare, sono proposte (…) per il ricovero in un istituto di
assistenza e beneficenza del luogo o di altro Comune (…)”.
Si tenga ben presente che gli alimenti possono essere
chiesti esclusivamente dal soggetto interessato o, se interdetto, dal suo
tutore.
Anche le leggi sanitarie sono chiare nell’obbligo
delle cure alle persone malate ancorché croniche e non autosufficienti.
Come avrete ben inteso si tratta di leggi vecchie, ma
non per questo da non utilizzare, visto peraltro che sono tuttora vigenti.
Ricordo inoltre che l’art. 38 della Costituzione,
primo comma, sancisce che “ogni cittadino
inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale”.
Faccio presente che, nonostante la chiarezza della
sopracitata norma costituzionale le leggi 104/1992 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate” e 328/2000 contengono affermazioni di principio
molto positive che però non si concretizzano in disposizioni esigibili negli
articoli successivi a quelli declamatori. Infatti è ormai noto a tutti che la
legge 104/1992 annovera ben 22 “possono” e
pochi “devono”.
Anche la legge 328/2000 che ha per titolo “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali” non contiene diritti
soggettivi esigibili per le persone in stato di bisogno. È ben vero che l’art.
2 al primo comma dice che “hanno diritto
di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato di
interventi e servizi sociali i cittadini italiani…” ma già il terzo comma
del medesimo articolo recita: “i soggetti
con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per
inabilità di ordine fisico e psichico (…) accedono prioritariamente ai
servizi ed alle prestazioni erogati dal sistema…”. Ma è noto che priorità
non significa diritto esigibile.
Per finire su questa legge, sulla quale non voglio soffermarmi
più di tanto non essendo il tema del mio intervento, dirò solo più che l’art.
22, quello che elenca quei servizi che vengono definiti prioritari ed essenziali,
mai obbligatori, al comma 2 precisa che le prestazioni elencate “costituiscono il livello essenziale delle
prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi (...) nei limiti delle risorse del fondo nazionale
(…) tenuto conto delle risorse
ordinarie già destinate dagli enti locali alla spesa sociale”.
Stabilito quindi che nulla è dovuto dalle famiglie,
mentre invece è chiaro l’obbligo dei Comuni a provvedere in caso di persone “inabili a qualsiasi lavoro proficuo e che
non possono procacciarsi il modo di sussistenza”, vediamo come si presenta
la situazione.
La famiglia, trovatasi ad affrontare un tale problema,
e che ha deciso di farsene carico, abbiamo detto che ha bisogno di essere
aiutata e in proposito ho già fatto un primo elenco degli interventi necessari.
È bene però che altri servizi vengano pensati ed attivati per evitare il più
possibile il ricovero residenziale. Tra questi voglio ricordare ad esempio
l’assistenza domiciliare.
Voglio invece soffermarmi, come ultimo argomento, su
un aspetto che a Torino è praticamente sconosciuto alle famiglie, ma che come
associazione abbiamo già dovuto rintuzzare alla amministrazione e sulla quale
non bisognerà mai abbassare la guardia.
A Torino, come dicevo, siamo in una situazione
abbastanza buona e soprattutto, grazie al lavoro ed alle iniziative del Csa, la
frequenza dei centri diurni non costa assolutamente nulla all’utente o alla
famiglia, ma fuori della realtà torinese la situazione è drammatica. Primo
perché le strutture sono insufficienti quando non del tutto inesistenti,
secondo perché là dove esistono spesso le famiglie sono obbligate al pagamento
di rette che quasi sempre vanno dalle 200 alle 300, alle 400, addirittura alle
700 mila lire mensili. Quando dico obbligate voglio dire in realtà ricattate.
La mancanza di leggi che obblighino i Comuni ad
istituire servizi di aiuto alle famiglie fa sì che essendo questi
discrezionali, il ricatto è: se non paghi non ti garantisco più la frequenza;
ciò quando i centri esistono, altrimenti ci si rivolge a privati e alcune
famiglie addirittura si trasferiscono, intendo dire che emigrano, verso comuni
che hanno almeno un qualche straccio di servizio.
E allora che fare?
Iniziamo da due conti fatti dal Cisap (Consorzio
intercomunale servizi alla persona) di Collegno e Grugliasco:
• Costo, per la comunità, di un handicappato grave che
vive con i suoi congiunti:
Indennità di accompagnamento
£. 26.871 giornaliere = costo annuo L. 9.807.915
Pensione di inabilità
L. 411.420 mensili x 13 mesi = L. 5.348.460
Costo medio annuo di frequenza
per un centro diurno L. 32.500.000
Totale L. 47.656.375
• Costo medio di ricovero
in struttura residenziale = L. 250.000 giornaliere
costo annuo L. 91.250.000
Come si può notare da questi semplici calcoli la
comunità risparmia, grazie al volontariato familiare, ben 43 milioni annui.
Ce ne sarebbe d’avanzo per sostenere quest’impegno
che, lo ricordo, non è dovuto dalle famiglie e che va a beneficio della
comunità intera.
Quindi bisogna sempre, in ogni occasione, ricordare
agli amministratori:
1) che gli unici redditi che possono essere presi in
considerazione per il pagamento di eventuali rette relative ai soggetti con
handicap in situazione di
gravità sono quelli della persona che frequenta il servizio (1), dopo
ovviamente aver tenuto conto del reddito minimo vitale, nel caso di servizio
diurno, che non si raggiunge certamente con l’importo della pensione erogata
agli invalidi civili pari ad appena 431.420 mensili (anno 2001), che è un vero
schiaffo alla decenza, e con il quale l’invalido dovrebbe mantenersi (è bene
ricordare sempre che l’indennità di accompagnamento, come previsto dalla legge,
non concorre alla costituzione del reddito). Vi è dunque la necessità che venga
richiesta la certificazione di gravità per i soggetti con handicap frequentanti
i centri diurni o ricoverati in comunità alloggio o in istituti al fine di
evitare che i Comuni possano fare riferimento al reddito familiare per i
pagamento delle rette;
2) chiedere per i maggiori oneri che la famiglia
affronta per provvedere alle esigenze delle persone nonché al tempo di
assistenza che è necessario, che venga riconosciuto dalle amministrazioni alla
famiglia una cifra almeno pari all’indennità di accompagnamento che deve
servire ad evitare o quantomeno a procrastinare il più lontano possibile nel
tempo il ricovero in strutture assistenziali.
È tempo che le famiglie prendano in mano la loro vita,
che si organizzino o si associno a gruppi che praticano la tutela e la
rivendicazione dei diritti. Diritti tesi a garantire oggi una vita più
dignitosa ai propri congiunti ma chissà, forse, anche la propria domani. Le
famiglie devono pretendere l’aiuto necessario per continuare a lavorare in
favore di questa società.
Hanno bisogno di essere sostenute nel loro
“volontariato intra-familiare” che, voglio ribadire ancora una volta, sgrava di
costi e di investimenti la comunità, ma soprattutto dà una vita di relazione
più ricca e più meritevole di essere vissuta anche a persone che, da sole, non
sarebbero in grado di provvedervi.
Ma quest’ultimo aspetto non è obbligatorio che sia
condiviso da tutti. A noi basterebbe che i nostri interlocutori fossero dei
semplici contabili. Cosa a cui peraltro sarebbero costretti se le famiglie
imparassero una buona volta a diventare protagonisti e coscienti dei diritti
propri e delle persone di cui si occupano.
Una ultima annotazione. Talvolta i servizi nascono su
iniziativa di parenti riuniti in associazione che chiedono finanziamenti
pubblici e si inventano chissà cos’altro per avere finanziamenti a sufficienza,
non ultimo quello di chiedere soldi alle famiglie. In questo modo però si
deresponsabilizzano gli Enti locali, che, come predetto, sono gli unici tenuti
a occuparsi dell’assistenza alle persone non in grado di provvedere a se
stesse. Così queste persone invece di battersi per ottenere i servizi
necessari, e per tutti, finiscono con lo sprecare le loro energie nella
gestione quotidiana di un pezzetto di assistenza.
(1) Decreto legislativo 130
del 3 maggio 2000, art. 2 comma 6: «Le
disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina relativa ai
soggetti tenuti alla prestazione degli alimenti ai sensi dell’art. 433 del
codice civile e non possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione
agli enti erogatori della facoltà di cui all’articolo 438, primo comma, del
codice civile nei confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente
la prestazione sociale agevolata».
Art.
3 comma 2-ter: «Limitatamente alle
prestazioni sociali agevolate assicurate nell’ambito di percorsi assistenziali
integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale
a ciclo diurno o continuativo, rivolte a persone con handicap permanente grave,
di cui all’art.3 comma 3 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, accertato ai sensi
dell’art.4 della stessa legge, nonché ai soggetti ultrasessantacinquenni la cui
non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende
sanitarie locali, le disposizioni del presente decreto si applicano nei limiti
stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri… al fine di
favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di
appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche
in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione…».
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