Prospettive assistenziali, n. 137, gennaio-marzo 2002

 

i fondamenti della genitorialità

Gabriella cappellaro *

 

Che cosa significa, oggi, essere genitori?

In un mondo dove i bambini sono continuamente sollecitati dall’obiettivo di una precoce adultizzazione? Che poi fatalmente si risolve in un miraggio.

In questo luogo di illusione incontriamo in realtà tanti bambini sofferenti: perché sono stati chiamati a colmare le incompiutezze dei propri genitori, a volte addirittura a sostituirli.

Tanta infanzia negata proprio da parte di quei genitori che intendono il legame di sangue come l’investitura per un potere soggettivo e assoluto al tempo stesso nei confronti dei propri figli, richiama con forza una riflessione sulla genitorialità.

E ancora, che cosa significa diventare genitori in una società, quella attuale, in cui il concetto di famiglia è tanto articolato? E infatti riconosciamo, oltre la famiglia d’origine, quella adottiva, quella affidataria, quella ricomposta, e anche quella costituita dalla famiglia allargata, tutte come famiglie proponibili, a determinate condizioni, all’allevamento e all’educazione dei bambini. Anche da qui dunque un richiamo al tema della genitorialità.

Un primo pensiero allora: per la genitorialità può non essere sufficiente il legame di sangue e contemporaneamente si può raggiungere una genitorialità piena senza alcun legame biologico.

Il legame di sangue può essere la premessa di un vincolo di genitorialità, una premessa straordinariamente effiace, in quanto biologicamente fondata, ma solo comunque una premessa, perché il vincolo di genitorialità, quale patto di alleanza adulto/bambino, va mantenuto e dimostrato nel tempo della crescita del figlio attraverso continui comportamenti di genitorialità, che la sola biologia non è in grado di promuovere.

La legislazione che riconosce anche ad altri adulti, oltre ai genitori naturali, la legittimità a tutelare gli interessi di un bambino, è implicitamente una sottolineatura di come la genitorialità sia una qualità dinamica e debba continuamente allinearsi agli interessi del bambino, oggi riconosciuto, almeno teoricamente, come soggetto di diritti.

E così come si sottolineano le esigenze di crescita del bambino, parallelamente si deve riflettere sulla capacità della genitorialità ad allargare la propria competenza. Via via che il figlio cresce, ecco che il vincolo di sangue perde comunque quel significato assoluto che molti vorrebbero ancora attribuirgli e comunque non basta più dire ad un figlio “sono tuo padre, siamo dello stesso sangue!” per essere credibili, bisogna dimostrarlo.

In realtà, è fin dal primo giorno che bisognerebbe dimostrare ad un figlio di essere all’altezza della genitorialità, ma i bambini sono creature dipendenti, ingenue e fiduciose, ci credono e basta. A volte pagano prezzi incredibili per quella genitorialità che chi li ha messi al mondo non sa affatto coltivare oppure ha troppo negligentemente coltivato.

Se generare (lat. genero) significa riprodurre nell’ambito della stessa specie, è chiaro che al compito generativo è sufficiente una maturità biologica.

Genitore (lat. gigno, part. pass. genitus) è invece molto di più, è colui che è stato generato e che a sua volta genera, e si fa dunque portatore di una trasmissione generazionale di umanità.

Al compito genitoriale è necessaria la maturità psicologica, l’adultità.

 

Come si modula la relazione adulto/bambino

Dopo aver inquadrato la genitorialità come l’insieme dei comportamenti che un valido genitore mette via via in atto per far crescere al meglio il proprio figlio, occorre approfondirla e cercare di scomporla negli elementi costitutivi. Se la genitorialità è la qualità dinamica, in costante evoluzione, dei molteplici momenti di dialogo educativo con il figlio, possiamo affermare che funzione genitoriale e rapporto educativo sono le due dimensioni fondanti la relazione adulto/bambino. Si tratta di due polarità lungo la via della relazione:

funzione genitoriale                                        rapporto educativo

 

essere genitore        relazione adulto/bambino        fare genitore

 

la propria identità                                                    il proprio ruolo

l’adultità                                                            il compito

 

La posizione di genitore va dunque continuamente e dinamicamente costituita, perché:

– il porsi davanti ad un bambino

– e il proporsi ad un bambino

non sono la stessa cosa.

Infatti il porsi ha a che fare con un cammino di consapevolezza di sé, dei propri spazi interni, della propria vita emotiva ed affettiva, della propria storia (dove i capitoli basilari sono quelli iniziali) e del modo di affrontarla, delle proprie risorse, dei propri legami, mentre il proporsi ha a che fare con la conoscenza del bambino, del suo mondo interiore, del suo modo di funzionare, dei suoi bisogni (potenziali di crescita), delle sue esigenze, di quelle evolutive e di quelle specifiche (legate a circostanze particolari), talvolta anche riparative.

Quando la relazione adulto/bambino esce dall’ambito dell’autocoscienza e della coscienza della responsabilità nei confronti dell’altro in quanto minore, entriamo purtroppo nell’ambito della patologia del genitore.

La funzione genitoriale, per essere espressa al meglio, deve attraversare lo spessore della persona-adulto, che diventa perciò, in ogni singolo atto educativo, anche modello e punto di riferimento.

Si può così esemplificare:

bambino                                relazione                                adulto

 

diritti                                                                                     doveri

rapporto educativo                    funzione genitoriale

 

In che cosa consiste la funzione genitoriale?

Funzione genitoriale è il diritto di attuare proposte educative con uno specifico individuo-bambino. L’adulto in grado di esprimere una funzione genitoriale compiuta è l’adulto che ha raggiunto l’adultità, ha raggiunto una propria competenza autobiografica, ed è perciò capace di prendere in mano la propria personale esperienza di infanzia, il proprio essere stato bambino, con le rabbie, i dolori, le umiliazioni patite, le attese deluse, per essere sereno, riconciliato, se del caso, con il proprio passato e non correre il rischio di farlo rivivere sul bambino di cui si occupa.

 

Chi è il genitore educatore? Perché e come si è educatori?

Se educare nel suo significato di “trarre fuori”, va inteso sia come “venir fuori” che “menar fuori” partendo da quello che ciascuno è per sé, bisogna convenire che l’atto educativo è scambio, rapporto, in cui entrambi gli attori sono contemporaneamente, anche se a livelli diversi, protagonisti del ruolo di educatore ed educando.

L’adulto educa se, prima ancora di sentirne l’attitudine, di conoscerne le strategie, è una persona dinamica, in crescita, in grado di guardare dentro se stessa e di impostare rapporti chiari con gli altri.

L’educazione si riconosce come dialogo che impegna reciprocamente, che vive e si alimenta nella reciprocità delle relazioni, dove il dare e l’avere non sono da una parte o dall’altra, ma si intersecano continuamente in un processo di crescita scambievole.

Se corretta educazione è lo spazio ideale per la prevenzione (a tutti i livelli) del maltrattamento infantile, se educazione è il rapporto che si interroga, prevenzione (a tutti i livelli) è un adulto disposto a mettersi in discussione, a conoscere quello che accade nel bambino e quello che accade dentro di sé quando si mette in relazione con il bambino.

Prevenzione (a qualsiasi livello) è un adulto che ripensa alle proprie risorse di attenzione, di comprensione, di intelligenza e di affetto e le arricchisce in funzione delle richieste del bambino.

Funzione genitoriale e rapporto educativo vanno dunque intesi come dovere dell’adulto di promuovere la crescita del bambino a lui affidato (è lo stesso se figlio biologico, piuttosto che adottato piuttosto che in affido), situandosi in una relazione dove solo la capacità di conoscenza e di autoriflessione dell’adulto è la misura della crescita del bambino.

 

Come si valuta l’efficacia della genitorialità?

Funzione genitoriale e rapporto educativo si connettono a questo punto con il concetto di validità genitoriale. Quando cioè si può affermare che un genitore è sufficientemente sano e forte?

La validità genitoriale è questione che comporta diversi ambiti, tocca molti contesti, affonda su un terreno, quello del diritto naturale sulla propria prole, che è terreno non facilmente percorribile, anzi è terreno dei massimi scontri culturali e di conflitto di interessi spesso interminabili:

– fino a che punto può spingersi il comportamento di un genitore con il proprio figlio senza essere giudicato dannoso?

– quali sono i confini del contesto culturale specifico di quella famiglia, oltre cui sta il maltrattamento?

– quand’è che un genitore danneggia il proprio figlio?

– poter contare su un figlio “resiliente” esonera il genitore?

– fino a che punto la malattia psichica del genitore è solo fattore di rischio e non di danno?

– quali sono gli indici di un abuso emotivo da cui il bambino ha bisogno di essere protetto?

Siamo abituati a parlare di valutazione del genitore soprattutto in ambiti negativi, sociogiudiziari, quando abbiamo fondati sospetti per ritenere che un bambino viva un’esperienza familiare di pregiudizio (di danno).

Ma è ancora più importante capire gli aspetti positivi della genitorialità, e non solo fare una stima dei danni inflitti ad un figlio.

Proprio il ritenere che è l’accertamento del danno inflitto al bambino a sconfermare la genitorialità ha portato per lungo tempo, e ancora porta, ad un concetto molto riduttivo dei diritti del bambino. Così, per esempio, non è ancora per nulla chiaro e/o condiviso che il più grave maltrattamento cui può essere sottoposto un figlio è la mancanza di una figura materna nei primi giorni di vita. Si pensa che le cure di allevamento (quelle dirette alla specie) siano bastevoli, mentre fin dal primo giorno il bambino, che peraltro non è in grado di protestare il pregiudizio che patisce, ha bisogno di cure di accudimento, di genitorialità (quelle dirette alla persona).

Valutare l’adeguatezza di una “relazione di cura” diventa molto di più che accertare come stanno i singoli individui, diventa l’accertamento del livello di positività dell’intreccio relazionale degli individui.

È questione dinamica, complessa, multidisciplinare. Hanno infatti rilievo sia alcuni aspetti sociali (situazione abitativa, lavorativa ed economica, organizzazione familiare, storia del matrimonio, storia di ogni componente la coppia genitoriale, rapporti con la famiglia d’origine, rapporti sociali), che specifici aspetti psicologici (dinamica delle relazioni familiari, personalità di ciascun componente la coppia genitoriale, legame di coppia, anamnesi di ciascun figlio, atteggiamenti e comportamenti nei riguardi dei figli, qualità dell’attaccamento genitori/figli, consapevolezza dei bisogni dei figli, rapporti con la famiglia estesa).

Dagli aspetti considerati, si ricavano gli elementi per la valutazione positiva: personalità realizzata, immune da gravi patologie psichiatriche, relazionali e sociali, personale competenza autobiografica, capacità di riconoscere i bisogni del bambino, consapevolezza di proprie eventuali difficoltà personali e dei comportamenti agiti verso il bambino, capacità di elaborazione delle esperienze, capacità di progettare, disponibilità al cambiamento.

Il modello teorico di riferimento è quindi relazionale. Per inquadrarlo valgano le parole di Winnicott secondo cui «non esiste qualcosa come un neonato», vale a dire genitori e figli esistono solo in relazione reciproca: i sentimenti e i comportamenti degli uni influenzano i sentimenti e i comportamenti degli altri secondo un modello di causalità circolare.

D’altra parte, se è vero che ogni essere umano ha una capacità biologica innata di fare da genitore e i bambini hanno la capacità di innescarla, è anche vero che la forma specifica che essa assumerà dipende dalle esperienze personali passate (Bowlby).

Innanzi tutto per assumere la funzione di genitore è importante attuare un passaggio di identità, da quello di figlio (dei propri genitori) a quello di genitore (dei propri figli).

Questo passaggio non è detto si compia pacificamente, perché a volte risveglia alcuni conflitti irrisolti relativi alla propria famiglia di origine, e questo avrà sicuramente una ricaduta sulla relazione di coppia dei genitori. Inoltre se il bambino reale, con i suoi bisogni, non corrisponde al bambino atteso, possono nascere altri gravi conflitti psicologici.

 

Quali sono i fondamenti della genitorialità?

È opportuno, a questo proposito, avere presente la dinamica dell’attaccamento, a partire dalle prime teorizzazioni di Bowlby, con il concetto di “base sicura” su cui poter contare nell’infanzia, per riuscire a sviluppare autostima, autonomia ed empatia in quantità sufficiente alla propria vita di relazione.

Quando invece il processo di attaccamento si costruisce in forma inadeguata, si vengono a sedimentare dei conflitti di dipendenza che intralciano la vita di relazione del bambino diventato adulto e genitore.

Nei primi mesi della sua vita, il neonato impara a distinguere una figura particolare che in genere è la madre e sviluppa un forte e riconoscibile desiderio di starle vicino. Dai sei mesi ai tre anni, la presenza della madre lo fa felice, la sua assenza lo turba profondamente. Il comportamento di attaccamento è specifico e durevole. Infatti è diretto verso uno o pochi specifici individui solitamente in un definito ordine di preferenza e persiste per gran parte del ciclo della vita. I primi attaccamenti non vengono abbandonati facilmente anche se possono attenuarsi, per esempio nell’adolescenza, diventare complementari ad altri attaccamenti ed essere talvolta sostituiti, come nella situazione di affidamento.

L’attaccamento è dunque una condizione per cui un individuo è legato emotivamente ad un’altra persona percepita come più grande, forte, saggia. Gli studi in materia hanno inoltre evidenziato una significativa continuità tra il modello di attaccamento del bambino piccolo e quello di cui la madre è porta­trice.

E così, in parallelo con la condizione infantile di attaccamento, si individuano quattro categorie di attaccamento adulto. Queste categorie evidenziano, attraverso il racconto che l’adulto fa della propria infanzia, il vissuto di attaccamento sperimentato e anche quello che l’adulto ora si appresta ad esprimere ai suoi figli:

1. adulto libero e sereno di fronte all’attaccamento: fornisce resoconti di infanzia sicura descritta in modo aperto, coerente e internamente costante. L’attaccamento sperimentato viene meditato e valutato e, anche se le esperienze sono state in parte o addirittura del tutto negative, c’è un senso di dolore provato e superato;

2. adulto che si situa sul versante abbandonante-distaccato nelle sue relazioni: fornisce della sua infanzia un resoconto incompleto e breve, sostenendo di avere pochi ricordi dell’infanzia e tendendo a idealizzare il passato con espressioni del tipo: ho avuto un’infanzia perfetta;

3. adulto che si posiziona con ansia tra il preoccupato e l’intrappolato: fa della sua infanzia un racconto incostante e caotico nel quale appare ancora eccessivamente coinvolto in conflitti e difficoltà passate con i quali sta ancora lottando;

4. adulto che vive le sue relazioni in modo irrisolto/disorganizzato/disorientato: ha sperimentato nella sua infanzia eventi traumatici, come violenze, che non sono stati ancora risolti.

Perché dei genitori si comportino in modo coerente, amorevole e appropriato alla cura dei figli, è necessario che abbiano sperimentato in prima persona un attaccamento sufficientemente buono nella propria infanzia (categoria n. 1), e siano perciò liberi e sereni quando considerano il proprio personale attaccamento, oppure abbiano compiuto un cammino di riflessione sulle difficili condizioni di attaccamento sperimentato per superare una posizione di adulto ancora intrappolato in proprie difficili condizioni relazionali (categorie n. 2-3-4).

Se, al contrario, non è chiaro al genitore di quale vissuto di attaccamento egli sia portatore, può risultare altrettanto confuso e confondente il suo stile di accudimento all’interno delle quattro dimensioni che lo qualificano:

a) sensibilità/insensibilità

b) accettazione/rifiuto

c) cooperazione/interferenza

d) accessibilità/inaccessibilità.

 

Genitorialità come attribuzione di senso

al bambino

Il tracciato della genitorialità, che parte dal riconoscimento della qualità della relazione sperimentata nella propria infanzia, si indirizza verso un figlio come occasione privilegiata, dotata di stile proprio, di relazionalità, perché sicuramente a quel figlio si attribuisce un significato psicologico.

Tutti i bambini hanno un significato psicologico per i loro genitori e questo, una volta esplicitato, aiuta a comprendere la relazione che intercorre tra loro (è una persona che realizza al meglio la mia umanità? qualcuno su cui riversare la propria capacità di cure? qualcuno cui donare le proprie risorse? sostituto? modo per diventare indipendenti? compensazione affettiva?).

Per significato si intende quindi un aspetto delle relazioni interpersonali in cui una persona ha un valore particolare per un’altra, come quello di soddisfare certe aspettative di ruolo o comportamento, rappresentando conflitti irrisolti e influenze del passato. Il rischio di queste influenze è che i bambini possono acquisire un copione o un progetto non dichiarato per la loro vita che è coerente con i temi familiari, ma sommerge l’identità personale e le particolarità del bambino.

Attribuire un significato al proprio figlio è operazione molto delicata, alla quale tuttavia non ci si può sottrarre, perché comunque viene svolta. Attribuire un senso al figlio (biologico, adottato, affidato: è lo stesso) è infatti, nell’accezione letterale del termine, dare una direzione alla sua vita, e questo lo si fa senza bisogno di rifletterci. Ma se non ci si riflette, si può correre il rischio di sbagliare direzione. Il che è tanto più grave, in quanto le direzioni sono solo due. Nel primo caso il figlio cresce per dare soddisfazione al genitore, nel secondo caso il figlio cresce per essere pienamente se stesso:

1) genitore e suoi bisogni      figlio     2) sua propria realizzazione

Genitorialità, allora, come patto di alleanza adulto/bambino che è molto di più della capacità di procreare, perché si sostanzia della propria raggiunta adultità, si declina via via nel tempo della crescita del figlio, si qualifica come legame che affronta le transizioni, si giustifica nel compito di aiutare il figlio a diventare Se stesso.

 

 

* Psicologa esponente dell’Associazione “Bambino chiama aiuto” di Vicenza.

 

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