Prospettive assistenziali, n. 138, aprile-giugno 2002
Ancora
sul pagamento delle rette di ricovero a carico dei parenti: errare humanum est,
perseverare diabolicum
Massimo Dogliotti (*)
Non vi era bisogno di un esplicito
intervento normativo per affermare l’illegittimità della prassi, ancora assai
diffusa, degli enti erogatori di richiedere il pagamento delle rette di
ricovero ai parenti dell’assistito che non sia in grado di farlo: il soggetto
privo di mezzi, può rivolgersi ai parenti, ai sensi dell’art. 433 c.c. e
seguenti, per ottenere gli alimenti e cioè quanto gli è necessario per
soddisfare i bisogni più essenziali, ma si tratta di rapporto privato tra
parente e parente, per il quale nessuna sostituzione da parte di altri (e men
che meno di un ente pubblico) può essere ammessa.
Era dunque sufficiente riflettere sui
caratteri propri della disciplina alimentare, per escludere ogni possibilità di
legittimazione dell’ente locale a richiedere ai parenti il pagamento delle
rette. Tuttavia la vicenda di questi anni è, com’è noto, emblematica: gli enti
hanno continuato nelle loro richieste illegittime, nonostante vi siano state
numerose pronunce di giudici contrarie a tale prassi.
Non vi era bisogno di un intervento
normativo, ma questo è venuto, e con molta soddisfazione delle famiglie,
costrette a lottare contro le imposizioni (qualche volta, soprattutto quando si
richiede una firma di garanzia del parente, per il ricovero del malato, sono
veramente tali!) degli enti.
Com’è noto, il decreto legislativo 3 maggio
2000 n. 130, che ha modificato il decreto legislativo 31 marzo 1998 n.109
“Definizione di criteri unificati di valutazione economica dei soggetti che
richiedono prestazioni sociali agevolate”, precisa, con chiarezza, che le
disposizioni del decreto «non modificano
la disciplina relativa ai soggetti tenuti alle prestazioni degli alimenti, ai
sensi dell’art. 433 codice civile», ma aggiunge, imponendo
un’interpretazione autentica, che non ne ammette altre, diverse o contrapposte,
che le disposizioni del decreto «non
possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione agli enti erogatori
della facoltà di cui all’art. 438 del codice civile, primo comma, nei confronti
dei componenti il nucleo familiare dei richiedenti la prestazione agevolata».
Il primo comma dell’art. 438 del codice civile, richiamato, precisa che gli
alimenti possono essere richiesti “solo”
da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio
mantenimento: da lui e da nessun altro (semmai, qualora egli sia incapace, dal
suo legale rappresentante, un tutore, nominato a seguito della procedura di
interdizione).
Va precisato che l’art. 25 della legge n.
328/2000 chiarisce che, ai fini dell’accesso ai servizi disciplinati dalla
legge, la verifica della condizione economica è effettuata secondo le
disposizioni previste dal decreto legislativo n. 109, modificato dal decreto
legislativo n. 130, come sopra ricordato. È pertanto da ritenersi che per tutto
il sistema integrato di interventi e servizi sociali, delineato dalla legge n.
328, valga il principio, così chiaramente espresso dai presenti decreti, di
esclusione della facoltà degli enti erogatori di richiedere ai parenti il
pagamento delle rette di ricovero.
Qualche ambiguità potrebbe emergere dal
contesto del decreto n. 130/2000, là dove si precisa che la valutazione della
situazione economica del richiedente è determinata «con riferimento alle informazioni relative al nucleo familiare di
appartenenza». Ci si riferisce comunque alla famiglia anagrafica, dunque
ai parenti già conviventi con l’assistito, ovvero a quelli che hanno in carico
tale soggetto. Ma la valutazione estesa ai familiari deve necessariamente
coordinarsi con il principio sopra indicato, ed esplicitamente enunciato, per
cui l’ente erogatore non può richiedere il pagamento parziale o totale delle
rette ai parenti: è da ritenere, pertanto, che, ove l’assistito non richiedesse
gli alimenti (o in caso di interdizione il suo tutore) o essi non venissero
spontaneamente corrisposti dai parenti (ma all’assistito, non all’ente), l’ente
erogatore non potrebbe far altro che riferirsi alle sole condizioni economiche
dell’assistito nei confronti del quale (e non dei parenti) potrebbe agire anche
esecutivamente (ove il ricoverato abbia propri redditi, magari cospicui).
È appena il caso di precisare che il
principio interpretativo di norme del codice civile, che attengono ai rapporti
tra soggetti privati, dove vengono in considerazione diritti soggettivi
perfetti, contenuto nel decreto n. 130/2000, è sicuramente esteso a tutto il
territorio nazionale, anche a quello delle Regioni a statuto speciale.
Tutto bene, tutto chiaro? Eppure le prime
reazioni degli enti erogatori sembrano andare in una direzione opposta,
palesemente contra legem: si afferma
che l’indicazione così esplicita e palese, contenuta nell’ultimo comma
dell’art. 1, decreto legislativo n. 109 novellato, non sarebbe operativa, in
quanto, il successivo art. 3 precisa che, quanto alle prestazioni sociali
agevolate, erogate a domicilio o in ambiente residenziale, a ciclo diurno o
continuativo, rivolte a persone con handicap permanente grave nonché a soggetti
ultrassessantacinquenni non autosufficienti, le disposizioni del decreto stesso
si applicano nei limiti stabiliti da altro decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri; si aggiunge che tale decreto non è mai stato emanato, e pare che
difficilmente lo sarà, e comunque, fino all’emanazione di esso, non sarebbe
operante il principio di esclusione della possibilità, per gli enti erogatori,
di richiedere il pagamento delle rette ai parenti del ricoverato.
Si tratta peraltro di un’interpretazione
assolutamente infondata: già si è detto che, anche prima dell’intervento
legislativo, tale possibilità era esclusa, sulla base della logica emergente
dalla disciplina degli alimenti nel codice civile, il decreto legislativo n.
109 e successive modifiche non ha fatto altro che dare una sua (corretta)
interpretazione di una normativa precedente, non ha aggiunto nulla di nuovo, e
dunque non vi è certo bisogno di un ulteriore decreto per precisare e
specificare un principio già di per sé del tutto chiaro e senza ambiguità.
Ma il decreto legislativo n. 109 presenta
un’ulteriore valenza: qualche recente pronuncia della Cassazione (ad esempio
Cass. 16 marzo 2001, n. 3822) ha riportato inopinatamente in vita, dopo un
lungo letargo, la legge 3 dicembre 1931, n. 1580, “Nuove norme per la rivalsa
delle spese di spedalità e manicomiali”, che sembrava implicitamente abrogata a
seguito della legge n. 180/1978 (chiusura dei manicomi) e la legge n. 833/1978
(riforma della sanità), atteggiamento assai discutibile, proprio perché la
legge che prevedeva una rivalsa nei confronti dei parenti dell’assistito si
ispirava ad una logica ospedaliera e manicomiale, totalmente differente
rispetto alle attuali caratteristiche del sistema sanitario nazionale. In ogni
caso, seppur non si considerasse abrogata già anteriormente, è da ritenere che
la legge n. 1580 sarebbe stata abrogata dal decreto legislativo n. 109, secondo
il principio generale per cui la legge posteriore abroga quella anteriore;
infatti la rivalsa non potrebbe certo riguardare le prestazioni strettamente
cliniche e sanitarie, ma solo quelle così dette “alberghiere” di permanenza e
soggiorno nella struttura, ma queste si inquadrerebbero sostanzialmente in
quelle assistenziali di cui alla legge n. 328/2000 (e rientrerebbero nella
previsione del decreto legislativo n. 109/1998).
Nonostante tutto ciò, gli enti continuano
a chiedere il pagamento delle rette ai parenti dei ricoverati: si può davvero
dire per essi – e mai detto popolare sarebbe più consono a tale comportamento –
che «Errare humanum est, perseverare
diabolicum».
(*) Magistrato della Corte di
appello di Genova e Docente di diritto civile all’Università di Genova.
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