Prospettive assistenziali, n. 138, aprile-giugno 2002
Handicap e malattia: i nuovi orientamenti dell’oms
Maria grazia breda - Francesco santanera
Nel nostro volume “Handicap: oltre la legge quadro -
Riflessioni e proposte”, Utet Libreria, Torino, 1995, tenuto conto che «il primo caposaldo per una valida e
incisiva azione a favore degli handicappati è costituito dal perseguimento
dell’obiettivo della massima autonomia possibile per tutti i soggetti di
qualsiasi grado siano le menomazioni», avevamo precisato che la definizione
delle persone con handicap «non deve
contenere affermazioni in negativo: queste esprimono il punto di vista di una
società che vuole emarginare invece che integrare».
La
classificazione dell’Oms
Ciò premesso, prendevamo in esame il
manuale pubblicato dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) con il
titolo “Classificazione delle menomazioni, delle disabilità e degli handicaps”,
in cui comparivano le seguenti definizioni:
– è menomazione
qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione
psicologica, fisiologica o anatomica;
– si intende per disabilità qualsiasi limitazione o perdita (conseguente a
menomazione) della capacità di compiere un’attività nel suo modo o
nell’ampiezza considerati normali per un essere umano;
– l’handicap
è la condizione di svantaggio conseguente a una menomazione o a una disabilità
che in un certo soggetto limita o impedisce l’adempimento del ruolo normale per
tale soggetto in relazione all’età, sesso e fattori socio-culturali. (…)
L’handicap è caratterizzato da una dissonanza fra efficienza e condizioni
dell’individuo e le attese di quel particolare gruppo in cui egli è parte.
Questa situazione di svantaggio è il risultato della sua incapacità di
uniformarsi a modelli propri della collettività in cui vive. L’handicap è
pertanto un fenomeno sociale; esso rappresenta le conseguenze sociali e
ambientali che si riflettono sull’individuo a causa della presenza di
menomazioni e disabilità.
La nostra
critica
Nel nostro libro avevamo rilevato che la
classificazione dell’Oms non era convincente per i seguenti motivi:
«1)
fra le menomazioni sono inserite “le perdite o anormalità delle funzioni
psicologiche”, che richiedono prestazioni sostanzialmente diverse rispetto a
quelle di natura fisica, intellettiva o sensoriale;
«2)
non distingue fra “handicappati intellettivi” e “malati psichiatrici”;
«3)
il termine “disabilità”, esprime un concetto negativo sulle capacità lavorative
del soggetto. Sottolineiamo che “disabile” è sinonimo di “non abile”:
significa, cioè, incapace a svolgere attività lavorative o di altro genere;
«4)
non fa distinzione fra menomazione che è una situazione immodificabile (ad
esempio la mancanza di arti) e alterazione (condizioni in genere transitorie,
che presentano variazioni, a volte di notevole intensità);
«5) per
quanto riguarda, invece, l’affermazione che l’handicap è un fenomeno sociale
concordiamo sull’importanza degli atteggiamenti e delle reazioni delle persone
non handicappate nel modellare il concetto di sé e nel definire le possibilità
degli individui handicappati. La comunità può fare moltissimo per favorire lo
sviluppo delle potenzialità degli handicappati, può attenuare ma non può certo
eliminare le difficoltà che incontrano le persone colpite da cecità, sordità o
da limitazioni nelle propria autonomia e nelle scelte professionali».
Le
definizioni della legge n. 104/1992
La nostra critica riguardava anche la
seguente definizione contenuta nella legge quadro n. 104/1992 (art. 3, n. 1): «È persona handicappata colui che presenta
una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che
è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di
emarginazione».
Infatti, avevamo rilevato che «questa definizione parte da una visione
statica dell’handicap: non si può parlare di una minorazione e dei suoi effetti
sull’individuo se non li si mette in relazione con il comportamento del
soggetto interessato e con i servizi che la società gli offre per superare il
proprio deficit. In molti casi diagnosi tempestive e cure precoci potrebbero
ridurre se non eliminare del tutto la gravità dell’handicap; per altre
situazioni una buona scuola, degli insegnanti e dei compagni sensibili, si sono
rilevati determinanti per ridurre, almeno parzialmente, sia i problemi di
apprendimento che di socializzazione. Se poi la scuola avrà saputo dare una
preparazione professionale che tenga conto delle difficoltà, ma che, nello
stesso tempo, potenzi le capacità del soggetto in questione, sarà possibile
anche l’inserimento lavorativo che renderà quindi più difficili i processi di
emarginazione».
Neppure convincente era ed è la norma
della legge n. 104/1992 (art. 3, n. 3), in cui è stabilito che: «qualora la minorazione, singola o plurima,
abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere
necessario un intervento assistenziale, permanente, continuativo e globale
nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume
connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano
priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici».
Al riguardo, ponevamo il seguente
interrogativo: «Che cosa si vuol
intendere con “ridotta autonomia personale”?» e rilevavamo che «vi sono handicappati che sono stati
ritenuti “gravi” e quindi “non autonomi”: spesso per loro è stato predisposto
un ricovero in istituto. In molti casi si è poi dimostrato, più tardi, che
adeguando alle loro necessità certe strutture (ad esempio rendendo la scuola
idonea a provvedere al loro apprendimento e alla loro socializzazione) essi
hanno potuto recuperare in parte e qualche volta completamente la loro
autonomia. In altri casi, invece, la mancanza di un semplice elevatore ha
impedito ad un handicappato non grave in carrozzella di poter uscire di casa:
la vita di questa persona trascorre in una vera e propria prigione. Con un
ascensore avrebbe potuto uscire, vedere gli altri e anche lavorare; chiuso in
casa egli dovrà dipendere dalla famiglia o da un sussidio pubblico o dalla
benevolenza di qualche privato. Inoltre, molto spesso, l’urgenza delle
prestazioni è determinata non solo e non tanto dalla gravità della menomazione,
quanto da altre esigenze, ad esempio il ricovero ospedaliero del coniuge»
(1).
In conclusione, precisavamo che «non è valida una definizione di gravità che
non tenga conto anche di tutti quei fattori esterni che possono o rendere meno
urgente o più pressante l’intervento dei servizi».
Inoltre, nel volume citato, osservavamo che «la legge quadro non distingue l’handicap
intellettivo (cioè l’insufficienza mentale) dall’handicap psichico (cioè la
malattia mentale). Proprio perché assimilati ai malati di mente - dall’entrata
in vigore della legge n. 482/1968 fino alla sentenza della Corte costituzionale
n. 50 del 1990 - gli handicappati intellettivi sono stati esclusi dal
collocamento obbligatorio al lavoro».
La nostra
definizione
Fatte le premesse sopra riportate e tenuto conto che «la terminologia indica e implica
necessariamente una valutazione umana, etica e sociale che si ha e si dà ai
soggetti interessati», avevamo optato per il termine “Handicap” precisando
che «è una parola usata nel campo ippico
per indicare le maggiori difficoltà che i cavalli più veloci devono affrontare
durante il percorso in modo da rendere più equilibrata la competizione», aggiungendo
le seguenti considerazioni: «Handicappato,
per analogia, è quindi l’individuo che nel percorso della sua vita deve
affrontare più difficoltà di un altro per arrivare alla meta: raggiungere
l’obiettivo dell’autonomia, un lavoro, un buon grado di soddisfazione personale
e di considerazione sociale. È una definizione, quindi, in positivo che, mette
in primo piano il ruolo attivo che l’handicappato può svolgere per raggiungere
una piena integrazione nella società: non più un assistito, non più un soggetto
da nascondere o proteggere, ma una persona libera di scegliere la propria vita,
indipendentemente da ogni costrizione imposta dalla volontà di un “altro”».
La nuova
classificazione dell’Oms
Come risulta dal volume “Classificazione
internazionale del funzionamento e della disabilità” edito nel 2000 da
Erickson, l’Oms – Organizzazione Mondiale della Sanità – ha raggruppato sotto
la sigla Icidh-2 «in modo sistematico gli
stati funzionali associati alle condizioni di salute (per esempio,
malattie,disturbi, lesioni, traumi o altri stati correlati alla salute» con
lo scopo di «fornire un linguaggio
standard e unificato che serva da
modello di riferimento per la descrizione del funzionamento e delle disabilità
dell’uomo, in quanto importanti componenti della salute».
I nuovi elementi correlati alla salute
(le funzioni e la struttura del corpo, le attività e la partecipazione)
sostituiscono quelli usati precedentemente: menomazione, disabilità e handicap.
Molto importante è la precisazione,
contenuta nella nuova classificazione che «malattia
e disabilità sono costrutti distinti che possono essere considerati
indipendentemente. Quello di malattia (per esempio, il morbillo, che possiede
un agente eziologico e una patogenesi
specifica) è un costrutto; quello di disabilità (per esempio, rush cutaneo,
limitazione nelle attività quotidiane o il fatto che alla persona è vietato
l’accesso a scuola per impedire il contagio) è un altro. I due costrutti – precisa l’Oms – possono non essere legati da una relazione
biunivoca predicibile in quanto ciascuno ha caratteristiche indipendenti».
Inoltre, nello stesso volume viene affermato che «il concetto di menomazione è più ampio e
comprensivo rispetto a quello di disturbo o malattia; per esempio, la perdita
di una gamba è una menomazione della struttura corporea, non un disturbo o una
malattia».
Il sistema
informativo dell’Istat sull’handicap
Nel sistema informativo predisposto
dall’Istat sono stati inseriti fra i soggetti con handicap gli anziani colpiti
da malattie invalidanti, definiti dallo stesso Istat “non autosufficienti”.
Ancora una volta, si omette la causa
della condizione dei soggetti coinvolti (in questo caso la malattia e si fa
riferimento ad uno degli effetti e cioè alla “non autosufficienza”.
Al riguardo il Csa, in data 19 novembre
2001, ha segnalato all’On. Roberto Maroni, Ministro del lavoro e per le
politiche sociali, e al Prof. Luigi Biggeri, Presidente dell’Istat, che, in
primo luogo, se la “non autosufficienza” fosse ritenuta una delle situazioni
che caratterizzano l’handicap, «allora
tutti i neonati ed i bambini in tenera età dovrebbero essere considerati
disabili».
Inoltre, il Csa ha segnalato che lo stato
di salute degli anziani ricoverati presso l’Irv, Istituto di riposo per la
vecchiaia, e il Carlo Alberto
(strutture entrambe gestite direttamente dal Comune di Torino) è il
seguente: «Il 98% degli anziani
ricoverati presso l’Irv e il Carlo Alberto non è autosufficiente per ragioni
mediche. Circa il 70% dei pazienti è affetto da tre patologie importanti sul
piano clinico-terapeutico, gli altri hanno più di quattro patologie.
Attualmente sono ricoverati all’Irv 210 pazienti e al Carlo Alberto 125
pazienti; circa il 30% è al momento in trattamento per patologie acute (ictus
cerebrale, broncopolmoniti, scompenso
cardiaco, neoplasie in fase avanzata, anemia, arteriopatia obliterante degli
arti inferiori, insufficienza renale cronica in trattamento dialico,
insufficienza respiratoria in ossigenoterapia
a lungo termine) che richiedono interventi terapeutici multipli e
complessi (vengono praticati in sede emotrasfusioni, antibioticoterapia
endovena, gestione di sondini nasogastrici e di cateteri venosi centrali). Viene inoltre praticata
chemioterapia; i farmaci sono preparati alle Molinette. La tipologia degli
ospiti, il loro precario equilibrio psico-fisico, il facile sovrapporsi di
complicanze e/o il riacutizzarsi di pregressi eventi morbosi richiedono infatti
interventi spesso immediati».
Emerge, dunque, secondo il Csa, che se si
inseriscono gli anziani cronici non autosufficienti fra i soggetti con
handicap, la conseguenza è che le disposizioni di riferimento non sono più
quelle che assicurano il diritto alle
cure sanitarie, bensì le leggi quadro (n.104/1992 e 328/2000) sull’handicap (2)
e sull’assistenza.
Alla lettera inviata dal Csa al Ministro
Maroni ha risposto, in data 19 febbraio 2002 la dott.ssa Paola Chiari,
direttrice generale per le tematiche familiari e sociali e la tutela dei
diritti dei minori, servizio disabili, con la seguente nota: «Si prende atto della segnalazione in merito
alla distinzione tra anziani “non autosufficienti” e disabili, che si ritiene
condivisibile. Si informa che la questione segnalata è stata rappresentata ai
referenti Istat del progetto informativo per quanto di competenza».
(1) Si vedano sul n. 137,
2002 di Prospettive assistenziali l’articolo
di G. Pellis “L’assistenza personale
autogestita: una realtà innovativa per le persone con handicap fisico molto
grave” e la nota “Approvata una
valida delibera per la vita
indipendente di soggetti con gravi handicap”.
(2) La definizione contenuta
nel primo comma dell’art. 3 della legge 104/1992 è la seguente: «È persona handicappata colui che presenta
una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che
è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione
lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di
emarginazione».
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