Prospettive assistenziali, n. 138, aprile-giugno 2002

 

 

la giustizia minorile: rinnovamento o restaurazione?

pier giorgio Gosso *

 

1. Erano stati necessari trent’anni di dibattiti per rendersi conto della necessità di introdurre anche in Italia un corpo qualificato di giudici specializzati nei problemi dei minori, sulla falsariga di quanto era avvenuto – tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – dapprima negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni e poi andava via via verificandosi nei principali Stati europei, in aderenza a una irreversibile maturazione culturale intervenuta in seno alle società più evolute e sulla scorta di approfonditi studi scientifici.

Si era infatti dovuto prendere atto che non soltanto la delinquenza minorile, ma anche le principali tematiche familiari correlate al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza esigevano da parte della collettività un’attenzione e un trattamento del tutto particolari e per essere efficacemente fronteggiate avevano bisogno, più che degli strumenti giuridici tradizionali, di adeguate misure di intervento che da un lato promuovessero il recupero della devianza e dall’altro si affiancassero alle pubbliche istituzioni nel comune obiettivo di assicurare ai soggetti in formazione un corretto sviluppo della loro personalità, attraverso l’elaborazione di precisi percorsi educativi e di socializzazione.

I Tribunali per i minorenni istituiti dal regio decreto n.1404 del 1934 e dalla legge n. 835 del 1935 vennero collocati in ciascuna delle ventinove sedi di Corte d’appello del Regno (facenti capo, come è noto, alle singole città capoluogo di regione, con estensione a Catania, Messina e Caltanissetta per la Sicilia, a Sassari per la Sardegna, a Taranto e Lecce per la Puglia, a Catanzaro per la Calabria, a Salerno per la Campania, a Brescia per la Lombardia, a Trieste per il Friuli-Venezia Giulia, e a Bolzano per il Trentino-Alto Adige), e tale assetto è rimasto praticamente immutato anche dopo le riforme introdotte dalla legge n.1441 del 1956 e dal decreto presidenziale n. 488 del 1988, ivi compresa la loro composizione in fase decisionale (costituita da due magistrati togati e da due componenti privati, “benemeriti dell’assistenza sociale”, scelti tra i cultori di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia).

Presso ogni Tribunale per i minorenni è istituito un ufficio del Pubblico Ministero, cui spetta il compito di promuovere l’azione penale per i reati commessi dai minori degli anni diciotto, nonché – a seconda dei casi – di promuovere e controllare le altre iniziative del magistrato minorile nel settore civile e amministrativo a lui assegnato per legge. Contro i provvedimenti di tale Tribunale, ove impugnabili, è previsto il ricorso alla locale Corte d’appello, il cui collegio è formato da tre giudici togati e da due esperti aventi gli stessi requisiti richiesti ai componenti privati del tribunale.

Si era trattato, in sostanza, dell’inserzione – su di una realtà storicamente stratificata – di un organismo specializzato autonomo di nuovo conio, dotato, in quanto tale, di piante organiche distinte rispetto a quelle dei tribunali ordinari sia per i magistrati che per il personale e avente altresì una propria autonomia patrimoniale, oltre a una competenza territoriale assai più ampia di quella propria di ciascun tribunale ordinario (in Italia vi sono 163 tribunali ordinari, 93 dei quali ubicati nei capoluoghi di provincia, oltre a una moltitudine di cosiddette “sezioni distaccate”, in parte coincidenti con le preture ormai abolite), e che con l’andar del tempo e l’emergere di nuove esigenze sociali avrebbe visto progressivamente estendere la propria sfera d’azione nella materia civile (comprensivamente designata con il termine tecnico di “volontaria giurisdizione”) sia a seguito della legge n. 431 del 1967 (poi sostituita dalla legge n. 184 del 1983 e, ora, dalla legge n. 149 del 2001) in tema di affidamento e adozione dei minori in stato di abbandono, oltre all’intera materia dell’adozione internazionale attribuitale dalla citata legge n. 184 del 1983 (poi sostituita dalla legge n. 476 del 1998, che ha ratificato la specifica Convenzione Internazionale dell’Aja del 29 maggio 1993) e sia a seguito della legge n. 151 del 1975 (riforma del diritto di famiglia), che ampliava tutta una gamma di ulteriori competenze nel campo dei provvedimenti concernenti, tra l’altro, l’esercizio della potestà genitoriale, il riconoscimento dei figli naturali e la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale.

2. Nel frattempo, al di là delle singole competenze codicistiche e legislative, a conferire straordinaria pregnanza al complessivo campo di intervento e all’impegno richiesto alla giustizia minorile era stato, in primis, anche con il successivo corredo interpretativo di numerose pronunce della Corte costituzionale, il solenne riconoscimento del diritto del minore ad essere educato in un valido contesto familiare e sociale contenuto in tutta una serie di precetti enunciati dalla Costituzione repubblicana dell’anno 1947, che inseriva tra i doveri fondamentali dello Stato quello di realizzare «il pieno sviluppo della persona umana» (articolo 3) e di garantire «i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (articolo 2), affermando il diritto-dovere dei genitori di «mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio», con la previsione di un intervento diretto della legge e dei pubblici poteri per assolvere i compiti dei genitori nel caso di loro incapacità (articolo 30), nonché l’obbligo delle istituzioni di agevolare «la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi» e di proteggere con appositi strumenti «la maternità, l’infanzia e la gioventù» (articolo 31).

La stessa legge n. 151 del 1975 di riforma del diritto di famiglia aveva, poi, ridisegnato sotto questa stessa ottica l’intero impianto della struttura familiare e del rapporto di filiazione arricchendoli di nuovi valori, ad esempio stabilendo, attraverso la modifica dell’articolo 147 del codice civile, che «il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli». Né meno importante era stato l’impulso racchiuso in un’altra serie di riforme legislative in tema di famiglia e di infanzia realizzate a partire dalla seconda metà degli anni ’70 tenendo conto delle trasformazioni intervenute nella realtà sociale, tra cui meritano soprattutto di essere ricordate l’istituzione e l’organizzazione di un servizio di assistenza alle famiglie e alla maternità articolato in consultori gestiti dai Comuni e avente ad oggetto l’assistenza psicologica e sociale per i problemi della coppia e della famiglia, anche in ordine alle problematiche minorili (legge n. 405 del 1975 e legge n. 194 del 1978), e la soppressione dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia di risalenza fascista, con l’attribuzione alle province di tutte le competenze amministrative eserciate dai comitati provinciali Onmi e ai Comuni delle funzioni in ordine agli asili-nido e ai consultori familiari (legge n. 698 del 1975).

 Di eccezionale rilevanza era l’attribuzione agli enti locali, e in particolare ai Comuni, di tutte le funzioni amministrative in materia di servizi sociali, assistenza e beneficenza, con specifico riferimento agli «interventi in favore di minorenni soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito della competenza amministrativa e civile», disposto dal decreto presidenziale n. 616 del 1977, che così poneva in pratica il dettato dell’articolo 5 della Costituzione («La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento») mettendo gli operatori dei servizi sociali degli enti locali a diretta disposizione dei Tribunali per i minorenni, che in precedenza erano costretti a fare esclusivo assegnamento sugli uffici centralizzati del servizio sociale del dipartimento della giustizia minorile: non a caso la Corte costituzionale (sentenza 28 luglio 1987) ribadiva ufficialmente che con il decentramento territoriale dei servizi veniva ad essere meglio garantita la tutela dei minori irregolari.

Non si insisterà mai abbastanza nel mettere l’accento sulla portata innovatrice di questo panorama legislativo, poiché esso confermava, potenziandolo, un sistema incentrato sul diritto del minore a godere di validi affetti familiari come strumento indispensabile per la sua crescita nell’alveo di una normale vita di relazione. Si era compreso che un simile diritto, facendo capo a un soggetto privo di protezione, richiedeva una difesa di intensità adeguata e assumeva connotati di rilevanza pubblica, essendo interesse primario dell’intera collettività che ogni suo membro venisse posto in grado di inserirsi utilmente nel tessuto sociale, anche per mezzo di interventi giudiziari mirati a tale scopo.

3. Ancor più determinante, nell’arco degli ultimi vent’anni, è stato, sul versante della protezione giuridica dell’infanzia, il susseguirsi degli impegni internazionali assunti dal nostro Stato, a partire dalle “Regole minimali per l’amministrazione della giustizia minorile” dettate  il 29 novembre 1985 dalla risoluzione n. 40/33 dell’Assemblea generale dell’Onu (le cosiddette “Regole di Pechino”), che tra l’altro stabiliscono all’art. 17 lett. d) che «la tutela del minore deve essere il criterio determinante nella valutazione del suo caso», e dalla “Dichiarazione sui principi sociali e legali, relativa alla protezione e al benessere dell’infanzia con particolare riferimento all’affidamento e all’adozione nazionale e internazionale” emanata il 3 dicembre 1986 dalla stessa Assemblea generale dell’Onu con la risoluzione n. 41/1985, per arrivare fino alla fondamentale “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia” approvata da tale Assemblea il 20 novembre 1989, che all’articolo 27 pone a carico degli Stati l’obbligo di adottare le misure più opportune per assistere i genitori del bambino o chi ne è responsabile «nel realizzare le condizioni di vita necessarie al suo perfetto sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale», all’articolo 29 esige che l’educazione del bambino tenda allo «sviluppo dei suoi talenti, delle sue abilità mentali e fisiche, al massimo delle sue potenzialità», nonché alla sua «preparazione ad una vita responsabile in una società libera», e agli articoli 39 e 40 eleva a dovere degli Stati l’assicurare «il recupero fisico e psicologico e il reinserimento sociale del bambino vittima di qualsiasi forma di negligenza, sfruttamento o abuso, tortura o qualsiasi forma di trattamento o punizione crudele, disumana o degradante, in un ambiente che ne favorisca il rispetto di sé e la dignità» ed il  «promuovere la reintegrazione e l’assunzione di un ruolo costruttivo della società» di ogni bambino accusato o riconosciuto colpevole di aver violato la legge
penale.

4.  Il ruolo che il magistrato minorile, in aderenza a questa evoluzione socio-culturale, è così venuto a dover svolgere si è dunque attestato su livelli profondamente diversi da quelli propri della giustizia ordinaria, essendo suo compito prevalente quello di individuare le situazioni che mettono a repentaglio l’educazione del minore, di adottare caso per caso i provvedimenti che si presentino come i più idonei a realizzare una sua accettabile collocazione familiare e sociale e di verificarne gli effetti: il tutto in costante rapporto con i presidi territoriali e con il supporto degli stessi (si pensi, a mero titolo di esempio, alle informazioni richieste ai servizi socio-sanitari, alle prescrizioni imposte ai titolari del rapporto genitoriale nell’interesse del figlio e dell’unità familiare, all’affidamento familiare temporaneo del minore o al suo inserimento in case-famiglia o in comunità protette, fino alle drastiche misure dell’allontanamento dal nucleo familiare del genitore o convivente maltrattante o abusante o della sua decadenza dalla potestà genitoriale).

Ed è di grande rilievo il fatto che con la recente riforma introdotta il 28 marzo 2001 (legge n. 149) al complesso di norme che disciplinano l’adozione e l’affidamento dei minori in situazione di abbandono sia stato dato il seguente titolo: “Diritto del minore ad una famiglia”, così mettendo a fuoco qual è l’obiettivo cui devono mirare gli istituti che sono stati configurati dal legislatore in questa delicatissima materia.

5. L’organizzazione giudiziaria preesistente all’insediamento dei Tribunali per i minorenni, per via delle innumerevoli tipologie di rapporti presi in considerazione dal diritto civile in vigore da tempo immemorabile, ha avuto come conseguenza inevitabile che non poche materie continuino a tutt’oggi a restare affidate alla tradizionale competenza dei giudici ordinari (Tribunale ordinario, Giudice tutelare, Procuratore generale della Repubblica, ecc.) anche nei punti in cui le stesse vengono a toccare il diritto del minore all’allevamento educativo: è il caso, ad esempio, degli affidamenti dei figli a seguito di separazione o di divorzio o di dichiarazione di nullità del matrimonio, così come quello dei controlli sull’amministrazione dei patrimoni intestati in tutto o in parte a minori di età o dell’autorizzazione al minore a contrarre matrimonio. Viene così di fatto ad essere impedita quella gestione unitaria dei rapporti familiari cui dovrebbe essere sottoposto ogni istituto che riguardi la tutela del minore, con l’ulteriore conseguenza negativa di favorire l’insorgere di contrasti decisionali tra diverse autorità giudiziarie.

Per questa ragione, da almeno vent’anni a questa parte l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia va invocando un intervento normativo che ponga fine a questa dispersione anacronistica e irrazionale di competenze, così come va da tempo auspicando una migliore distribuzione geografica della giustizia minorile, per assicurare una maggior efficacia agli interventi di sostegno e di recupero dei rapporti familiari in crisi e permettere più diretti contatti con le famiglie e con i servizi del territorio: istanze, queste, che, pur essendo condivise dagli studiosi più avvertiti e avendo prodotto una lunga serie di proposte di modifiche legislative, non hanno trovato ascolto in Parlamento (è stata, invece, parzialmente recepita, con la nuova legge sull’adozione e l’affidamento familiare, l’ulteriore richiesta di rafforzare le garanzie processuali dei soggetti coinvolti nelle procedure di adottabilità e in quelle di limitazione della potestà genitoriale, attraverso la dilatazione del contraddittorio tra le parti in causa e la loro assistenza ad opera di difensori).

6.  Ebbene, una sommaria lettura del disegno di legge governativo recante “Misure urgenti e delega al Governo in materia di diritto di famiglia e di minori” presentato il 1° marzo 2002 al Consiglio dei Ministri e attualmente all’esame della Commissione giustizia della Camera dei Deputati potrebbe, a prima vista, indurre a ritenere che il progetto, per il semplice fatto di concentrare in capo ad un solo organo giudiziario la cognizione di tutte le procedure relative alla famiglia e ai minori, si muova proprio nella direzione giusta, dando finalmente soddisfazione alle istanze di cui si è appena riferito. Ma, purtroppo, le cose non stanno affatto in questi termini.

Tradotto in soldoni, il marchingegno su cui esso si regge si esaurisce nella pura e semplice abolizione, illico et immediate, dei Tribunali per i minorenni per quanto attiene a tutte le competenze “in materia civile” loro attribuite dal decreto istitutivo del 1934 e dalle successive riforme: competenze che, insieme a tutte le altre “controversie” (sic) in materia di rapporti di famiglia e di minori già affidate ai giudici ordinari ed a quelle «aventi per oggetto la formazione e rettificazione degli atti di stato civile, i procedimenti di interdizione e di inabilitazione, i procedimenti per la dichiarazione di assenza e di morte presunta, gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori», vengono a far parte di un unico coacervo assegnato, sia in primo che in secondo grado, a “Sezioni specializzate per la famiglia e per i minori” da istituire presso ciascuna sede di Tribunale e di Corte d’appello della Repubblica, le quali giudicheranno, in composizione collegiale, nelle persone di tre magistrati togati, con totale esclusione dei giudici onorari esperti in scienze umane e sociali istituiti dall’ordinamento giudiziario del 1934 (articoli 1, 2 e 3).

È pure stabilito (articoli 5 e 6) che nei procedimenti familiari e minorili le funzioni del Pubblico Ministero saranno svolte da magistrati appartenenti ad uffici altrettanto specializzati, istituiti presso ogni Procura della Repubblica (nulla è disposto sui Pubblici Ministeri per il grado d’appello).

Nello svolgimento della loro attività le Sezioni specializzate per la famiglia e per i minori dovrebbero, poi, far riferimento agli uffici del servizio sociale del dipartimento della giustizia minorile o, in mancanza, a quelli dipendenti dai Comuni o con questi convenzionati (articolo 8): ciò in clamoroso contrasto con i princìpi enunciati dall’articolo 5 della Costituzione in tema di decentramento amministrativo dei servizi sociali del territorio (cfr. supra, n. 2) e in netta contraddizione con i proclami sulla c.d. “devolution” di cui si fregiano gli attuali governanti, i quali dovrebbero semmai, per tradurre in pratica i doveri di solidarietà sociale delle istituzioni, darsi carico di porre mano a un serio sistema di revisione legislativa che attribuisca forza cogente alle norme che prescrivono la prestazione di interventi di sostegno economico, educativo e psicologico a favore dei nuclei familiari a rischio, delle famiglie affidatarie e di quelle che adottano minori grandicelli o portatori di handicap: interventi, questi, che – invece – sia la legge quadro n. 328 del 2000 sulla riforma dell’assistenza (agli articoli 4, 6,16,18,19 e 22) che la legge n. 149 del 2001 sul “diritto del minore a una famiglia” (agli articoli 1, 2, 5, 6 e 80) affidano alla mera facoltà discrezionale degli enti pubblici (Stato, Regioni ed Enti locali), essendo la loro erogazione condizionata  rispettivamente dalle “risorse disponibili” e dalle «disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci», e così impedendosi che gli stessi si trasformino in diritti esigibili da parte dei soggetti interessati.

In che modo, poi, un simile accentramento si possa conciliare con quella strettissima collaborazione tra giudici e servizi che i complessi meccanismi delle adozioni e degli affidamenti necessariamente e quotidianamente  richiedono (come ben sa chi ha un minimo di esperienza in questo settore, e come può – del resto – rendersi conto anche un semplice profano andandosi a leggere la legge n. 149 del 2001) resta un  mistero, avvolto nel buio più profondo.

7. Le linee portanti del disegno di riforma sono, dunque, le seguenti: 1) azzeramento della composizione mista nella cognizione degli affari giudiziari relativi ai minori e alla famiglia (per la materia penale, l’unica che verrebbe lasciata ai Tribunali per i minorenni, un parallelo disegno di legge prevede l’inserimento di un solo giudice onorario esperto per collegio); 2) abolizione della figura del giudice minorile specializzato per quanto attiene al predetto settore civile, con dirottamento delle sue funzioni ai giudici ordinari (nulla si dispone per la materia amministrativa, e cioè quella relativa alle misure di rieducazione dei minori, che peraltro – se pur poco applicata nella prassi – non risulta tuttora abolita); 3) separazione tra competenze civili minorili (trasferite in blocco al Tribunale ordinario) e competenze penali minorili (esse sole lasciate alla cognizione del Tribunale per i minorenni, che vengono così ad essere drasticamente ridimensionati).

Sia consentito, a questo punto, di svolgere alcune brevi osservazioni per mettere in evidenza le conseguenze nefaste che deriverebbero da una simile riforma:

a) con un colpo di spugna si farebbe tabula rasa, rinnegandolo, di un dato di esperienza che è ormai patrimonio comune dell’intero mondo occidentale, essendo scontato che per poter stabilire quali provvedimenti assumere «nel miglior interesse del bambino» (articolo 6 della Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 sull’esercizio dei diritti dell’infanzia  e articoli 10 comma 3° e 11 comma 1° della legge n. 184 del 1983, così come modificata dalla legge n. 149 del 2001) il giudice deve avere al suo fianco in maniera continuativa, sia nella fase accertativa che in quella dialettica e decisionale, delle figure professionali dotate di conoscenze specialistiche che esulano dalla sua formazione, dovendo essere presa in esame la personalità di soggetti in evoluzione per rapportarla al contesto ambientale in cui si colloca e per indirizzarla a precisi percorsi di recupero educativo: esigenze, queste, che per essere soddisfatte richiedono l’inquadramento della componente togata e della componente privata in un unico organo di tipo istituzionale.

Una giustizia che fosse costretta a fare a meno di un simile rapporto organico sarebbe una giustizia monca, chiusa al mondo sociale: un vero e proprio corpo separato. L’unica strada da percorrere è, semmai, quella di potenziarne il livello e la qualità, mettendo bene a fuoco i criteri  per la selezione e la designazione degli esperti ed  elaborando precisi parametri per vagliarne le qualifiche e i requisiti, per verificarne il rendimento e l’efficienza e per rimuovere eventuali situazioni di incompatibilità. Né si dica, come è scritto nella relazione illustrativa del disegno di legge, che le cognizioni specialistiche degli esperti sarebbero pur sempre recuperabili attraverso il conferimento di singoli incarichi di collaborazione tecnica, essendo notorio che le perizie e le consulenze tecniche – certamente utili e talvolta assolutamente indispensabili, soprattutto nel campo della medicina e della psichiatria – consistono in consultazioni estemporanee e contingenti, che in quanto tali ben poco hanno a che vedere con la comune elaborazione di una dialettica creativa;

b) del tutto velleitaria è, poi, l’aspettativa che in seno ai molti tribunali disseminati lungo l’intero arco geografico del paese possa crearsi a tavolino e con un semplice colpo di bacchetta magica una specializzazione nel settore familiare e soprattutto minorile degna di questo nome: al contrario, come osserva un profondo conoscitore della disciplina (A. C. Moro), dietro l’etichetta della specializzazione permarrebbero approssimazioni, incomprensioni delle esigenze dei minori e sostanziale incapacità di dialogare con i servizi (Enciclopedia del diritto, Aggiornamento, II, 1998, p. 547). Basti pensare che tra le reiterate richieste delle rappresentanze dei giudici minorili italiani rimaste finora lettera morta figura da anni la pressante sollecitazione rivolta ai titolari dei pubblici poteri decisionali di innalzare il livello di formazione e di aggiornamento professionale dei magistrati addetti a queste materie. È doveroso osservare, poi, che per istituire nei 192 uffici giudiziari interessati (163 Tribunali e 29 Corti d’appello) un corpo di magistrati specializzati sul versante della famiglia e del disagio minorile secondo le dimensioni tracciate dal disegno di legge occorrerebbe – se la matematica non è un’opinione – un numero di almeno 768 magistrati, pari a circa il 10 % dell’intera pianta organica attuale: numero, questo, che non si potrebbe certamente raggiungere con dei semplici trasferimenti interni tra i vari uffici giudiziari, ma che richiederebbe un massiccio piano di reclutamento (e di formazione) di nuovi magistrati.

Inoltre, poiché la competenza dei giudici che operano negli oltre 100 Tribunali di piccole e medie dimensioni disseminati per il paese è di tipo “promiscuo” (in quanto a causa del loro numero estremamente ridotto sono loro affidati tutti i tipi di procedure, senza alcuna eccezione), è pertanto da escludere che vi si possa introdurre un numero sufficiente di magistrati da specializzare nel diritto minorile e familiare: e infatti lo stesso disegno di legge (articoli 1 e 5) prevede espressamente che in tali Tribunali i predetti magistrati siano destinati anche ad «altri affari civili» e ad «altra attività giudiziaria», con tanti saluti alla specializzazione che si proclama a parole. È scritto, nella relazione introduttiva, che il disegno di legge, ove entrasse in vigore, porrebbe rimedio all’attuale «deficit di specializzazione» dei giudici minorili, il quale avrebbe “in qualche caso” (ma quale?) determinato addirittura «un pericoloso abbassamento della accuratezza delle decisioni con inevitabili ricadute in ordine alla complessiva credibilità del sistema»: ma, anche a voler ammettere che la giustizia minorile sia per davvero così ammalata, allora appare ben strana la terapia proposta da questi medici improvvisati, i quali, anziché decidere di rimboccarsi le maniche per fornire adeguate cure all’infermo, ne decidono drasticamente la soppressione, trasferendo la sua infermità su altri pazienti ancora più ammalati, perché del tutto a digiuno dei più elementari rudimenti della materia;

c) la strettissima connessione che esiste tra l’area delle carenze familiari e quella del disagio giovanile ha fatto sì che si sia dato vita nel tempo a un complesso di istituti che costituiscono nel loro assieme un sistema organico di protezione giudiziaria che in tanto sono forieri di risultati soddisfacenti in quanto siano gestiti in maniera unitaria ad opera di un unico giudice, superando così la tradizionale separazione tra “affari penali” e “affari civili”. I  fenomeni di disadattamento del minore si verificano solitamente in situazioni ambientali e in contesti familiari pregiudizievoli, e nello svolgimento delle sue funzioni il giudice minorile non si trova quasi mai a dover dirimere delle controversie o ad infliggere delle sanzioni, ma per forza di cose viene ad assumere un ruolo dinamico nel settore sociale, collaborando con i servizi dei vari enti di protezione dell’infanzia e stimolandone gli interventi attraverso un’attività di impulso e di coordinamento che certamente non si esaurisce nel semplice momento decisionale, ma che è invece destinata a continuare nel tempo con tutta una serie di controlli e di verifiche periodiche e di misure contingenti, le quali sono fortemente condizionate dalla sua sensibilità nell’affrontare problematiche di tipo psicologico e sociale: si pensi – a titolo di esempio – ai provvedimenti civili temporanei che possono essere assunti a protezione del minore nel corso del processo penale. Scindere meccanicamente le competenze civili minorili da quelle penali per farle convogliare nell’alveo della giustizia ordinaria significherebbe riportare la giustizia minorile all’indietro di almeno settant’anni, smantellandone le strutture portanti e demolendo valori collaudati sul campo. Si vuole che la giustizia dei minori ritorni a essere quella che era in passato: la giustizia degli adulti.

8. Se qualcuno volesse prendersi la briga di rileggere le varie proposte di riforma della giustizia minorile che sono state elaborate da trent’anni a questa parte, scoprirebbe che il disegno di legge governativo che adesso si commenta non è altro che la ripresentazione, in forma leggermente attenuata, del progetto di legge presentato il 29 novembre 1985 dalla sen. Marinucci, con il quale si caldeggiava sic et simpliciter la soppressione dei Tribunali per i minorenni e l’attribuzione a Sezioni specializzate presso i Tribunali ordinari sia dei procedimenti relativi ai minorenni che di quelli in materia familiare e di stato e capacità delle persone, per superare – si sosteneva – «l’ideologia del giudice minorile quale promotore e difensore dei diritti del minore» e «la separatezza dagli altri magistrati ordinari che comporta l’isolamento culturale e professionale dei giudici minorili». Ma distruggendo non si costruisce nulla.

Quel che piuttosto importa rilevare, se si vuol restare con i piedi per terra, è che la restaurazione della giustizia ordinaria nel settore minorile, ove attuata, rappresenterebbe un ulteriore caso, dopo quelli ben noti delle rogatorie internazionali e del mandato di cattura europeo, in cui l’Italia darebbe prova di volersi isolare una volta di più dal contesto europeo, calpestando lo spirito e la lettera non soltanto di gran parte della propria legislazione interna finora emanata in materia (e che dovrebbe, dunque, essere riscritta da cima a fondo), ma delle tante Convenzioni e raccomandazioni che la Comunità europea ha varato nel corso degli ultimi anni, in stretta coesione con il nostro Stato: il che ha indotto un altro autorevole commentatore (L. Fadiga) ad accusare gli estensori del progetto di “colpevole ignoranza” (Il Sole-24 Ore, Guida al diritto, n. 14, pag. 8). Ci si infilerebbe in un vicolo cieco, che non si sa dove andrebbe a parare.

9.  La relazione illustrativa e l’articolo 16 del disegno di legge ci vengono, infine, a spiegare che la riforma avverrà a costo zero, in quanto la copertura finanziaria degli oneri previsti per la sua attuazione (calcolati, chissà come, in 1.700.000 euro) sarà assicurata dalla riduzione di spesa collegata alla quasi totale abolizione della componente onoraria (= nessun esperto nei procedimenti civili, un solo esperto in quelli penali). A modesto parere di chi scrive si tratta di una vera e propria mistificazione, o quanto meno di una clamorosa svista: nessuna riforma della giustizia è a costo zero, e men che meno lo sarebbe una riforma come questa, che comporterebbe tra l’altro le seguenti voci di costo: 1) adattamento delle strutture giudiziarie esistenti; 2) riassunzione dei procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina; 3) reclutamento e formazione di nuovi magistrati e assunzione di nuovo personale; 4) enorme lievitazione dei costi, determinata dalla necessità – per ovviare alla scomparsa degli esperti – di espletare un numero incalcolabile di perizie specialistiche, da retribuire rispettando le tariffe professionali (importi compresi tra i 245 ed i 491 euro per ciascun incarico). Bisogna, infatti, essere ben consapevoli che, anche se si volesse dare attuazione alla ben più sensata riforma a suo tempo proposta il 24 marzo 1986 dal Ministro Martinazzoli (distribuzione dei Tribunali per i minorenni su base provinciale ed estensione delle loro competenze agli affidamenti dei minori nelle procedure di separazione e di divorzio), il costo che ne deriverebbe per lo Stato sarebbe comunque elevato, se non altro per la necessità di incrementare adeguatamente l’organico dei giudici minorili (attualmente uno per ogni milione di abitanti, a fronte di un giudice ordinario per ogni ventimila abitanti) e del relativo personale amministrativo.

A corredo finale di questo breve commento, sia permesso a chi scrive di svolgere un’ultima riflessione. Nel seguire con occhio sereno e senza particolari prevenzioni il dibattito politico in corso nel Paese, chi ha a cuore un ordinato sviluppo della democrazia e si ostina a credere nell’evoluzione positiva della società non può non essere colpito dalle reiterate affermazioni di sfiducia e di diffidenza (quando, non anche, di aperto attacco) che da tempo taluni vertici delle istituzioni vanno sistematicamente enunciando nei confronti della parte più impegnata della magistratura, quasi che i giudici fossero dei soggetti potenzialmente pericolosi e, come tali, da tenere sotto costante controllo. Se, allora, in coerenza con una simile impostazione, al disegno di legge in discussione (e che reca il significativo titolo di “Misure urgenti in materia di diritto di famiglia e di minori”) non fosse estranea la finalità di rendere meno incisivo il ruolo della giustizia nel settore minorile e, sotto l’etichetta di una sua migliore efficienza, si perseguisse in realtà l’obbiettivo di rendere i suoi interventi meno penetranti sul tessuto sociale, ad ogni persona di buona fede non resterebbe altro che sperare nel male minore, e che cioè le cose restino così come sono, piuttosto che precipitare nel caos. 

 

 

 

 

* Magistrato di Cassazione.

 

 

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