Prospettive assistenziali, n. 138, aprile-giugno 2002

 

 

La vita delle persone con handicap: una testimonianza dagli stati uniti

 

 

Sull’autorevole rivista “Il Mulino” (n. 5/2001) è stato pubblicato l’articolo di Martha Nussbaum “La vita delle persone disabili: chi se ne prende cura?”, in cui, giustamente, si sostiene che «tutti devono poter sviluppare l’intera gamma delle proprie facoltà umane, a qualunque livello ciò sia possibile date le proprie condizioni, godendo della libertà e dell’indipendenza che tali condizioni consentono secondo criteri di giustizia sociale. Ciò non riguarda solo le persone gravate da handicap, ma anche chi, a causa della malattia o dell’età avanzata, necessita continuamente dell’altrui assistenza».

Al riguardo viene segnalata la vicenda di Sesha, figlia della filosofa Eva Kittay, descritta come segue: «È una giovane sui trent’anni. È attraente e affettuosa, ama la musica e i bei vestiti, e risponde con gioia all’affetto e all’ammirazione che gli altri le dimostrano. Si muove ondeggiando al suono della musica e si getta tra le braccia dei genitori, ma non potrà mai camminare, parlare o leggere. A causa di una paralisi cerebrale congenita e di un grave ritardo mentale, sarà infatti destinata a dipendere per sempre dagli altri. ha bisogno di essere lavata, nutrita e vestita, e deve essere condotta a Central Park su una sedia a rotelle. Tuttavia, per poter vivere in modo relativamente autonomo, non ha bisogno soltanto di queste forme elementari di cura: necessita anche di amicizia e di amore, e deve vedere corrisposte le sue capacità di provare affetto e piacere, attraverso le quali manifesta più intensamente il suo modo di porsi in contatto con gli altri. I suoi genitori, entrambi attivi professionisti, non solo dedicano a Sesha molto del loro tempo, ma stipendiano un infermiere che si occupa a tempo pieno. Sono però numerose le occasioni in cui diventa necessario ricorrere a ulteriori forme di aiuto».

Vengono presentate altre situazioni: quella di Arthur «un ragazzo di dieci anni, robusto e di bell’aspetto (...) che a casa è affettuoso, ma diventa terribile se un estraneo prova a toccarlo (...). Ha, inoltre, tic fisici sconcertanti ed emette suoni bizzarri (...); ha sia la sindrome di Asperger, una forma di autismo, sia la sindrome di Taurette».

A sua volta Jamie «è un bambino di tre anni. Un logopedista lavora per svilupparne i muscoli della lingua, e un altro gli insegna il linguaggio americano dei sordomuti. Un fisioterapista gli allunga la muscolatura insufficientemente sviluppata del collo per fare in modo che il capo possa raddrizzarsi e rimanere eretto. Un altro fisioterapista lavora per rafforzare il suo basso livello di tono muscolare, che nei bambini Down rappresenta l’ostacolo principale sia al movimento sia al linguaggio. Altrettanto importante è il fatto che un buon istituto prescolastico locale a Urbana, nell’Illinois, ha accettato di inserirlo in una classe regolare, stimolando la curiosità e dandogli una preziosa sicurezza nella propria capacità di entrare in rapporto con gli altri bambini, i quali reagiscono positivamente al suo carattere dolce e accomodante. E, soprattutto, suo fratello, i genitori e gli amici creano intorno a lui un mondo dove non viene percepito come un “bambino con sindrome di Down”, né, tanto meno, come “un idiota mongoloide”. Lui è Jamie, un bambino con delle particolarità».

Precisa l’Autrice che «una condizione di estrema dipendenza si verifica in molti modi. Ad avere bisogno di cure estensive, talvolta persino costanti, da parte degli altri, non è soltanto un numero molto elevato di bambini e di adulti disabili». Infatti «le disabilità mentali, fisiche e sociali appena descritte possono essere paragonate, almeno in maniera approssimativa, alla condizione di anziani colpiti da malattie invalidanti».

Chi provvede a queste persone negli Stati Uniti? Risponde Martha Nussbaum: «Nella maggior parte dei casi questo lavoro viene svolto dalle donne. Di solito, le cure da dispensare ai bambini gravano sulle donne in misura ancora sproporzionata, poiché, assai più di quanto accada con gli uomini, esse sono di gran lunga più disponibili ad accettare un lavoro part-time e le complicazioni di carriera che ne derivano. Probabilmente, non mancano i padri disponibili a dare il proprio contributo alle cure che si rendono necessarie a un bambino che stia per concludere la scuola; è però altrettanto probabile che questa disponibilità tende a scomparire quando si tratta di accollarsi l’oneroso fardello rappresentato dalle cure a lungo termine necessarie a un bambino o a un genitore gravemente disabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, la maggior parte delle donne che si dedica a questo genere di lavoro non può fare grande assegnamento né sull’aiuto da parte della famiglia allargata né sul sostegno da parte della comunità. La maggior parte del lavoro finalizzato a dispensare le cure necessarie a una persona in condizioni di dipendenza non viene retribuito, né viene riconosciuto in quanto tale sul mercato del lavoro».

Secondo l’Autrice, una società giusta dovrebbe considerare «l’onere che grava sulle persone che provvedono a coloro che vivono in una condizione di dipendenza».

Infatti «queste persone hanno bisogno di molte cose: di vedere riconosciuto il fatto che la loro attività è una forma di lavoro vero e proprio; di assistenza, sia umana sia finanziaria; della possibilità di una carriera gratificante e remunerativa e di partecipare alla vita sociale e politica. Se fosse interpellata al proposito, la maggior parte della gente non si sentirebbe di sostenere che la disgrazia dovuta alla nascita di un bambino gravemente handicappato dovrebbe essere tale da distruggere la speranza, di entrambi i genitori o di uno solo, di poter vivere una vita sociale e personalmente produttiva. Ma le reali condizioni di vita in una società nella quale si dà ancora per scontato che questo lavoro debba essere fatto liberamente, “per puro amore”, costringono le donne ad accollarsi un onere enorme, che grava su tutta la gamma delle attività economiche in cui sono impegnate e che riduce la loro produttività e il loro contributo alla vita civile e sociale».

Per porre basi solide alle questioni delle persone non autosufficienti, non ci si può riferire alla tradizione liberale in quanto è «profondamente impegnata a garantire la realizzazione degli obiettivi dell’indipendenza e della libertà», mentre i soggetti a cui si riferisce l’articolo hanno e avranno sempre bisogno di essere aiutati da terze persone, in quanto incapaci di provvedere autonomamente alle proprie esigenze fondamentali di vita.

Secondo la Kittay «l’indipendenza non dovrebbe mai essere considerata come una condizione necessaria per riconoscere dignità a tutte le persone mentalmente handicappate», nonché, precisiamo noi, a tutti i soggetti, qualunque siano le loro condizioni fisiche e psichiche e le loro difficoltà.

Il padre di Jamie, dopo aver fornito «un dettagliato resoconto medico e genetico della sindrome di Down, con tutte le sue particolari manifestazioni finali», rileva tuttavia che «molto della sua condizione è di natura sociale».

Al riguardo pone alcuni angoscianti interrogativi: «Verrà definito come un “idiota mongoloide”? Come un “bambino ritardato”?». O avrà, invece, la possibilità di incontrare altri bambini restando semplicemente “Jamie”, un bambino un po’ diverso? Tanto più che «i bambini sono comunque tutti diversi tra loro».

Precisa, inoltre, che «una parte importante della giustizia sociale dipende dal modo in cui ci vediamo e ci parliamo l’uno con l’altro».

 

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