Prospettive assistenziali, n. 138, aprile-giugno 2002

 

 

 

monito della corte di strasburgo ai tribunali per i minorenni per una maggiore vigilanza sull’operato dei servizi sociali

 

 

Molto pesante è stata la condanna inflitta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (1), che ha sede a Strasburgo, nei confronti dello Stato ita­liano.

Dall’articolo di Alessia Sonaglioni (2) apparso sulla rivista dell’Associazione dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (3) apprendiamo che “i fatti lamentati davanti alla Corte riguardavano la sospensione della potestà della signora S. sui due figli, l’impossibilità di rivederli dal momento del loro affidamento alla comunità “Abcd”, ordinato dal Tribunale per i minorenni di Firenze il 9 settembre 1997, fino al 29 aprile 1999 e il numero insufficiente di incontri organizzati successivamente. Il Tribunale aveva in particolare rimproverato ai genitori di non essersi accorti, nonostante alcuni segnali di allarme, che il figlio maggiore aveva per lungo tempo subito le molestie di un pedofilo. La ricorrente aveva inoltre contestato davanti alla Corte la scelta della comunità d’accoglienza poiché due dei suoi responsabili e co-fondatori erano stati condannati nel 1985 per maltrattamenti e atti di libidine violenti nei confronti di disabili ospiti della comunità. La signora G., nonna dei bambini, si era lamentata del fatto che le autorità non avevano mai preso in considerazione la possibilità di affidarle i minori” (4).

Lo Stato italiano è stato condannato a versare alla signora S. lire 100 milioni  per danni morali ed a ciascuno dei suoi figli 50 milioni,  nonché a corrispondere al legale della stessa signora S. la somma di 17.685.000 lire per spese e onorari.

 

Alcune significative motivazioni della sentenza

La Corte di Strasburgo, presa in esame la vicenda alla luce dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (5), ha rilevato che “si deve normalmente considerare l’affidamento come una misura temporanea che deve essere sospesa non appena la situazione lo consenta”.

Ciò premesso, la Corte ha osservato che la decisione del Tribunale per i minorenni di Firenze del 9 settembre 1997 di vietare i contatti tra la madre ed il figlio maggiorenne “non era fondata su ragioni sufficientemente solide”, precisando che “se le difficili condizioni familiari, dannose per la vita familiare e per lo sviluppo dei bambini, hanno giustificato l’allontanamento temporaneo di questi (senza sottovalutare l’importanza del sostegno psicologico di cui aveva bisogno la madre), la grave situazione non giustificava di per sé, ad avviso della Corte, la rottura dei contatti con il maggiore dei bambini in considerazione non solo dell’attaccamento ai figli sempre manifestato dalla madre, ma anche e soprattutto della decisione delle autorità di permettere in parallelo la ripresa dei contatti con il bambino più pic­colo”.

Inoltre, aggiunge la Corte, “la decisione di escludere ogni contatto tra il figlio e la madre comporta un elemento di rottura anche nei rapporti fra i due fratelli e non è coerente con lo scopo dichiarato di dare una possibilità di ristabilire i rapporti con la madre”.

La Corte rimarca, altresì, che “sebbene la decisione del 9 settembre 1997 prevedesse l’organizzazione di incontri con il figlio minore, nessun seguito è stato dato a tale decisione fino al 6 marzo 1998, data alla quale il Tribunale per i minorenni di Firenze ha finalmente ordinato di far precedere gli incontri da un programma di preparazione della madre. Niente di tutto ciò ebbe luogo, poiché due giorni prima del primo incontro, fissato per l’8 luglio 1998, il Tribunale per i minorenni decise di sospendere gli incontri già programmati in seguito alla richiesta del Procuratore della Repubblica che aveva aperto un’indagine sul padre del bambino”.

Solo cinque mesi più tardi, il 22 dicembre 1998, il Tribunale per i minorenni di Firenze autorizza la madre ad incontrare i due figli sebbene - sottolinea la Corte - “l’indagine fosse ancora ufficialmente in corso, ciò che sembra in contraddizione con le decisioni prese durante l’estate precedente”.

Tuttavia va precisato che, ancora una volta, sebbene la ripresa degli incontri dovesse aver luogo entro il 15 marzo 1999, secondo quanto stabilito dal Tribunale, il primo incontro avvenne solo il 29 aprile 1999.

Rileva la Corte che “il primo incontro non ha rappresentato l’inizio di contatti regolari e frequenti che avrebbero dovuto aiutare i bambini e la madre a ristabilire la loro relazione. È vero che il maggiore dei figli nella lettera del 6 maggio 1999 indirizzata all’assistente sociale aveva espresso la sua delusione rispetto alla madre. Tuttavia, a parte il fatto che si devono prendere con precauzione le lettere inviate dal bambino alle diverse autorità tenuto conto del contesto particolare nel quale si trovava, un sentimento di delusione è facilmente comprensibile dopo una così lunga separazione successiva ad avvenimenti traumatici per il bambino. Questa circostanza avrebbe dovuto al contrario spingere i servizi sociali ad organizzare degli incontri più frequenti allo scopo di aiutare gli interessati a superare un periodo così difficile. Non è certo con il mantenimento di uno stato di separazione che si contribuisce a ristabilire delle relazioni familiari già sottoposte a dura prova. Si deve ricordare - chiarisce la Corte - che i legami tra i componenti di una famiglia e le possibilità di ricongiungimento sono per forza di cose indeboliti se si interpongono ostacoli che impediscono agli interessati di avere incontri facili e regolari”.

Dopo aver esaminato attentamente la documentazione visiva relativa al primo incontro, la Corte puntualizza che “lo svolgimento ed il risultato dello stesso si presentano sotto una luce molto meno negativa rispetto all’opinione espressa in merito dai servizi sociali. Ciò nonostante, quest’ultimi hanno avuto ampia libertà di fissare il secondo incontro dopo ben quattro mesi. Del resto il materiale sonoro riguardante il secondo incontro conferma che i servizi sociali hanno beneficiato di un ampio margine di manovra per decidere se e quando gli incontri successivi avrebbero avuto luogo” e che “in questo ambito si deve tenere conto del rischio elevato che un’in­terruzione prolungata dei contatti tra genitori e figli e che degli incontri troppo distanti nel tempo possono compromettere ogni seria possibilità di
aiutare gli interessati a superare le difficoltà emerse nella vita familiare e di riunirli (rischio ancora più grande nel caso del figlio più piccolo in considerazione della separazione precoce dalla madre)”.

Pertanto, la Corte ha giudicato “inaccettabile che i servizi sociali possano, come sta accadendo, modificare in pratica la portata delle decisioni dei tribunali che prevedono lo svolgimento di incontri. Gli incontri organizzati fino ad ora, praticamente episodici se se ne considera il numero e la frequenza (due in tre anni), sono poca cosa alla luce dei principi derivanti dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

Viene, altresì rilevato che “dal fascicolo appare che fin dal primo incontro tra la ricorrente ed i figli i servizi sociali hanno svolto un ruolo eccessivamente autonomo nell’attuazione delle decisioni del Tribunale per i minorenni e hanno dimostrato un atteggiamento negativo nei confronti della madre che, ad avviso della Corte, non si basa su alcun fondamento oggettivo convincente. In realtà il modo in cui i servizi sociali hanno gestito la situazione fino ad ora contribuisce ad aggravare la separazione tra la madre ed i figli con il rischio di renderla irreversibile. Gli elementi che emergono dal primo rapporto dei servizi sociali non fanno che confermarlo. Di fronte a siffatta evoluzione della situazione, il Tribunale per i minorenni, tenuto a sorvegliare l’esecuzione delle proprie decisioni, ha dato approvazione all’operato dei servizi sociali  senza sottoporlo ad una verifica approfondita”.

Infatti, “il Tribunale, alla luce della constatazione che dopo un anno e mezzo di separazione solo due incontri avevano avuto luogo, avrebbe dovuto verificare per quale motivo il programma si svolgeva così lentamente. Invece si è conformato alle conclusioni negative dei servizi sociali, senza operare un controllo critico dei dati concreti. Davanti alle lamentele della ricorrente sulla valutazione dei risultati degli incontri, il Tribunale non ha ritenuto necessario esaminare il materiale audiovisivo, la cui produzione è stata autorizzata con molto ritardo e solo dopo che era stato già prodotto davanti alla Corte. Il Tribunale non ha neanche autorizzato l’intervento di un esperto esterno nominato dalla ricorrente agli incontri e alle riunioni preparatorie, nonostante l’avallo del Giudice tutelare. Tali rifiuti non solo sembrano privi di giustificazione pertinente, ma hanno per di più privato il Tribunale di mezzi oggettivi di verifica del lavoro dei servizi sociali”.

Conclude la Corte di Strasburgo asserendo che nella vicenda in oggetto “le autorità non hanno saputo trovare un giusto equilibrio tra gli interessi dei figli della ricorrente e i diritti di quest’ultima derivanti dall’art. 8 della Convenzione. Su tale punto vi è stata, pertanto, violazione dell’art. 8”.

Da parte nostra rileviamo, altresì, l’estrema gravità della scelta da parte dei servizi della comunità “Abcd”, in quanto - come abbiamo già rilevato - due dei suoi responsabili e co-fondatori erano stati condannati per maltrattamenti nei confronti di soggetti con handicap ricoverati nella suddetta struttura ed uno di essi era stato addirittura condannato per atti di libidine violenta, anche in questo caso, commessi nei confronti di ricoverati presso la comunità alloggio.

 

 

 

(1)  Di seguito indicata la “Corte”

(2)  Avvocato, già giurista alla Corte europea dei diritti del­l’uomo.

(3)  Cfr. Minorigiustizia, n. 3/2000.

(4)  Precisiamo che due dei principali responsabili della comunità “Abcd” erano stati condannati nel 1985 per maltrattamenti e uno dei due per atti di libidine violenti commessi su tre disabili ospiti della comunità.

(5)  La Corte ha fatto riferimento all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che recita: “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza; 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

 

 

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