Prospettive
assistenziali, n. 139, luglio-settembre 2002
Dopo
40 anni di volontariato sono accusato per aver difeso il diritto alle cure
sanitarie di una anziana gravemente malata
francesco santanera
Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
di Torino, Diamante Minucci, in data 6 febbraio 2002 ha dichiarato «non doversi procedere nei confronti di G.P.
perché il fatto non sussiste».
Il signor G.P. era stato accusato dalla Procura della
Repubblica di Torino di aver abbandonato «la
madre C.P. in condizioni di dipendenza per alcune funzioni di base (fare il
bagno, vestirsi, l’uso dei servizi, spostarsi, continenza) e parzialmente
dipendente nelle attività strumentali, ricoverata presso l’ospedale G. Bosco,
rifiutando di ricondurla presso la sua abitazione (nonostante la dimissibilità
della parte offesa) e cagionandole un peggioramento, prima nelle capacità di
orientamento, nell’attenzione e nelle capacità di riprodurre figure (aprassia
costruttiva) a cagione della prolungata ospedalizzazione, poi nelle condizioni
generali fisiche e cognitive che la conducevano alla morte in data 15 novembre
1999».
Come vedremo in seguito (cfr. l’allegato B), dalla
controperizia redatta dal dottor Luigi Pernigotti, Coordinatore della Sezione
clinica della Società italiana di geriatria e gerontologia e Responsabile
dell’Unità operativa di geriatria dell’Ospedale Martini di Torino, risulta,
invece, che la madre del signor G.P. era sofferente per una grave malattia del
cervello (demenza).
Accuse del
tutto infondate
Nel provvedimento di assoluzione, il giudice per le
indagini preliminari mi incolpa di aver incoraggiato il signor G.P. a
disinteressarsi della propria madre.
In primo luogo, ritengo inammissibile che un giudice,
senza avermi interrogato, scagli accuse, peraltro del tutto infondate, in un
provvedimento che non mi concerne ed in merito al quale non posso, quindi,
presentare alcun ricorso alla magistratura per ottenere che sia ristabilita la
verità e vengano cancellate le infamanti critiche fatte nei miei riguardi.
Gli addebiti rivoltimi dal giudice per le indagini
preliminari sono estremamente pesanti. Afferma, infatti, che mentre «i servizi e gli operatori medico sanitari
cercano più volte la collaborazione e la disponibilità del figlio al fine di
consentire alla signora di riprendere la sua vita domestica», il signor
G.P. «in questo trovando appoggio e
soprattutto guida in tale Francesco Santanera, esponente del “Comitato difesa
dei diritti degli assistiti”, si rifiuta categoricamente di “aiutare” la madre
in ipotesi di dimissione in quanto “non autosufficiente” e non sempre capace di
programmare il proprio futuro».
Debbo subito precisare che non ho mai praticato i
comportamenti attribuitimi dalla dottoressa Minucci. Infatti, da 40 anni sono
impegnato come volontario a tempo pieno nella difesa delle esigenze e dei
diritti dei soggetti deboli, in particolare di coloro che, a causa della
gravità delle loro condizioni di salute, non sono in grado di autodifendersi.
Dunque, ho sempre agito e spero di poter continuare ad operare per una
effettiva giustizia sociale, senza alcuna arroganza, ma anche senza cedimenti.
Il giudice
per le indagini preliminari esclude il reato di abbandono
Nella prima parte della sentenza, in cui viene
esaminata la sussistenza o meno del reato di abbandono, la dott.ssa Minucci
dapprima rileva che «la signora C.P.,
anche se dichiarata dimissibile, non era per i problemi psico-fisici che aveva,
autonoma»; in merito alla condotta del figlio, scrive che «certamente egli non aveva abbandonato la
madre dal punto di vista materiale».
Nel provvedimento il magistrato si sofferma ad
illustrare la portata dell’articolo 591 del codice penale (1). Al riguardo,
precisa quanto segue: «Perché sussista il
reato de quo è necessario che dalla condotta di abbandono derivi un pericolo di
vita o dell’incolumità della persona» e aggiunge: «Le numerose pronunce della Suprema Corte di Cassazione intervenute sul
punto sono tutte nel senso che questa situazione di instabilità, di pericolo
debba riguardare l’integrità fisica e non anche quella psichica della persona.
Del resto una diversa interpretazione renderebbe difficilmente delineabili i
confini della fattispecie normativa, posto che appare arduo stabilire in quali
casi da una situazione di abbandono sia derivata una situazione di pericolo
psichico per la vittima. E nel caso di specie si deve escludere che, anche
laddove si ritenesse il comportamento dell’imputato definibile come abbandono,
da esso sia derivato un pericolo per l’incolumità fisica della madre».
Precisato quanto sopra, e cioè che il signor G.P. non
poteva essere accusato di alcuna colpa giuridicamente perseguibile, non riesco
a capire per quali reali motivi il giudice per le indagini preliminari abbia
voluto prendere in esame anche gli elementi psicologici dell’inesistente reato.
Preso atto che le sentenze delle Suprema Corte di
Cassazione sono tutte orientate nel senso indicato dal giudice per le indagini
preliminari, mi sono anche interrogato circa i motivi in base ai quali la
Procura della Repubblica ha accusato il signor G.P.
Altri
ingiustificati addebiti attribuitimi
Affrontando l’elemento psicologico, il giudice per le indagini preliminari, ripeto senza
avermi mai interrogato, sostiene che «appare
evidente l’influenza del Francesco Santanera sul comportamento dell’imputato».
Senza verificare se le affermazioni dell’imputato
fossero vere o false, nella sentenza la dott.ssa Minucci scrive quanto segue: «Nel corso dell’interrogatorio del 7 giugno
2001 G.P. racconta di essersi recato presso il Comitato difesa degli assistiti
ove il sig. Santanera, dopo aver esaminato la documentazione che gli presentò, gli disse che doveva
assolutamente evitare che la madre fosse dimessa dall’ospedale in quanto
anziana cronica e non autosufficiente. Gli mostrò un opuscolo del Comitato
inerente i diritti dei malati non autosufficienti e due lettere che avrebbe
dovuto inviare all’ospedale, al direttore dell’Asl 4 ed al Presidente della 4ª
Circoscrizione».
Il magistrato ha aggiunto che «le dichiarazioni dell’imputato trovano conferma in una lettera a firma
F. Santanera inviata al Pubblico Ministero, nella quale l’autore, prestando
all’epoca ancora la sua opera di consiglio presso il G.P., afferma d’avere
predisposto una lettera per conto dello stesso da inviare al Direttore generale
dell’Asl ed altra per disdire l’impegno assunto per il ricovero della madre».
Non appagata dalle affermazioni sopra riportate, la
dott.ssa Minucci conclude la sentenza con un gratuito insulto nei miei riguardi, sostenendo che «anche qualora fosse dimostrata la sussistenza degli elementi materiali
del reato, “stato di abbandono” dal quale sia derivato un pericolo per la vita
o per l’incolumità della persona, non si ritiene che il G.P., persona di
modesta cultura, abbia avuto, specie dopo gli insegnamenti ed
indottrinamenti del F. Santanera che con sicumera gli confermava essere nel
giusto, la consapevolezza del proprio comportamento».
La realtà
dei fatti
I fatti si sono svolti in modo molto diverso rispetto
a quanto risulta dalla sentenza. Al signor G.P., com’è successo per le 6-7 mila
persone che finora si sono rivolte al Comitato per la difesa dei diritti degli
assistiti, ho fornito informazioni (come continuerò a fare in futuro) circa il
diritto, sancito dalle leggi vigenti, alle cure sanitarie degli anziani colpiti
da patologie invalidanti e da non autosufficienza. Mai i componenti del
Comitato, ovviamente compreso chi scrive, hanno esercitato pressioni di sorta
sulle scelte di competenza dei malati e dei loro congiunti. Anzi, a tutti è sempre
stata segnalata la validità delle cure domiciliari (2).
Per quanto riguarda la lettera che ho indirizzato in
data 16 settembre 1999 al dottor Marco Bouchard, Sostituto Procuratore della
Repubblica di Torino, il testo integrale è il seguente: «Avendo saputo dell’invio da parte Sua di un avviso di garanzia al
signor G.P., abitante in Torino, via Abc, desidero informarLa di quanto segue:
– per il
signor G.P., rivoltosi al Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti
segnalando che sua mamma C.P. era
malata, non autosufficiente e non in grado di programmare il proprio futuro, ho
predisposto la bozza di lettera, di cui unisco fotocopia (allegato 1) (3), lettera
che il signor G.P. ha inviato con raccomandata r.r. al Direttore generale dell’Asl 4 e al Direttore
sanitario dell’Ospedale Bosco di Torino in data 16 dicembre 1998;
– ritenendo
che la signora C.P. avesse diritto alle cure sanitarie gratuite e senza limiti
di durata, ho anche predisposto per lo stesso signor G.P. la bozza di lettera
(cfr. l’allegato 2) (4) per disdire l’impegno assunto dal suddetto
per il ricovero della propria madre presso una struttura dell’assistenza
sociale e, quindi, a pagamento.
«Ciò
premesso, La prego di voler valutare se vi sono responsabilità penali da parte
mia per aver indotto il signor G.P. a chiedere al Direttore generale dell’Asl 4
e al Direttore sanitario dell’Ospedale Giovanni Bosco di fornire le cure
occorrenti per la propria madre.
«Nel caso lei
mi ritenesse responsabile sul piano penale, nomino fin d’ora quale mio
difensore l’Avv. Roberto Carapelle con studio in Torino, via Berthollet 43.
«Colgo
l’occasione per informarLa che sono rimasto molto sorpreso del fatto che,
invece di rispondere, come prevede la legge n. 241/1990, alla lettera
raccomandata inviata dal signor G.P. alla Direzione sanitaria dell’Ospedale
Bosco, dall’Ospedale stesso sia stata avviata l’iniziativa che ha determinato
l’invio dell’avviso di garanzia».
La vicenda
ha un seguito non inaspettato
Come avevo previsto, il caso del signor G.P. viene
reso pubblico. Infatti, su La Stampa
del 28 aprile 2002, con un titolo a piena pagina compaiono due articoli. Il primo, firmato da Alberto Gaino, reca
il titolo “Abbandonò la mamma in ospedale, è assolto. La donna morì di
malinconia. Il giudice: il figlio pensava fosse curata”. Il secondo, redatto da
Grazia Longo, porta questa intestazione: “La solitudine nemica degli anziani.
Per loro serve l’assistenza a casa”. A fianco dei due servizi è collocata una
fotografia, commentata con questa scritta: “Molti sono gli anziani ricoverati
in ospedale non per vere malattie ma perché la famiglia non può o non sa come
assisterli”.
L’articolo di Gaino, che conosce da molti anni
l’attività svolta dal Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti,
inizia con la seguente esposizione: «Morì
in ospedale, dopo un ricovero durato un anno, non tanto perché fosse anziana
(77 anni) e ricca solo di acciacchi: la Signora C.P. avrebbe voluto tornare a
casa, al San Giovanni Bosco non era e non si sentiva al posto suo; cominciò a rifiutare il cibo e ad andarsene così. Un
caso tutt’altro che singolare, ma che di insolito ha avuto uno sviluppo
post-mortem dell’anziana: il processo al figlio pensionato di 57 anni per
abbandono, dopo che l’uomo si era rifiutato a sua volta di collaborare al
ritorno a casa della signora. G.P., negò ai servizi sociali la chiave
dell’appartamento della madre, malgrado l’Asl di zona e il Comune avessero
predisposto un consistente piano di assistenza domiciliare per lei, ha
ricostruito il medico legale Virginio Oddone».
Dopo la sopra riportata premessa, il Gaino scrive,
senza avermi interpellato in merito, che il comportamento del figlio era stato «confortato dall’incoraggiamento di Francesco Santanera del Comitato di difesa
dei diritti degli assistiti».
Non bastavano le affermazioni infondate del giudice,
anche il giornale La Stampa ha
sentito la necessità di infangare l’attività del Comitato e la mia persona (5).
Con la scritta riportata sotto la fotografia, inoltre,
il giornale torinese ha ripetuto un falso macroscopico che ha creato e crea
disastrose conseguenze sulla vita di decine di migliaia di anziani malati e
delle loro famiglie. Infatti, come da sempre sanno coloro che rispettano la
verità, gli anziani non autosufficienti sono persone colpite da patologie
invalidanti così gravi da determinare anche la loro dipendenza da terzi. Altro
che «malattie non vere».
Certo è che, fino a quando non si riconosceranno le
condizioni patologiche dei vecchi non autosufficienti, continueranno a
verificarsi situazioni fortemente lesive dei loro diritti più elementari quali,
ad esempio, la carenza di interventi terapeutici e di iniziative rivolte a
contrastare il dolore.
Una nota
aggiuntiva inquietante e non richiesta
Il procedimento a carico del signor G.P. trae origine
dalla richiesta avanzata dalla Procura della Repubblica di Torino al dottor
Virginio Oddone di una consulenza tecnica sulle condizioni psichiche (6) per
conoscere «quali siano state le
conseguenze sul piano dell’equilibrio psico-fisico della signora C.P. della
permanenza ospedaliera oltre le strette necessità ritenute dai sanitari e se vi
sia stato un nesso causale fra il mancato rientro della signora C.P. presso la
sua abitazione e la morte» (7).
Consegnata la relativa relazione, pur avendo esaurito
il suo compito, il consulente tecnico d’ufficio ha inviato alla Procura della
Repubblica una nota che dagli atti consultati non mi risulta che gli sia stata
richiesta, avente il seguente significativo oggetto: «“Parcheggio” anziani con il pretesto del diritto alle cure gratuite».
In primo luogo, il dottor Oddone sostiene che in
merito al “parcheggio” di cui sopra «il
punto di partenza è il problema, veramente drammatico, dei costi – economici ma
anche umani – delle cure agli anziani che perdono la propria autosufficienza,
che sono molto elevati per il familiare che veramente se ne voglia occupare,
soprattutto poi se le risorse del malato siano esigue od inesistenti».
Al riguardo, prosegue affermando che «le risposte legislative sono sempre state
limitate», dimenticando che tutte le leggi approvate (692/1955, 132/1968,
386/1974, 180 e 833/1978) hanno riconosciuto il diritto degli anziani cronici
non autosufficienti alle cure sanitarie gratuite e senza limiti di durata,
comprese – occorrendo – quelle praticate in ospedale o in altre strutture
sanitarie (8).
Nella suddetta nota aggiuntiva, il dottor Oddone
scrive, altresì, quanto segue: «Un gruppo
privato – il Csa di Torino – del quale è magna pars Francesco Santanera (...)
elaborò nel corso degli anni Ottanta una strategia difensiva, da utilizzare nel
caso di anziani non autosufficienti ricoverati in ospedale, che si richiama al
diritto costituzionale del cittadino di ricevere cure gratuite in ospedale».
Infine, afferma: «Devo
però aggiungere che attorno alle lettere del Csa si è venuto in questi anni
creando un balletto di rinvii, che ha avuto effetti non piccoli anche sul piano
amministrativo. Come Lei potrà notare dalla relazione 1.2.1999, inviata
dall’allora Direttore generale dell’Asl 4 alle Regione in risposta ad un
quesito di diversa natura, il rifiuto alle dimissioni rappresenta uno dei
principali fattori che hanno alimentato il ricorso alle case di cura private.
La situazione – conclude il Dr. Oddone – non riguarda solo l’Asl 4 ma, a quanto mi consta, un poco tutti gli
ospedali torinesi: non ho dati per quelli della cintura».
Ne deriva che, anche in questo caso senza che sia mai
stata fatta alcuna contestazione scritta o orale, non solo sono accusato di
aver incoraggiato l’abbandono degli anziani, ma anche di aver arrecato danni
economici, evidentemente rilevanti, al Servizio sanitario regionale. Inoltre,
avrei favorito i ricoveri presso le case di cura private.
Un altro
interrogativo
Numerosi sono gli interrogativi che mi sono posto e
che esprimono anche le preoccupazioni degli altri componenti del Csa - Comitato
per la difesa dei diritti degli assistiti. Segnalo quello più inquietante.
Le situazioni relative alla degenza della signora C.P.
presso l’Ospedale Giovanni Bosco di Torino potevano essere solo tre:
1. la signora non era malata e non necessitava di cure
praticabili presso l’ospedale o case di cura private convenzionate con l’Asl 4.
In questo caso, se la signora non voleva allontanarsi dall’ospedale, la forza
pubblica poteva trasportarla a casa sua, così come viene giustamente fatto nei
confronti dei cittadini che pretendono di soggiornare presso uffici pubblici;
2. la signora, malata o non malata, era in grado di
vivere autonomamente e voleva ritornare a casa sua. Evidentemente poteva
lasciare l’ospedale quando voleva e nessuno, né i medici, né il figlio o
qualsiasi altra persona poteva impedirlo;
3. se, invece, la signora, come risulta anche dalla
controperizia del dottor Pernigotti, non era capace di provvedere da sola alle
proprie esigenze a causa della gravità delle sue condizioni di salute, allora
sorge, come giustamente prevedono le leggi vigenti, l’obbligo del Servizio
sanitario nazionale (e non del figlio o di altri congiunti) di fornire le
necessarie prestazioni.
Alcune
considerazioni
Quando il signor G.P. mi segnalò di aver ricevuto un
avviso di garanzia, ho ritenuto che la Procura della Repubblica fosse incorsa
in un errore: a mio avviso erano e sono colpevoli coloro (politici,
amministratori, medici, infermieri, ecc.) che non forniscono le necessarie cure
alle persone colpite da patologie invalidanti, comprese quelle inguaribili e
non i congiunti che chiedono il rispetto delle leggi che giustamente assicurano
a tutti i malati (acuti e cronici, autosufficienti e dipendenti, giovani e
anziani, guaribili e inguaribili) il diritto esigibile a ricevere le occorrenti
prestazioni sanitarie.
In seguito, sono rimasto molto sorpreso a causa
dell’istanza presentata dalla Procura della Repubblica al Giudice per le
indagini preliminari.
Dopo aver letto la perizia del dottor Virgino Oddone e
la sua nota aggiuntiva sul «“Parcheggio” degli anziani con il pretesto del
diritto alle cure gratuite», sono stato assalito da una inquietudine sempre più
assillante e mi sono chiesto più volte chi era il soggetto accusato.
Poi, mi sono illuso che la documentata controperizia
del dottor Luigi Pernigotti avesse sistemato la questione, avendo dimostrato
con scienza e coscienza quali erano le reali condizioni di salute della signora
C.P. e le conseguenti necessità terapeutiche.
Ma le sorprese non sono mancate nemmeno a questo
punto. Come ho segnalato in precedenza, ci sono state le accuse rivoltemi dal
Giudice per le indagini preliminari Diamante Minucci e dal giornalista Alberto
Gaino.
Mentre scrivo, continuo a non capire per quali motivi
il signor G.P. è stato denunciato, mentre nessuna azione è stata intrapresa
dagli stessi soggetti che hanno accusato il signor G.P. nei confronti di
numerose analoghe vicende anch’esse patrocinate dal Csa - Comitato per la
difesa dei diritti degli assistiti, ad esempio quello della madre di Antonio
Ronga (cfr. in questo numero la sua testimonianza) ricoverata nello stesso
Ospedale Giovanni Bosco in cui era degente la signora C.P.
Allegati
A.
Conclusioni della perizia del dottor Oddone
«Rispondendo
ai quesiti posti dal PM dichiaro che:
1. Il
ricovero 7.11.98 della signora C.P. era giustificato, alla luce delle sue
condizioni generali, e tale rimase sino al 16.12.98, quando il consulente
geriatra dichiarò che la signora poteva venire avviata ad una dimissione in
ambiente protetto; da quella data in poi il ricovero deve venire considerato
indebito, sino al momento in cui le condizioni precipitarono.
2. Non appena
si riprese a sufficienza, la signora C.P. espresse in modo lucido, e ritenuto
valido da due consulenti ospedalieri (psichiatra e psicogeriatra), che la
visitarono in due successive occasioni, il desiderio di rientrare a casa, in
base ad un progetto concordato con i servizi territoriali, la cui realizzazione
fu però impedita dal figlio.
3. Un
ricovero di molti mesi, ingiustificato ed in condizioni di costrizione, ha
sempre effetti lesivi, sia fisici che più ancora psichici, su chi ne sia la
vittima, soprattutto se anziano e con i significativi precedenti morbosi della
signora C.P. Tali effetti furono contenuti per diversi mesi grazie
all’assistenza prestata dalla Pubblica Amministrazione (“affidataria” pagata
dai servizi sociali della Città di Torino), sino a quando ad agosto 1999 la
signora, anche in relazione a nuove reazioni aggressive del figlio, non perse
le speranze di un rientro a casa, precipitando in una crisi depressiva
incontrollabile, tale da farle perdere ogni residua volontà di vita e portarla
in uno stato negativistico, di rifiuto di contatti con il mondo esterno, del
cibo e di ogni altra iniziativa.
4. Le
ripercussioni appena descritte della crisi depressiva provocarono uno
scadimento generale, con ripercussioni su più sistemi e, con ogni probabilità,
facilitarono anche la crisi cardiaca del 21-23.8.99, e l’ulteriore peggioramento
fisico e cognitivo. La morte sopravvenne al termine di questo processo,
probabilmente per uno “scompenso a cascata”, come tipicamente accade in questo
genere di soggetti.
«La mia
indagine peritale ha portato alla luce anche comportamenti criminosi del figlio
antecedenti la data 7.11.98, con le caratteristiche dei reati di cui all’art.
572 e 591 c.p., che determinarono malattia fisica e psichica. Il prolungamento
indebito della degenza della signora C.P. ha anche determinato una indebita
occupazione di un letto ospedaliero, con tutte le implicazioni che ne possono
derivare».
B.
Conclusioni della controperizia del dottor Pernigotti
1. Premessa
Sono emersi
errori, metodologici e sostanziali, nella valutazione del caso clinico in
oggetto. Gli errori emersi possono avere sostanziale importanza nel determinare
la costruzione dei nessi causali sui quali il PM ha richiesto di riferire,
presupponendovi importanza nella oggettivazione della responsabilità del figlio
riguardo la salute della madre.
2. Sulla morte
della signora C.P.
La
depressione della signora C.P. era segno transitorio di un quadro evolutivo in
demenza o disturbo concorrente e complicante una sindrome demenziale, in ogni
caso espressione di un danno cerebrale di una malattia evolutiva e mortale della
quale, e solo della quale, la povera signora è stata “vittima”.
Non si può
affermare che esista un nesso causale tra il mancato rientro della signora C.P.
alla sua abitazione e la morte. La morte è avvenuta come esito dell’evoluzione
di una encefalopatia vascolare su base arteriosclerotica, malattia
multifattoriale in cui sinergicamente intervengono predisposizione genetica e
stili di vita.
3. Sulla
relocation differita e la morte di crepacuore
Le
considerazioni sugli effetti della resistemazione alloggiativa (il fenomeno
della relocation) espressi dal Dr. Oddone riguardano persone portatrici di
disabilità che determinano handicap, non persone malate affette da patologie
evolutive come la signora C.P. e per le quali fenomeni di relocation, forse
anche possibili, mai sinora sono stati provati essere evidenziabili dalla
scienza medica.
Le
affermazioni che la signora C.P. aveva proiezioni ottimistiche non risultano
attestate da misure, sono espressione di un’analisi che non permette confronti,
condotta con metodo autoreferenziale che, ancorché giustificabile sul campo di
una pratica medica con obiettivi terapeutici, male si accorda alle necessità di
obiettività che devono essere rispettate nel campo della revisione di eventi
messi al vaglio di giudizio non medico.
Lo stress
entro il quale può essere compreso il cosiddetto crepacuore (di solito uno
spavento) può essere causa necessaria ed anche sufficiente nel determinare la
morte quando si associ una componente fisica a quella psicologica (ad esempio
il fortissimo dolore della puntura del pesce scoglio dei mari caldi) ma lo
stress psicologico isolato non è mai causa sufficiente alla morte. Si tratta
comunque di morte cardiaca acuta, se non improvvisa. Il crepacuore dilazionato,
presupposto di causa mortale della signora C.P., non è realtà medica, solo una
bella ma fantastica, quindi falsa, rappresentazione di un corteo patologico
irreale (…).
4. Sul
percorso di cura della signora C.P.
Nella prima
parte della storia clinica della signora C.P. si individua che il percorso di
cura a casa è fallito. Questo è l’unico dato certo che il figlio può avere in
mente e che doverosamente non potrà che sviluppare perplessità, in seguito ad
altre proposte di ritorno a casa dopo una nuova dimissione ospedaliera. Anche
l’operatore del servizio di cure domiciliari messo in atto lamentava che alla
signora C.P. era stata messa a disposizione una organizzazione non sufficiente.
Nella parte
di storia della signora C.P. vissuta nel ricovero ospedaliero conclusosi con la
morte, sono documentati comportamenti dell’ospedale, dei suoi medici e del
servizio sociale, assolutamente originali, non rispettosi delle norme che
governano l’assistenza ospedaliera. In particolare le dinamiche messe in atto
per sviluppare la dimissione, come passaggio di cura, dall’Ospedale Giovanni
Bosco ad altro presidio funzionante come lungodegenza o al medico di famiglia,
sono state percorse in modo inefficace per sicure carenze nella comunicazione
dei processi adottati o proposti al figlio.
Nel corso
della lunga assistenza alla signora C.P., in ospedale è stato utilizzato, in
modo del tutto inconsueto, personale esterno, ed il totale del numero di ore di
assistenza, in somma di questo e di quello ordinario ospedaliero era assai
superiore a quello normalmente a disposizione dei ricoverati. Ciò può essere
indicativo di una necessità di assistenza molto elevata, superiore a quella
condotta nelle strutture per anziani non autosufficienti, ove normalmente si
giunge per esaurimento delle possibilità della famiglia a farsi carico di
lavoro tutelare ed infermieristico. Pare ben chiaro che le condizioni di salute
e di necessità di assistenza della signora C.P. fossero ben superiori a quelle
che fanno ritenere possibile l’organizzazione di cure domiciliari.
Durante la
degenza ospedaliera sono stati richiesti al figlio apporti del tutto
inconsueti, forse anche al di fuori delle norme ospedaliere che prevedono che i
finanziamenti ottenuti per il funzionamento dell’ospedale siano utilizzati
anche per erogare l’assistenza tutelare necessaria, tramite personale di ruolo
Ota (Operatori tecnici dell’assistenza).
5. Sul
comportamento del figlio
Il
comportamento del figlio della signora C.P., esprime sicuramente la presenza di
tensioni e di conflittualità. Questa pare rivolta, più che nei confronti della
madre, nei confronti dei servizi sociali, che a suo avviso non considerano
appieno la problematicità del caso. Il figlio della signora C.P. esprime
chiaramente quello stato frequente e comune che si indica come stress parentale
e di fronte al quale, come per una malattia, l’organizzazione sanitaria è
tenuta ad intervenire, con possibilità di molteplici interventi, alcuni, di
fatto, messi in atto anche nei suoi confronti, ma senza adeguata comunicazione,
non dichiarati come tali, ed assolutamente insufficienti.
6.
Conclusioni
Il
comportamento del signor G.P. figlio della signora C.P., nonostante le
molteplici interpretazioni dei molti attori che hanno ruotato intorno al caso,
e non ultimo, privo di un supporto tecnico esauriente, anche il giudice
tutelare, attore della denuncia a carico del signor G.P., sulla base di una
ricostruzione dei fatti avvenuti e delle reali, e non teoriche, dinamiche
evidenziatesi, non ha mai rappresentato un reale ostacolo alle cure necessarie
alla madre signora C.P. del tutto in opposizione alle conclusioni del
consulente tecnico del PM occorso in numerosi errori interpretativi.
(1) L’art. 591 del codice
penale stabilisce quanto segue: «Chiunque
abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona
incapace per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di
provvedere a sé stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è
punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace
chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a
lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è della
reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da
tre a otto anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è
commesso dal genitore, dal figlio o dal coniuge, ovvero dall’adottante o
dall’adottato».
(2) Ricordo che il servizio
di ospedalizzazione a domicilio dell’Azienda ospedaliera S. Giovanni Battista
di Torino, che funziona ininterrottamente dal 1985 e che rappresenta nel nostro
Paese l’intervento più idoneo per le cure sanitarie domiciliari fornite a
soggetti gravemente malati, è stato promosso congiuntamente dall’Istituto di
geriatria dell’Università di Torino e dal Csa - Comitato per la difesa dei
diritti degli assistiti.
(3) La lettera spedita il 14
dicembre 1999 dal signor G.P. al Direttore generale dell’Asl 4 e al Direttore
sanitario dell’Ospedale Giovanni Bosco era così redatta: «Il sottoscritto G.P., abitante in Torino, via Abc, visto l’art. 41
della legge 12/2/1968 n. 132 (che prevede il ricorso contro le dimissioni), e
tenuto conto che l’art. 4 della legge 23/10/1985 n. 595 e l’art. 14, n. 5 del
decreto legislativo 30/12/1992 n. 502 consentono ai cittadini di presentare
osservazioni ed opposizioni in materia di sanità, chiede che la propria madre
C.P., abitante in Torino, via Efg, attualmente ricoverata e curata presso
l’Ospedale Giovanni Bosco, non venga dimessa o venga trasferita in un altro
reparto dello stesso ospedale o in altra struttura sanitaria per i seguenti
motivi:
1. la paziente è gravemente malata e non autosufficiente, e non sempre
è capace di programmare il proprio futuro;
2. lo scrivente non è in grado di fornire le necessarie cure alla
propria madre.
Fa presente che le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, sono
dovute anche agli anziani cronici non autosufficienti ai sensi delle leggi
4/8/1955 n. 692, 12/2/1968 n. 132 (in
particolare art. 29), 17/8/1974 n. 386 (le prestazioni ospedaliere devono
essere fornite “senza limite di durata”), 13/5/1978 n. 180 e 23/12/1978 n. 833
(in particolare art. 2, punti 3 e 4, lettera f ), e
del Dpr 1 marzo 1994 “Approvazione del piano sanitario per il triennio
1994-1996” che stabilisce quanto segue: “Gli anziani ammalati, compresi quelli
colpiti da cronicità e da non autosufficienza, devono essere curati senza
limiti di durata nelle sedi più opportune”. Si ricorda, inoltre, che il Pretore
di Bologna, dr. Bruno Ciccone, con provvedimento del 21/12/1992 ha riconosciuto
il diritto della signora P.F., nata nel 1913, degente in ospedale dal 1986 di
“poter continuare a beneficiare di adeguata assistenza sanitaria, usufruendo
delle prestazioni gratuite del Servizio sanitario nazionale presso una
struttura ospedaliera e non di generica assistenza presso istituti di riposo o
strutture equivalenti”. Si segnala, altresì, la sentenza della 1ª Sezione
civile della Corte di Cassazione n. 10150/1996 in cui viene riconfermato che:
- le leggi vigenti riconoscono ai cittadini il diritto soggettivo (e
pertanto esigibile) alle prestazioni sanitarie, comprese le attività
assistenziali a rilievo sanitario;
- le cure sanitarie devono essere fornite sia ai malati acuti che a
quelli cronici;
- essendo un atto amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri dell’8 agosto 1985 non ha
alcun valore normativo.
«Ai sensi e per gli effetti della legge 7 agosto 1990 n. 241, lo
scrivente chiede che gli venga inviata una risposta scritta. Lo scrivente si
impegna di continuare a fornire al proprio congiunto tutto il possibile
sostegno materiale e morale, compatibilmente con i propri impegni familiari e
di lavoro. Chiede pertanto che, nel caso di trasferimento in altra struttura (la madre, n.d.r.) non venga allontanata dalla città di
Torino».
(4) Il testo della lettera
inviata dal signor G.P. il 14 dicembre 1999 al Presidente della 6ª
Circoscrizione di Torino è il seguente: «Nei
giorni scorsi ho sottoscritto, su richiesta dell’assistente sociale,
un’impegnativa di ricovero assistenziale presso una struttura privata di mia
madre, abitante in Torino, via Efg, attualmente ricoverata presso l’Ospedale
Giovanni Bosco di Torino, Piazza Donatori del Sangue».
«Con la presente disdico gli impegni sottoscritti, anche perché ho
chiesto all’Asl 4 e all’Ospedale Giovanni Bosco di non dimettere mia madre o di
trasferirla in idonea struttura sanitaria». Osservo che se il signor G.P. avesse
accettato il ricovero della madre presso una struttura assistenziale (e quindi
non abilitata alla prestazione di cure sanitarie per persone stabilmente ammalate) certamente nessuno lo avrebbe
accusato di abbandono. Non risulta, infatti, che siano stati avviati
procedimenti penali al riguardo.
(5) Su La Stampa del 30 aprile 2002 è stata pubblicata la seguente mia lettera: «In merito all’articolo di domenica
“Abbandonò la mamma in ospedale, è assolto”, smentisco nel modo più assoluto di
avere incoraggiato G.P. a disinteressarsi della madre ricoverata presso
l’Ospedale Giovanni Bosco. Come ha accertato il geriatra Luigi Pernigotti nella
controperizia presentata all’autorità giudiziaria, la degenza della madre di
G.P. era dovuta ad una grave malattia del cervello. Il giudice Diamante
Minucci, senza avermi mai interrogato, mi ha attribuito comportamenti che sono
diametralmente opposti ai principi etici che perseguo da 39 anni come
volontario a tempo pieno. Sono
intervenuto ed interverrò affinché, come prescrivono le leggi vigenti, gli
anziani cronici non autosufficienti vengano curati dal Servizio sanitario
nazionale. Al riguardo non è vero che, com’è scritto su “La Stampa” del 28 “Molti sono gli anziani ricoverati
in ospedale non per vere malattie, ma perché la famiglia non può o non sa come
assisterli”. Si tratta invece, di persone colpite da gravi patologie o da loro
esiti invalidanti. Tuttavia, essendo inguaribili, sono quasi sempre considerati
incurabili dalle strutture sanitarie e scaricati sui loro congiunti. A causa
delle illegali dimissioni, come risulta dal documento emesso nell’ottobre 2000
dall’allora Ministro della solidarietà sociale “nel 1999, 2 milioni di famiglie
sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spese sostenute
per la cura di un componente affetto da una malattia cronica”».
(6) Ricordo nuovamente che il
giudice per le indagini preliminari ha scritto nella sentenza di assoluzione
del signor G.P. che «le numerose pronunce
della Suprema Corte di Cassazione intervenuta sul punto (e cioè sulla
portata dell’articolo 591 del codice penale concernente l’abbandono, n.d.r.) sono tutte nel senso che questa situazione
di instabilità e di pericolo (concernenti cioè l’incolumità della persona
abbandonata, n.d.r.) debba riguardare
l’integrità fisica e non anche quella psichica della persona».
(7) In allegato sono
riportate le conclusioni della perizia e quelle della controperizia.
(8) Nella relazione peritale,
il dottor Oddone compie un clamoroso errore sostenendo che «Il figlio rifiutava che la madre venisse dimessa o trasferita in altro
reparto della stesso ospedale», mentre il signor G.P. aveva chiesto (cfr.
la nota 3) che la propria madre «non
venga dimessa o venga trasferita in un altro reparto dello stesso ospedale o in
altra struttura sanitaria», aggiungendo che «nel caso di trasferimento in altra struttura (la madre, n.d.r.) non venga allontanata dalla città di
Torino».
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