Prospettive
assistenziali, n. 139, luglio-settembre 2002
Editoriale
La situazione degli anziani
cronici non autosufficienti e dei malati di Alzheimer, nonché quella dei loro
congiunti, è sempre più insostenibile.
Negli ultimi mesi sono
state avviate alcune iniziative che, al di là delle strumentali affermazioni,
sono assolutamente inaccettabili: si tratta della sortita del Ministro Sirchia
sulle mutue, della proposta di legge presentata dall’On. Battaglia e della
petizione dei Sindacati dei pensionati Cgil, Cisl e Uil.
Inoltre, riteniamo che sia
giunto, anche alla luce dei decreti (illegittimi) 8 agosto 1985, 14 febbraio e
29 novembre 2001, il momento di ridefinire la questione dell’integrazione
sociosanitaria le cui conseguenze sono disastrose per i cittadini più deboli e
per i loro congiunti.
La trovata del Ministro Sirchia
Come se fossimo all’anno
zero, il Ministro della salute, Girolamo Sirchia, ha avuto l’ardire di proporre
«mutue integrative e/o sostitutive»
(1).
Il Ministro ha precisato
che «non è stato ancora deciso come
funzioneranno le mutue, né chi dovrà pagare e in che forma. La locomotiva,
però, è stata messa sui binari» (2). Prima
ha affermato che le mutue sarebbero state volontarie, poi ha annunciato che
forse saranno obbligatorie (3). La proposta di costituzione delle mutue è motivata,
secondo il Ministro Sirchia, dalla mancanza di 7,7 miliardi di euro per
garantire le cure ai soggetti non autosufficienti (4).
La proposta del Ministro
Sirchia era stata preceduta da alcune dichiarazioni incentrate sulla
inesistenza di disposizioni nella legislazione del nostro Paese in merito al
diritto degli anziani non autosufficienti alle prestazioni del Servizio
sanitario nazionale.
Al riguardo ricordiamo che
nell’articolo «La “nuova” sanità tra vecchi e pidocchi», apparso su “La Repubblica” del 10 dicembre 2001,
Mario Pirani aveva denunciato, fra l’altro, «lo stato di vergognoso abbandono in cui il Servizio sanitario nazionale
lascia i vecchi lungodegenti, per lo più non autosufficienti, affidati a
famiglie allo stremo, quando non ridotti alla più disperata solitudine, in liste di attesa per ospizi
pubblici indecorosi e privi di mezzi oppure costretti a impegnare la pensione e
la solidarietà di qualche parente caritatevole
in grado di pagare le alte rette delle case di cura private».
Il Ministro Sirchia aveva
riconosciuto la giustezza delle accuse fatte da Pirani, ma aveva tentato di
parare il colpo con affermazioni del tutto destituite di fondamento.
Infatti, il Ministro (che
essendo un medico dovrebbe conoscere bene la situazione) aveva sostenuto che «il nostro Paese registra un grave ritardo
che aumenta di pari passo con l’invecchiamento della popolazione”, aggiungendo
che “in questo campo altri Paesi sono
partiti assai prima di noi: la Germania, per esempio, ha adottato dal 1995 un
modello di fondo assicurativo obbligatorio a ripartizione fra datore di lavoro
e lavoratore contro i rischi della autosufficienza».
Il Ministro della salute
ignora (o finge di ignorare) che la questione è stata affrontata dal Parlamento
italiano quasi mezzo secolo fa. Infatti, la legge n. 692/1955 ha sancito, a
favore dei pensionati del settore privato e dei loro congiunti (5) colpiti da
malattie acute o croniche, il diritto alle cure sanitarie gratuite e senza
limiti di durata, comprese quelle ospedaliere (6).
Per il finanziamento della
legge n. 692/1955, il Parlamento aveva deciso (art. 6) quanto segue: «A partire dalla data di inizio del primo
periodo di paga successivo all’entrata in vigore della presente legge, il
contributo dovuto dai datori di lavoro e dai lavoratori al “fondo per
l’adeguamento pensioni e per l’assistenza di malattia ai pensionati”, è
stabilito nella misura del 9,20% della retribuzione, di cui il 6,15% a carico
dei datori di lavoro ed il 3,05% a carico dei lavoratori».
Dunque, l’assicurazione obbligatoria
per le cure di lunga durata è stata introdotta nel nostro ordinamento da quasi
50 anni. Invitiamo, quindi, il Ministro a prendere in considerazione le norme
decise dal Parlamento nel 1955 e negli anni successivi.
Ad esempio, l’art. 29 della
legge n. 132/1968 imponeva e impone tuttora alle Regioni di programmare i posti
letto degli ospedali tenendo conto delle esigenze dei malati «acuti, cronici, convalescenti e lungodegenti».
Inoltre, l’art. 2 della
legge di riforma sanitaria n. 833/1978 obbliga tuttora le Regioni e le Asl a
provvedere alla «tutela della salute
degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che
possono concorrere alla loro emarginazione». Le prestazioni devono essere
fornite agli anziani, come a tutti gli altri cittadini, qualunque siano «le cause, la fenomenologia e la durata» delle malattie.
Il manifesto sulla salute dell’Ulivo
In contrapposizione alla
sortita del Ministro Sirchia, l’Ulivo ha presentato a Roma il 15 luglio 2002 un
manifesto, che riportiamo integralmente in questo numero, in cui viene
giustamente difesa la natura pubblica del Servizio sanitario nazionale,
ribadendone il carattere di universalità e globalità.
Per quanto riguarda il
finanziamento del Servizio sanitario nazionale, finalmente l’Ulivo riconosce
che gli attuali stanziamenti sono largamente insufficienti e chiede che essi
vengano elevati al 7% del Pil, Prodotto interno lordo, con un aumento del 25%
rispetto all’attuale quota del 5,6%. Ricordiamo che la percentuale del Pil
destinata alla spesa sanitaria è stata ridotta dal 7,6% del 1977 all’attuale
5,6% con una diminuzione di ben il 26,3% (7).
Nel manifesto dell’Ulivo
viene precisato che i tre principi fondamentali del Servizio sanitario
nazionale sono «l’universalità di accesso
e la libertà di scelta del luogo di cura, la globalità della copertura di tutti
i servizi e le prestazioni necessarie e appropriate, il finanziamento pubblico
attraverso la fiscalità generale».
Purtroppo, il principio
della globalità è smentito per quanto riguarda gli anziani colpiti da malattie
invalidanti e da non autosufficienza. Infatti – fatto gravissimo – per questi
soggetti che pur sono malati, anzi gravemente malati, non valgono le norme
concernenti gli altri pazienti, ma è prevista una specifica «iniziativa legislativa a sostegno della non
autosufficienza».
Nell’intervista rilasciata
a La Repubblica del 12 luglio 2002,
l’ex Ministro della sanità Rosy Bindi ha riconosciuto che la carenza di cure
dei suddetti soggetti «è una pecca del
nostro sistema», ma continua a non riconoscere che il diritto alle cure
sanitarie gratuite e senza limiti di durata è sancito dalle leggi vigenti (8).
Rammentiamo che in data 9
settembre 1997 una delegazione del Coordinamento nazionale del volontariato dei
diritti aveva incontrato nella sede del Ministero della sanità un componente
della segreteria personale dell’allora Ministro Rosy Bindi e due funzionari.
Dal verbale dell’incontro
(9) risulta riconosciuto «dai funzionari
presenti che, in base alle leggi vigenti, il diritto alle cure sanitarie deve
essere assicurato anche agli anziani cronici non autosufficienti (e agli altri
malati inguaribili, ma sempre curabili) attraverso servizi diversificati: oltre
all’ospedale, nei day hospital con l’estensione degli interventi di cura a
domicilio (estesi a tutti i giorni della settimana, festivi compresi), nei
centri diurni per malati di Alzheimer e dementi senili e, quando non è
possibile intervenire a domicilio, il ricovero in Rsa, residenze sanitarie
assistenziali» (10).
Nonostante i ripetuti
solleciti, l’allora Ministro della sanità non ha mai risposto al Coordinamento
nazionale del volontariato dei diritti e non ha consentito ai propri funzionari
di proseguire gli incontri.
L’iniziativa legislativa dell’On. Battaglia
In data 15 gennaio 2002,
l’On. Augusto Battaglia, responsabile nazionale delle politiche sociali dei Ds
(Democratici di sinistra), ha presentato alla Camera dei Deputati la proposta
di legge n. 2166, che reca il titolo “Istituzione di un sistema di protezione
sociale e di cura per le persone anziane non autosufficienti”, la cui relazione
ed il relativo testo sono interamente riprodotti in questo numero.
È un’iniziativa
estremamente negativa in quanto parte anch’essa dal presupposto – assolutamente
falso – dell’assenza nelle disposizioni vigenti di una adeguata tutela dei
vecchi colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza.
Comprendiamo le difficoltà
dei Ds che vent’anni fa avevano irragionevolmente deciso di non considerare i
suddetti soggetti come malati. Invero, la prima iniziativa rivolta ad escludere
gli anziani malati cronici dalla piena competenza del Servizio sanitario
nazionale era stata assunta dalla Regione Emilia Romagna con la legge del 1°
settembre 1979, n. 30, il cui art. 5 stabiliva quanto segue: «La casa protetta (11) è un servizio volto a fornire residenza ed
adeguata assistenza a persone anziane, in particolare a quelle in stato di non
autosufficienza fisica o psichica per le quali non sia possibile la permanenza
nel proprio alloggio» (12).
La posizione dell’Emilia
Romagna venne fatta propria dalle Regioni Toscana (legge 27 marzo 1980, n. 20)
e Piemonte (legge 10 marzo 1982, n. 7) e quindi si estese a tutto il nostro
Paese.
È stato questo l’inizio del
calvario di alcune centinaia di migliaia di vecchi malati e dei loro congiunti
(13).
Allo scopo di occultare la
condizione di malati degli anziani cronici non autosufficienti, l’Assessorato
ai servizi sociali della Regione Emilia Romagna aveva persino predisposto una
scheda di valutazione denominata Bina, Breve indice di non autosufficienza, in
cui fra le “Condizioni di disagio prevalente” (e non fra le malattie) dei
soggetti da inserire nelle case protette/Rsa erano nell’ordine indicate le
seguenti situazioni: «Neoplasie, ictus,
demenza, traumi e fratture, malattie cardiovascolari, incontinenza sfinterica,
cecità, sordità, cecità e sordità, condizioni invalidanti apparato locomotore,
condizioni invalidanti apparato respiratorio, condizioni invalidanti apparto
genitourinario, condizioni invalidanti neurologiche, sindromi psichiatriche,
grande senilità, assenza risorse sociali e/o familiari».
Da quanto ci risulta,
nessun medico è intervenuto per far modificare la scheda al fine di evitare
l’inserimento fra le condizioni di disagio di patologie che, come è noto anche
ai non esperti, devono essere curate dal Servizio sanitario nazionale.
Occorre, altresì, rimarcare
che, ai sensi della ancora vigente legge della Regione Emilia-Romagna n.
5/1994, la responsabilità del controllo dell’attuazione degli interventi
previsti per gli anziani cronici non autosufficienti è affidata (art. 18) a un
assistente sociale. Pertanto, compete a questo operatore, privo di qualsiasi
conoscenza medica, controllare se le cure sanitarie fornite nelle Rsa o nelle
case protette ai vecchi malati di cancro o con altre patologie sono adeguate
rispetto alle loro condizioni di salute!
Se si volessero veramente
rispettare le esigenze ed i diritti degli anziani attualmente malati e di
quelli che lo saranno domani (e cioè di noi stessi), occorrerebbe che le forze
politiche riconsiderassero a fondo la questione tenendo presente, com’è ovvio,
che la non autosufficienza è sempre, salvo casi del tutto eccezionali, la
conseguenza diretta di patologie in atto o di loro esiti.
Inoltre, dovrebbero tener
presente che una quota considerevole di anziani ricoverati presso le Rsa (circa
il 30%) soffre a causa di infermità acute, che insorgono nelle strutture
residenziali con maggiore frequenza rispetto ai soggetti della stessa età non
colpiti da patologie invalidanti. Si tratta – e la questione è di rilevante
importanza – di infermità acute che, salvo che occorrano interventi chirurgici,
sono quasi sempre curate nelle Rsa a causa del rifiuto degli ospedali di
fornire le relative prestazioni.
La questione degli anziani
cronici non autosufficienti poteva essere avviata a soluzione, come
ripetutamente aveva richiesto il Csa, con la legge n. 328/2000 di riforma
dell’assistenza e dei servizi sociali. L’allora Ministro per la solidarietà
sociale, On. Livia Turco, invece, ha preferito lasciare le cose così come
stavano senza introdurre norme che confermassero il diritto degli anziani
cronici non autosufficienti alla piena competenza del Servizio sanitario
nazionale, e attribuissero allo stesso Ssn la gestione diretta o convenzionata
delle Rsa.
Non possiamo certo
dimenticare che, per tranquillizzare i Parlamentari ed i cittadini, nella
seduta del Senato del 10 ottobre 2000, l’On. Livia Turco ha dichiarato, quanto
segue: «Vorrei inoltre rassicurare quei
Senatori che hanno sollevato il problema del rischio che questa legge farebbe
sì che i malati inguaribili, anziché restare a carico della sanità, passino a
carico dell’assistenza. Vorrei rassicurare chi ha mosso questa obiezione e chi
nutre questa preoccupazione, ricordando il comma 1 dell’art. 15, relativo alle
persone anziane non autosufficienti, che recita: “Ferme restando le competenze
del Servizio sanitario nazionale, le misure di prevenzione, cura e
riabilitazione per le patologie acute e croniche, in particolare per i soggetti
non autosufficienti”. Vorrei ricordare inoltre anche il comma 2 dell’art. 22
che ripete la precedente dizione ed il richiamo in esso contenuto al decreto
legislativo relativo all’integrazione socio-sanitaria. Gli articoli 15 e 22
confermano che gli interventi socio-assistenziali per le patologie acute e
croniche sono da intendere come aggiuntivi rispetto a quelli della sanità».
La sopra citata
affermazione dell’On. Livia Turco conferma le dichiarazioni fatte dalla stessa
al convegno organizzato a Firenze dalle Pubbliche Assistenze il 23 settembre
2000, che riportiamo integralmente: «L’intento
dell’atto di indirizzo e coordinamento è quello di dire che tutta una serie di
servizi territoriali di base, dalle Rsa ai servizi che riguardano poi le patologie
più acute, nonché, quelle che devono avvalersi di bisogni assistenziali
continuativi, vanno considerate a carico della sanità. Bisogna stabilire che
determinati servizi territoriali di base non possono essere più oggetto di
palleggio fra l’Asl e il Comune ma che devono avere una certezza di
finanziamenti» (14).
Purtroppo furono molti i
dirigenti di organizzazioni di base, gli operatori ed i cittadini che
credettero alle parole del Ministro Livia Turco: di conseguenza nessuna
iniziativa venne assunta in appoggio alle posizioni del Csa.
In realtà l’atto di
indirizzo e di coordinamento (Dpcm 14.2.2001) che reca le firme di Amato, Turco
e Veronesi è stato ed è, come vedremo anche in seguito, una vera e propria
calamità (15).
Ora, con la proposta di
legge n. 2166, l’On. Battaglia vorrebbe ovviare alle gravissime conseguenze
derivanti dalla sopra citata linea scelta dal Pci/Ds e dal menzionato atto di
indirizzo, mediante l’istituzione presso l’Inps di un fondo nazionale per il
sostegno alla non autosufficienza, ignorando che la non autosufficienza è la
conseguenza di gravi condizioni patologiche (cancro, ictus, demenza, ecc.).
È, quindi, di palmare
evidenza che occorre intervenire su dette patologie al fine di fornire ai
malati le occorrenti cure sanitarie e, se del caso, le prestazioni
riabilitative.
Bisognerebbe anche
assicurare i necessari interventi di prevenzione della cronicità e della non
autosufficienza. Far riferimento alla non autosufficienza come problematica se
stante, è una impostazione certamente sbagliata, come sarebbe errato ritenere
di poter curare il dolore senza tener conto delle infermità che lo provocano.
Anche la proposta Battaglia
prevede che «per i soggetti non
autosufficienti restano ferme le competenze del Servizio sanitario nazionale in
materia di prevenzione, di cura e di riabilitazione, per le patologie acute e
croniche», com’è scritto nella legge n. 328/2000.
Dette competenze non sono
riferite alla gestione complessiva delle persone malate, ad esempio ricoverate
presso Rsa o case protette. Infatti, la conduzione di dette strutture continua
ad essere affidata al settore socio-assistenziale e il Servizio sanitario
nazionale seguita solamente a svolgere una funzione di supporto. Con la
suddetta impostazione, il numero del personale sanitario e infermieristico
delle Rsa e delle case protette è quasi sempre inferiore alle necessità dei
pazienti. Dunque, secondo la proposta di legge n. 2166, il Servizio sanitario
nazionale può proseguire a scaricare gli anziani con malattie invalidanti e non
autosufficienti ai servizi socio-assistenziali, né più né meno come avviene
attualmente.
In definitiva, la proposta
di legge n. 2166 ha il vero scopo di mettere la parola fine al diritto degli
anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie e alle leggi vigenti
che lo stabiliscono. Tenuto conto che la politica finora praticata ha
determinato estese situazioni di povertà da parte dei congiunti che sono stati
costretti a provvedere ai loro anziani cacciati dalla sanità, la proposta di
legge n. 2166 intende, inoltre, far apparire come “benefattori” coloro che
sono, direttamente o indirettamente, responsabili delle tribolazioni dei vecchi
malati e dei loro familiari.
Se c’è realmente una
carenza di risorse economiche per il finanziamento del Servizio sanitario
nazionale (non sanabile con il trasferimento di fondi da un settore all’altro,
ad esempio non prevedendo l’aumento del 50% deciso per gli stanziamenti dal
Ministero della difesa), allora vengano assunte iniziative per il reperimento
dei relativi fondi.
Il malato non
autosufficiente ha e deve avere gli stessi diritti degli altri malati (come
stabilisce il principio della globalità sostenuto anche dall’Ulivo).
Pertanto se mancano i
quattrini, essi devono essere reperiti per tutti i soggetti interessati. Si
tratta, quindi, di avviare iniziative per l’aumento della percentuale del Pil
destinata al Servizio sanitario nazionale. A nostro avviso, potrebbe però
essere ammesso che, nei casi di degenza presso ospedali, case di cura private
convenzionate, Rsa, ecc., trascorso un periodo di 30-60 giorni, i malati siano
tenuti a versare una parte dei loro redditi pensionistici, tenendo ogni caso
conto dei loro obblighi familiari (mantenimento del coniuge e dei figli, ecc.)
e sociali (pagamenti di affitti, di mutui, ecc.).
L’autolesionismo dei Sindacati dei pensionati Cgil, Cisl e Uil
Dopo essere stati i
benemeriti promotori, insieme al Ministro Vigorelli, della citata legge n.
692/1955, i Sindacati dei pensionati Cgil, Cisl e Uil hanno dimenticato sia i
contenuti, sia i versamenti fatti (16) a seguito della garanzia loro fornita
dal Parlamento di essere curati gratuitamente anche nei casi di malattie
inguaribili. In sostanza, i Sindacati dei pensionati si sono allineati alla
sciagurata definizione del Segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati,
che, nella lettera inviata il 30 luglio 1997 al Csa, ha scritto, incredibile ma
vero, che «essere anziani cronici non è
una malattia» (17).
La posizione autolesionista
di Cgil, Cisl e Uil si era già manifestata nella seduta del Consiglio sanitario
nazionale svoltosi a Roma l’8 giugno 1984, quando i loro rappresentanti avevano
dato il pieno assenso al documento in cui era scritto quanto segue: «Considerato lo stretto intreccio della presenza sanitaria e
socio-assistenziale anche nelle strutture protette appare necessario che, nel
transitorio, sia per l’inadeguatezza dei servizi sanitari sul territorio, che
non possono farsi carico in maniera completa del problema, sia perché
storicamente il non autosufficiente è stato ricoverato e assistito in ambito
ospedaliero o para ospedaliero, la spesa relativa al ricovero in casa protetta
o struttura similare di persone non autosufficienti carichi parzialmente (fino
al massimo del 50%) sul fondo sanitario nazionale, ai fini di determinare la
correlativa riduzione delle spesa ospedaliera».
In sostanza, Cgil, Cisl e
Uil hanno approvato, addirittura in contrasto con la legge vigente e senza
chiederne alcuna modifica, che una quota, fino al massimo del 50% del costo
della degenza, venisse posto a carico del malato.
Com’è noto, sulla base del
suddetto documento, l’On. Craxi emanò l’8 agosto 1985 un Dpcm (Decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri), fra l’altro non contestato da nessuna
forza politica anche se i suoi contenuti erano e sono chiaramente illegittimi
(18), ed hanno posto le basi per l’espulsione degli anziani cronici non
autosufficienti dalla piena competenza del Servizio sanitario nazionale con la
conseguente attribuzione di gravosi oneri economici a carico degli utenti (19).
Assunta la posizione di cui
sopra, i Sindacati dei pensionati Cgil, Cisl e Uil non hanno mai operato per
ottenere l’attuazione del diritto alle cure dei vecchi colpiti da malattie
invalidanti, ma hanno concentrato le loro iniziative sulla non autosufficienza,
attribuendo – con una inspiegabile forma di autolesionismo – una competenza
rilevante al settore assistenziale ed accettando, quindi, il passaggio dai
diritti esigibili e dalla gratuità delle prestazioni del Servizio sanitario
nazionale alla discrezionalità dei servizi sociali (ai quali la legge n.
328/2000 non attribuisce alcun obbligo di intervento) ed al conseguente
pagamento di rette anche salate da parte dei malati. Inoltre, i Sindacati non
hanno mai svolto alcuna attività significativa per promuovere la prevenzione
della cronicità e della non autosufficienza.
A Bologna, in data 5
novembre 1998 i Sindacati dei pensionati Cgil, Cisl e Uil hanno addirittura
organizzato un convegno nazionale sulla non autosufficienza. Nel documento base
mai si fa riferimento alle condizioni patologiche che causano la non
autosufficienza e alle leggi che disciplinano il diritto alle cure sanitarie.
Viene, invece, avanzata la bizzarra richiesta della «definizione giuridica della non autosufficienza» in modo che sia
chiaro «chi sono i titolari del diritto,
quali sono le procedure obiettive per la loro individuazione, quali le
prestazioni previste nell’entità e nella qualità, quali i requisiti e le
condizioni che devono sussistere per gli interventi previsti».
La suddetta richiesta è
assai stravagante in quanto la non autosufficienza può essere provocata da una
molteplicità di cause: malattie invalidanti, presenza di grave handicap
intellettivo e/o fisico, carenza dei mezzi economici sufficienti per vivere,
mancanza di una abitazione idonea, ecc. (20).
Sulla base dell’assurda
posizione secondo cui «essere anziani
cronici non è una malattia», i Sindacati dei pensionati Cgil, Cisl e Uil
hanno avviato il 15 maggio 2002 una raccolta di firme per la presentazione alla
Camera dei deputati di una petizione, il cui testo è il seguente: «Petizione popolare per la non
autosufficienza - L’impegno solidale della comunità: per realizzare un sistema
integrato di servizi socio-sanitari e di interventi economici a sostegno
delle persone anziane non autosufficienti e delle loro famiglie; per dare
continuità alla riforma della sanità (legge n. 229/1999) e sviluppare la
riforma dell’assistenza (legge n. 328/2000); per richiedere un impegno
congiunto delle Regioni e delle Autonomie locali, per valorizzare l’apporto
della famiglia, del volontariato e del terzo settore nel sostegno alle persone
anziane non autosufficienti.
«I Sindacati Confederali dei pensionati chiedono al Governo e al
Parlamento l’approvazione in tempi ra-pidi di una legge nazionale per la non
autosufficienza (…)».
Le disastrose conseguenze dell’integrazione sociosanitaria sui cittadini
più deboli ed i loro congiunti
Numerose e forti erano le
aspettative suscitate nella popolazione e nelle organizzazioni di base dalle proposte,
avanzate negli anni ’80, in merito all’integrazione sociosanitaria. Era molto
diffusa l’opinione (e, purtroppo, ancora lo è, sia pur in misura minore) che,
con la messa in comune delle attività sanitarie e socio-assistenziali, le più
importanti (tutte, per i più ottimisti) questioni sarebbero state risolte
automaticamente o quasi.
Tiziano
Vecchiato, direttore scientifico della Fondazione Zancan, sosteneva che
l’integrazione sociosanitaria doveva garantire «l’unitarietà e la globalità degli interventi, il superamento delle
prassi settoriali, l’integrazione fra competenze e servizi diversi, una maggiore
attenzione ai soggetti deboli e alla loro tutela» (21).
Secondo
Graziamaria Dente e Sabina Mantovani (22) «l’esigenza
di promuovere e favorire l’integrazione delle funzioni sanitarie con quelle
socioassistenziali di competenza degli enti locali (correlandole con i servizi
educativi, formativi, culturali e del tempo libero) è da tempo presente nel
dibattito culturale e politico. Appartiene alle indicazioni prioritarie del bilancio degli ultimi dieci anni, sia in
ambito sanitario che sociosanitario, l’esigenza di assicurare che i soggetti da
trattare e/o da tutelare siano effettivamente “presi in carico” soprattutto
quando esprimono bisogni al grado più elevato per venire accompagnati secondo
una corretta “continuità terapeutica” nel percorso di salute che la loro specificità richiede, sia attraverso apposite
procedure e strumenti generali (linee guida - protocolli di intesa) sia
attraverso specifiche strategie di intervento (progetto di struttura - progetto
e programmi individuali)».
Osservano,
inoltre, le due esponenti del Movimento di volontariato italiano che «attualmente la gestione unitaria non è
realizzata o è affidata a libere iniziative, dovute alla sensibilità e
lungimiranza di amministratori, dirigenti ed operatori (iniziative che,
però, non vengono esplicitate, n.d.r.) più
che a norme chiare e cogenti. La conseguenza è che ne risente l’efficacia dei
servizi alla persona, la quale continua ad essere considerata per parti
separate, con riferimento a singoli bisogni e non alla sua unità spirituale,
psichica, fisica e culturale».
A sua volta
Anna Banchero, dirigente della programmazione e organizzazione sociosanitaria
della Regione Liguria, aveva sostenuto (23) che il «consolidamento della componente sociosanitaria» è stato realizzato
tramite le seguenti iniziative: «Definizione
dei ruoli dei soggetti istituzionali coinvolti nel sistema di servizi alla
persona (particolarmente Comuni e Regioni); adozione di assetti organizzativi
di tipo aziendale; responsabilizzazione dei diversi livelli decisionali e
istituzionali nel corretto uso delle risorse umane e finanziarie; introduzione
dei processi valutativi, ricerca della qualità, dell’efficacia e dell’appropriatezza
delle prestazioni».
Concludeva la
Banchero: «Si può affermare che il
modello organizzativo sociosanitario è l’unico capace di rispondere in maniera
appropriata a bisogni complessi di persone con patologie che coinvolgono le
sfere dei rapporti sociali: dalle disabilità fisiche e psichiche, ai problemi
di salute mentale, ai disordini psicologici e alle dipendenze».
Numerosi sono stati i
sostenitori delle argomentazioni sopra riportate (24), anche se va precisato
che quasi sempre si è trattato di amministratori, di operatori e di soggetti
coinvolti nella gestione dei servizi (Rsa, case protette, ecc.).
L’ideologia dell’integrazione ed i diritti degli utenti
Nei citati interventi
sull’integrazione sociosanitaria è del tutto assente il principio, a nostro
avviso assolutamente prioritario e irrinunciabile, del riconoscimento effettivo
dei diritti degli utenti, nonostante che, alla luce delle esperienze concrete,
sia superata da moltissimi anni la concezione secondo cui il miglioramento
delle condizioni di vita si ottiene solamente o principalmente mediante una
diversa organizzazione delle prestazioni, l’incremento della professionalità
degli operatori o con altri strumenti tecnici.
Sul piano delle
dichiarazioni verbali, politici, amministratori e operatori non perdono
occasione per affermare che il cittadino deve essere sempre posto al centro dei
servizi sociosanitari; quando, però, si tratta di concretizzare questa
affermazione, allora i diritti degli utenti non vengono inseriti nelle leggi
nazionali e regionali, nelle delibere comunali o consortili, nei provvedimenti
delle Asl.
Invece, si fa riferimento,
come abbiamo visto, a dichiarazioni assolutamente generiche: unitarietà e
globalità degli interventi, superamento delle prassi settoriali, integrazione
fra competenze e servizi diversi, maggiore attenzione ai soggetti deboli e alla
loro tutela. Sono precisazioni che possono essere condivise, ma solo a
condizione che esse vengano tradotte in contenuti concreti e, quando si tratta
del soddisfacimento dei bisogni esistenziali fondamentali, determinino diritti
esigibili da parte dei cittadini.
Ad esempio, i concetti di
cui sopra (unitarietà, globalità, ecc.), riferiti alle cure domiciliari possono avere scarsi risvolti pratici come – purtroppo – è successo
finora in moltissime zone del nostro Paese, soprattutto perché a livello
nazionale, regionale e locale non è mai stato riconosciuto ai cittadini malati
il diritto esigibile di richiederle.
D’altra parte, è noto che i
medici di medicina generale si sono spesso opposti all’istituzione dei servizi
preposti alle cure domiciliari complesse (ad esempio l’ospedalizzazione a
domicilio) non volendo, per evidenti motivi di potere, che nel territorio
agiscano equipe ospedaliere (25). Inoltre, hanno insistito e insistono nel
rivendicare i loro ormai illogici privilegi: svolgimento della propria attività
a livello individualistico con rifiuto del lavoro di gruppo, libera scelta
dell’orario delle loro prestazioni, nessun intervento nei giorni festivi e
notevole riduzione degli stessi nei prefestivi, ecc.
Ovviamente, affinché i
cittadini interessati possano rivendicare il diritto alle prestazioni
domiciliari occorre che siano, altresì, definiti gli enti tenuti ad intervenire
ed i relativi finanziamenti (26).
La competenza degli
operatori non dovrebbe mai superare gli ambiti tecnici della loro
professionalità: le responsabilità politiche competono solamente agli
amministratori; in ogni caso dovrebbe essere riconosciuto il diritto dei
cittadini a presentare ricorsi accessibili anche sotto il profilo economico
(27).
Se si rispettassero
veramente le necessità delle persone in difficoltà e se si riconoscesse il
cittadino quale soggetto (e non oggetto) delle prestazioni, prima di affrontare
le problematiche relative all’integrazione sociosanitaria (28) dovrebbero
essere definiti i criteri di accesso ai servizi della sanità e dell’assistenza
ed i relativi diritti e doveri dei cittadini (29).
Detta precisazione è anche
utile per gli stessi operatori nei casi, sempre più frequenti mano a mano che
aumenta la speranza di vita, in cui essi da erogatori di prestazioni diventino
utenti.
Le principali conseguenze negative dell’integrazione sociosanitaria
La nostra Costituzione ha
definito in modo chiarissimo le competenze della sanità e dell’assistenza.
Infatti, mentre la parte iniziale dell’art. 32 della Costituzione stabilisce
che «la Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», il
primo comma dell’art. 38 precisa che «ogni
individuo inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha
diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».
Dunque, mentre tutti i
cittadini hanno diritto alle cure sanitarie, le prestazioni assistenziali
dovrebbero essere fornite esclusivamente ai soggetti che non sono in grado di
procurarsi il necessario per vivere autonomamente o, se minorenni, mediante il
sostegno del proprio nucleo familiare. Se il dettato costituzionale venisse
rispettato, l’integrazione sociosanitaria riguarderebbe, pertanto, solamente
una percentuale minima, di sicuro inferiore al 3% della popolazione, di
persone che deve essere aiutata per
poter vivere e, nello stesso tempo, è colpita da patologie (30).
Com’è noto la
questione è stata assurdamente “risolta” dalla legge n. 328/2000 che ha
previsto l’accesso (facoltativo) ai servizi sociali a tutti i cittadini,
sopprimendo addirittura alcuni diritti esigibili dei soggetti deboli
preesistenti all’entrata in vigore della legge di riforma dell’assistenza e dei
servizi sociali (31).
Pertanto,
attualmente gli unici riferimenti in vigore, che possono essere fatti valere
dai cittadini in difficoltà per ottenere prestazioni assistenziali, sono gli
articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 (32).
L’estensione
delle prestazioni dei servizi sociali a tutti i cittadini ha determinato e
determinerà sempre più spostamenti di risorse dai soggetti più bisognosi a
coloro che hanno già mezzi sufficienti per vivere e che, di conseguenza, hanno
reali poteri contrattuali. Tale aumento è reso possibile dalla legge n.
328/2000 in misura spropositata: passando dal 3% degli utenti al 100%,
l’incremento delle risorse occorrenti è addirittura di 30 volte e cioè del
3.000%. In secondo luogo, un obiettivo sempre più compiutamente attuato con
l’uso strumentale dell’integrazione sociosanitaria, è stato e purtroppo
continua ad essere il trasferimento dalla sanità all’assistenza dei soggetti
deboli malati, addossando spesso oneri economici anche gravosi agli interessati
e molto sovente altresì ai loro congiunti (33).
Il trasferimento dei malati
cronici non autosufficienti (anziani, soggetti colpiti dalla malattia di
Alzheimer e da altre forme di demenza senile, pazienti psichiatrici,
tossicodipendenti, alcolisti, ecc.) dalla sanità all’assistenza, motivato dalla
«maggiore attenzione ai soggetti deboli e
alla loro tutela» (34), determina l’impoverimento di una quantità notevole
di famiglie, costringe gli utenti a corrispondere le pesanti rette degli
istituti meno scadenti, obbliga i meno abbienti a vivere in strutture
fatiscenti come risulta dai rapporti dei Nas e dai numerosi episodi segnalati
su questa rivista.
Il trionfo del caos
Non soltanto è
stato ed è violato il diritto alle cure sanitarie di decine di migliaia di
persone (35), ma la situazione è degenerata in modo estremamente confuso.
Infatti,
attualmente:
1. il Servizio
sanitario nazionale fornisce gratuitamente (salvo eventuali ticket) tutte le
prestazioni, comprese quelle alberghiere, ai pazienti degenti in ospedale e in
strutture private convenzionate colpiti da malattie acute, nonché a quelli
affetti da patologie croniche ritenute meritevoli di essere curate dagli
amministratori e dai medici (malati di cancro, diabetici, cardiopatici, persone
in attesa di trapianto e trapiantati, ecc.);
2. il settore
sociosanitario è rivolto agli ultradiciottenni colpiti da malattie invalidanti
e da non autosufficienza (esclusi i soggetti cronici di cui al punto
precedente). Al riguardo si precisa che, sono definite prestazioni
sociosanitarie «tutte le attività atte a
soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute delle
persone che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di
protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la
continuità fra le azioni di cura e quelle di riabilitazione» (36). Il
settore sociosanitario è gestito dai Comuni con il pagamento da parte del
Servizio sanitario nazionale della cosiddetta quota sanitaria, il cui importo è
calcolato con propri criteri da ciascuna Regione, con la conseguenza di
differenze anche notevoli da una zona all’altra del nostro Paese. Molto ampia
è, altresì, la discrezionalità imposta agli utenti dai Comuni e dalle Asl, come
risulta evidente, ad esempio, dalle liste di attesa per l’accesso alle
Rsa-Residenze sanitarie assistenziali degli anziani cronici non autosufficienti
e dei malati di Alzheimer, oltre che dalle numerose deplorevoli situazioni di
scarico dei soggetti problematici alle loro famiglie e delle persone senza
fissa dimora abbandonate a loro stesse dalle istituzioni. I Comuni, inoltre,
impongono il versamento di contribuzioni economiche elevate (fino a 1500-2200
euro al mese) ai ricoverati e abbastanza sovente, nonostante ciò non sia
previsto dalle leggi vigenti, anche ai loro congiunti.
Gli interventi
sociosanitari comprendono (36):
a) le
prestazioni sanitarie a rilevanza sociale e cioè «le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione,
rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite»;
b) le
prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, comprendenti «tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di
supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di
emarginazione condizionanti lo stato di salute»;
c) le
prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria che sono «caratterizzate da particolare rilevanza
terapeutica e intensità della componente sanitaria e attengono prevalentemente
alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e
dipendenza da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da Hiv e
patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie
cronico-degenerative».
Tuttavia la mania di
classificazione non finisce qui. In base al decreto Amato-Turco-Veronesi del 14
febbraio 2001 (37), allo scopo di
ridurre gli oneri del Servizio sanitario nazionale e di porli a carico dei
Comuni e soprattutto degli utenti, viene operata nei riguardi degli
ultradiciottenni colpiti da malattie invalidanti una suddivisione in tre caselle:
• fase intensiva di durata
breve e prefissata da parte dei servizi, con oneri interamente a carico della
sanità;
• fase estensiva i cui
tempi (medi o prolungati) devono essere in ogni caso definiti dagli stessi
servizi; i relativi costi sono a carico in parte del Servizio sanitario
nazionale e in parte degli utenti;
• fase di lungo-assistenza
il cui decorso è indeterminato e le cui spese sono attribuite ai malati in
misura certamente superiore a quella del periodo precedente (38).
Dunque, la competenza
professionale degli operatori sanitari dovrebbe essere assurdamente estesa ai
criteri classificatori ed alla individuazione aprioristica delle esigenze
temporali delle tre nuove tipologie di cura: intensive, estensive,
lungo-assistenziali.
Inoltre, occorre
considerare che a seguito del decreto Berlusconi-Tremonti-Sirchia del 29
novembre 2001, con il pretesto dell’integrazione socio-sanitaria, una serie di
prestazioni (diagnostiche, terapeutiche, riabilitative, di recupero e
mantenimento funzionale delle abilità, di assistenza tutelare e aiuto
infermieristico domiciliare, ecc.) sono state poste a carico degli utenti e/o
dei Comuni secondo percentuali che vanno dal 30% al 60% dei costi (39).
Come se non fosse sufficiente
la caotica situazione descritta, le Asl hanno ampio spazio per individuare
espedienti che consentano l’attribuzione di oneri ai cittadini. In questo
numero, nella rubrica “Specchio nero” sono citate le prestazioni “a cavaliere”,
un altro esempio concreto delle nefaste conseguenze dell’integrazione
sociosanitaria. È evidente che la suddivisione delle prestazioni sanitarie a
rilevanza sociale, sociali a rilevanza sanitaria, sociosanitarie ad elevata
integrazione sanitaria e le tre forme di intervento (intensiva, estensiva e
lungo-assistenziale) sono un rompicapo incomprensibile per quasi tutti i
cittadini, nonché un rebus estremamente difficile da sciogliere da parte degli
operatori attenti alle esigenze curative, fra l’altro spesso mutevoli, dei cittadini
malati.
Deleterie interferenze operative
Come abbiamo visto, anche
in base ai principi costituzionali, i settori della sanità e dell’assistenza
hanno ben definite competenze da svolgere. Allo scopo, i due comparti
dispongono di personale con una specifica preparazione professionale.
Com’è ovvio, la presenza
degli stessi tecnici in due o più settori diversi, ad esempio, gli assistenti
sociali che operano nel settore socio-assistenziale e in quello della sanità
(come succede anche per i medici inseriti nel Ssn e quelli che prestano la loro
attività nel comparto dello sport) non determina di per sé la necessità
dell’integrazione funzionale dei settori interessati, ma solamente
l’opportunità di una collaborazione. Va, altresì, precisato che non è nemmeno sostenibile
l’esigenza sine qua non
dell’integrazione sociosanitaria nei casi in cui, secondo la definizione
contenuta nel decreto legislativo 229/1999, i bisogni di salute delle persone «richiedono unitariamente prestazioni
sanitarie e azioni di protezione sociale», in quanto l’indivisibilità degli
interventi può essere assicurata dall’assunzione diretta delle «azioni di protezione sociale» da parte
del Servizio sanitario nazionale.
In questo modo, si potrebbe
garantire una omogenea organizzazione e conduzione delle attività, essendo uno
solo l’organo di governo (l’Asl) senza alcuna interferenza da parte dei Comuni,
che a loro volta hanno spesso problemi di definizione delle linee operative a
causa della (inevitabile per gli enti con un limitato numero di abitanti)
gestione consortile. Inoltre, l’attività dei servizi sarebbe semplificata
dovendo essi rispondere ad un solo organismo.
Infine, fatto di estrema
importanza, sarebbero create le condizioni perché tutto il personale sanitario
assuma in proprio le valenze relazionali e cioè intrattenga validi rapporti
interpersonali con i malati ed i loro congiunti, considerando questa prassi
come parte integrante delle prestazioni curative.
Attualmente, con la
gestione integrata delle attività socio-sanitarie, viene fornito un pericoloso
alibi ai medici, agli infermieri, ai riabilitatori e agli altri addetti in
quanto essi sono di fatto sollevati da ogni responsabilità al riguardo tramite
la delega di detti compiti agli operatori sociali.
In sostanza,
l’organizzazione è impostata in modo che il personale sanitario può
comportarsi, anche per evitare conflitti con quello sociale, come se le
attività relazionali non facessero parte integrante delle prestazioni
diagnostiche, terapeutiche e riabilitative.
Inoltre, se fosse vero che
l’integrazione è il più idoneo strumento organizzativo nei casi in cui vi siano
due competenze istituzionali da svolgere in modo coeso, detto principio
dovrebbe essere applicato in tutti i campi in cui vi sono funzioni da
unificare.
Com’è noto, invece, pur
essendo «le azioni di protezione sociale»
parte essenziale dell’istruzione, della casa, dei trasporti e di altri settori,
da nessuno è mai stata proposta una modalità organizzativa come quella prevista
per il sistema sociosanitario.
Infatti, dai settori
suddetti le azioni di protezione sociale sono state assunte direttamente:
– dalla scuola, che si è
riorganizzata, anche mediante un intenso aggiornamento professionale del
personale, per l’inserimento dei soggetti con handicap nelle proprie classi normali,
ponendo fine alle discriminanti classi e scuole speciali;
– dalla casa, con la
costruzione di edifici privi di barriere architettoniche e con la destinazione
di appartamenti per soggetti deboli e per comunità alloggio;
– dai trasporti che stanno
eliminando (fase non ancora conclusa) gli ostacoli che impediscono l’accesso
alle persone con difficoltà motorie.
In sintesi, i settori
suddetti si sono ristrutturati in modo da provvedere autonomamente (non
autarchicamente) alle esigenze dei soggetti deboli. Difatti, resta
indispensabile la collaborazione dei suddetti settori con tutti gli organismi
in possesso di competenze utili per il miglioramento delle attività
scolastiche, abitative e dei mezzi di comunicazione.
Nel campo della sanità, i
politici e gli esperti (troppo spesso dalla parte delle istituzioni e non degli
utenti) hanno scelto un strada opposta a quella intrapresa con validi risultati
dalla scuola, dalla casa e dai trasporti, stabilendo di espellere dalla piena
competenza del Servizio sanitario nazionale gli ultradiciottenni colpiti da
patologie invalidanti e da non autosufficienza, con le nefaste conseguenze in
precedenza descritte.
Per alcuni tecnici la
soluzione definitiva dovrebbe consistere nel «lasciare ai Comuni le scelte fondamentali di un “progetto salute” per
le fasce deboli ed in particolare la cronicità» (40) con la conseguenza di
una separazione fra la cura dei malati acuti e dei soggetti cronici, nonché
dell’esclusione dalla piena competenza del Servizio sanitario nazionale di decine
di migliaia di persone inguaribili.
Coloro che sostengono la
posizione sopra enunciata non vogliono tener conto che «ben poche sono oggi le malattie che si possono definire rigorosamente
acute; abbiamo frequentemente degli eventi acuti nel caso di malattie croniche:
dall’ictus, all’infarto, alla riacutizzazione della bronchite, alla frattura
dell’osteoporotico, all’evento anemizzante nel neoplastico. È la nuova realtà
della patologia prevalentemente degenerativa, diversa rispetto a quella
precedente prevalentemente infiammatoria» (41).
Se si valutassero con
scienza e coscienza le condizioni di salute degli anziani cronici non
autosufficienti e dei malati di Alzheimer ricoverati presso Rsa, case protette
e strutture similari, si accerterebbe che molto numerosi sono gli episodi di
riacutizzazione e acuzie che insorgono fra i ricoverati, strumentalmente
definiti “stabilizzati” (42).
Negative sovrapposizioni istituzionali
Se si
considerano i cittadini malati cronici come soggetti (e non come semplici
oggetti o, peggio, pacchi da spostare da un settore all’altro), non si può fare
a meno di rilevare che, per rendere concretamente esigibile il loro diritto
alle cure, occorre che vi sia un solo organismo tenuto ad attuarli e non due
(Servizio sanitario nazionale e Comune).
Infatti, la
creazione di un doppio riferimento sia sul piano istituzionale che su quello
operativo e la girandola artificiale di situazioni (prestazioni sanitarie a
rilievo sociale, prestazioni sociali a rilievo sanitario, prestazioni
sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria, le fasi curative intensive,
estensive e lungoassistenziali, i casi a cavaliere, ecc.) costituiscono per gli
ultradiciottenni colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza uno
sbarramento di fatto insuperabile per sapere quali sono i diritti che possono
essere rivendicati e le relative prove da raccogliere e fornire. Spesso le
caotiche disposizioni sono, addirittura, un ostacolo all’accesso ai servizi e
all’ottenimento delle prestazioni. Inoltre, appartiene a tutti noi l’esperienza
dell’impotenza del cittadino di fronte al palleggiamento delle responsabilità
fra due istituzioni.
È questa
un’altra significativa conferma delle necessità dell’assunzione da parte del
Servizio sanitario nazionale di tutte le competenze riguardanti la cura delle
persone inferme, così com’era e in gran parte è ancora previsto dalla legge n.
833/1978.
L’attuale
attribuzione di competenze in parte alle Asl e in parte (con provvedimenti
illegittimi come vedremo in seguito) ai Comuni obbliga per forza di cose
ciascuno dei due suddetti organismi ad assumere una percentuale delle spese, la
cui attribuzione è oggetto di un inevitabile mercanteggiamento. Ad esempio,
com’è noto, i costi delle Rsa sono ripartiti in una quota sanitaria a carico delle
Asl ed in una quota alberghiera (o sociale) attribuita ai Comuni. Questi
ultimi, a loro volta, si rivalgono in misura parziale o totale sugli utenti.
La
suddivisione dei due importi varia anche in proporzioni notevoli da una zona
all’altra: fatto che contrasta evidentemente con l’uguaglianza dei
diritti-doveri dei cittadini che si trovano in situazioni identiche.
Un’altra
questione di importanza non indifferente riguarda l’ingerenza che le Asl
possono esercitare nei confronti dei Comuni e viceversa.
Ad esempio, ai
sensi della legge 328/2000, compete ai Comuni e loro Consorzi l’istituzione e
la gestione diretta o convenzionata dei centri diurni e delle comunità alloggio
per i soggetti con handicap intellettivo.
Per la
conduzione delle sopraccitate strutture, le Asl versano ai Comuni una quota
che, pure in questo caso, varia anche notevolmente da una zona all’altra.
Orbene, è successo che vi
siano Asl che abbiano comunicato all’ente gestore (Comune o Consorzio di
Comuni) di centri diurni e di comunità alloggio per soggetti con handicap
intellettivo di non disporre più delle risorse economiche per nuovi ingressi.
Di conseguenza, le ammissioni sono state bloccate e, nonostante i posti liberi,
le liste di attesa si sono allungate.
Analoga la situazione per
quanto riguarda l’accesso alle Rsa di anziani cronici non autosufficienti e di
malati di Alzheimer. In Piemonte, la relativa lista di attesa comprende ben
7.000 persone. Numerosi sono i posti disponibili, ma le Asl, anche in questo
caso asserendo di non avere i quattrini, non stipulano nuove convenzioni con i
privati. Ne consegue che, per ottenere il ricovero, occorre sborsare 2.500-3000
euro al mese. O prendere, o lasciare.
Da notare che, a
dimostrazione dell’esigenza inderogabile di moltissimi ricoveri, quasi tutti i
posti letto delle Rsa non convenzionati sono occupati, costringendo molti
congiunti di malati a contrarre debiti
o a vendere beni di loro proprietà, nonostante che la legge preveda che gli
oneri alberghieri relativi alla degenza presso le suddette strutture debbano
essere esclusivamente a carico del ricoverato.
I nefasti effetti delle
reciproche interferenze fra Asl e Comuni potrebbero essere eliminati
proficuamente per tutti, in particolare per i cittadini, assegnando al Servizio
sanitario nazionale piena competenza in materia sanitaria, come peraltro
prevede la legge n. 833/1978, ed ai Comuni la totale giurisdizione in merito
alle attività socio-assistenziali. Di conseguenza, a ciascuno dei suddetti enti
potrebbe essere attribuita la totalità dei
finanziamenti relativi ai servizi di propria competenza, evitando
l’attuale stortura per cui dette erogazioni sono assegnate per le stesse
attività in parte alle Asl ed in parte ai Comuni. Ad esempio, se ai Comuni
venisse erogato dalla Regione uno stanziamento complessivo riguardante le
comunità alloggio (o i centri diurni) per i soggetti con handicap intellettivo,
si eviterebbe che i Comuni stessi siano costretti ad intavolare trattative
spesso lunghe e defatiganti con le Asl per ottenere il versamento della
cosiddetta quota sanitaria. Si eliminerebbero, inoltre, le odierne inevitabili
e ingiustificate differenze da zona a zona dell’ammontare delle quote sanitarie
e sociali (43).
Sistematica violazione delle leggi vigenti
Come insistiamo da anni,
l’espulsione dalla piena competenza del Servizio sanitario nazionale degli
ultradiciottenni colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza, dei
pazienti psichiatrici, dei malati di Alzheimer e dei soggetti colpiti da altre
forme di demenza senile è praticata in violazione delle leggi vigenti (44).
Infatti, tale prassi è
attuata in base ai decreti 8 agosto 1985, 14 febbraio e 29 novembre 2001 che,
avendo natura amministrativa (45), non possono modificare le leggi vigenti,
leggi che assicurano a tutti i malati, senza esclusione alcuna, le cure
sanitarie gratuite e senza limiti di durata (46).
Accresciuto potere dei medici
Gli operatori
del settore assistenziale avevano fortemente appoggiato il trasferimento di
funzioni dalla sanità all’assistenza con l’intento di assicurare essi stessi
agli anziani malati cronici non autosufficienti (e chissà perché non agli
adulti colpiti da patologie acute) le prestazioni di natura relazionale e cioè
l’insieme degli interventi relativi all’umanizzazione dei rapporti fra il
personale, gli utenti, i loro congiunti e gli altri soggetti eventualmente
coinvolti o coinvolgibili (conoscenti, volontari, ecc.).
Inoltre, dal
passaggio di competenze dalla sanità all’assistenza, gli assistenti sociali si
attendevano una rivalutazione del loro ruolo e, conseguentemente, anche
maggiori riconoscimenti retributivi e di carriera.
Opposti sono
stati i risultati: i medici hanno accresciuto il loro potere (basti pensare al
loro ruolo determinante nelle Uvg-Unità valutative geriatriche) al punto che se
si sono, addirittura, attribuiti il potere, peraltro del tutto illegittimo (47)
di decidere se la responsabilità di intervenire nei confronti delle persone
autosufficienti spetta al Servizio sanitario nazionale oppure all’assistenza
e/o ai congiunti.
D’altra parte,
l’accettazione da parte degli assistenti sociali dei soggetti cacciati dalla
sanità, dimostra che la loro funzione è diventata soprattutto quella di gestori
dell’emarginazione. Si ritorna al vecchio concetto dell’assistenza come contenitore
di coloro che le istituzioni considerano “spazzatura sociale”. Si tratta, in
effetti, dei soggetti ai quali, non essendo fornite risposte adeguate alle loro
esigenze di salute, di lavoro, di abitazione, di pensioni sufficienti per
vivere, da parte dei settori a ciò preposti (sanità, lavoro, casa, previdenza,
ecc.), sono costretti a ricorrere all’assistenza.
Ripartire dalle esigenze e dai diritti
Abbiamo visto quanto e come
sia stato e sia nefasto per i cittadini più deboli l’impostazione sulla base di
principi astratti (unitarietà e globalità degli interventi, superamento delle
prassi settoriali, ecc.) dei servizi relativi alle fondamentali (e per molti
soggetti vitali) questioni della sanità e dell’assistenza e dei rapporti fra i
relativi servizi (48).
L’attuale guazzabuglio è
destinato a complicarsi ulteriormente a causa della voluta indeterminatezza
delle norme vigenti (e soprattutto delle interpretazioni di comodo) fra le
alterazioni dello stato di salute (malattie) e le minorazioni (handicap) (49)
situazione che consente alle istituzioni di orientare gli interventi ed i
relativi oneri secondo la loro convenienza e non in base alle esigenze
dell’utenza, in particolare di quella debole.
Prima che il “mostro”
determini conseguenze ancora peggiori, bisogna cambiare radicalmente metodo:
occorre ripartire dalle esigenze delle persone in difficoltà, impegnando i
settori di competenza (sanità, casa, lavoro, previdenza, ecc.) affinché
forniscano le necessarie prestazioni
(prevenzione e cura delle malattie, assegnazione alloggi, interventi nei
confronti dei disoccupati e dei sottoccupati, pensioni adeguate, ecc.), senza
scaricare le relative incombenze all’assistenza e ai servizi sociali.
Rispettare le leggi
Inoltre, è assolutamente
necessario che le istituzioni (Governo, Ministeri, Regioni, Comuni, Asl, ecc.)
rispettino le leggi vigenti anche nei confronti delle persone incapaci di
autodifendersi e assumano provvedimenti concreti per evitare ogni forma di
emarginazione e di esclusione sociale.
È inammissibile che le
disposizioni vigenti, ad esempio quelle sanitarie, che assicurano le cure a
tutti i malati siano essi acuti o cronici,
giovani o adulti o anziani, autosufficienti o non autosufficienti,
guaribili o inguaribili, siano violate nei confronti dei più deboli (50).
In sostanza, occorre
riaffermare il principio, che dovrebbe essere assolutamente ovvio per tutti
coloro che sostengono l’universalità del nostro Servizio sanitario nazionale
(51) della necessità di garantire le cure sanitarie a tutti i malati senza
eccezione alcuna e senza discriminazioni. L’unica differenza potrebbe
consistere nella richiesta di una contribuzione economica a carico dei redditi
pensionistici dei soggetti non autosufficienti.
Ovviamente, i vari settori
di intervento sociale (e non solo la sanità, e l’assistenza) dovrebbero
collaborare nei casi in cui le esigenze del cittadino in difficoltà lo esigono.
Va, tuttavia, evitata la
burocratizzazione dell’integrazione fra i servizi. Ad esempio il progetto
“Torino domiciliarità”, concernente l’integrazione delle cure sanitarie e
sociali, prevede una mega struttura organizzativa (un osservatorio cittadino e
quattro centrali operative) molto costosa che potrebbe essere sostituita,
soprattutto con l’assunzione della piena competenza del Servizio sanitario
nazionale, da un sistema più semplice e funzionale, anche per il minor numero
di dirigenti necessari. Inoltre, è necessario intervenire con la massima
urgenza affinché tutto il personale della sanità (medici, infermieri,
riabilitatori, assistenti sociali, psicologi, operatori, tecnici e
amministrativi, ecc.) assuma direttamente le valenze sociali, relazionali ed
umanizzanti in modo che le prestazioni siano sempre rivolte alla globalità
della persona e non solo agli organi malati: l’unificazione è la nostra
proposta alternativa rispetto all’integrazione.
Un cambiamento deciso di
rotta dovrebbe riguardare i contenuti dei provvedimenti (leggi, delibere,
circolari, ecc.), ponendo fine alle vaghe e spesso truffaldine enunciazioni
teorico-astratte. L’aspetto qualificante delle disposizioni nazionali,
regionali e locali dovrebbe consistere, ogni volta che ciò sia operativamente
possibile, nel riconoscimento di diritti esigibili da parte dell’utenza.
Diritto alle cure sanitarie
domiciliari
Al riguardo, una attenzione
particolare dovrebbe esser rivolta alla concretizzazione della priorità delle
cure sanitarie domiciliari (52). A livello nazionale, o in via subordinata
regionale o locale, dovrebbero essere assunti provvedimenti del seguente
tenore: «Hanno diritto alle cure
sanitarie domiciliari le persone giovani, adulte o anziane, colpite da malattie
acute o croniche, autosufficienti o non autosufficienti (53) nei casi in cui siano contemporaneamente
soddisfatte le seguenti condizioni:
a) non vi siano controindicazioni cliniche o di altra natura;
b) il malato sia consenziente e riceva dalle Aziende sanitarie
locali o ospedaliere le necessarie cure mediche, infermieristiche e, se del
caso, riabilitative;
c) i congiunti o altri soggetti siano disponibili ad assicurare
l’occorrente sostegno domiciliare e vengano riconosciuti idonei;
d) siano previsti gli interventi di emergenza (morte o grave malattia o
altro impedimento dei soggetti di cui
alla lettera c);
e) le persone di cui alla lettera c) siano adeguatamente supportate
dalle Asl, se del caso anche sotto il profilo economico;
f) i costi del Servizio sanitario nazionale non siano superiori a
quelli di sua spettanza nel caso di ricovero».
Ovviamente, potrebbero
essere assunte le iniziative indispensabili per l’attuazione graduale delle
cure sanitarie domiciliari.
L’accesso ai servizi
Partendo dal principio –
per noi irrinunciabile – della centralità del cittadino in difficoltà, dovrebbe
esser regolamentato anche l’accesso ai servizi socio-assistenziali, stabilendo,
in tutti i casi in cui ciò sia possibile, diritti concretamente esigibili. Al
riguardo, considerata la nota debolezza contrattuale dei soggetti in situazione
di bisogno, il Csa ha segnalato al Comune di Torino l’esigenza che la
regolamentazione dell’accesso ai servizi socio-assistenziali venga disciplinata
mediante una delibera che preveda quanto segue:
a) la richiesta degli interventi deve sempre essere fatta per iscritto
dal soggetto interessato e, nei casi di sua impossibilità, dal tutore o dai
familiari o da un’organizzazione di volontariato;
b) qualora la richiesta non possa, per qualsiasi motivo, essere
presentata per iscritto, l’operatore che la riceve verbalmente o
telefonicamente è tenuto a compilare immediatamente un modulo (da predisporre a
cura degli uffici centrali dell’Assessorato ai servizi socio-assistenziali)
contenente tutte le informazioni necessarie per la presa in carico del o delle
persone interessate;
c) copia di detto modulo dovrebbe essere trasmessa, entro le 24 ore lavorative
successive, al richiedente;
d) la definizione dei tempi massimi entro i quali il servizio deve
comunicare per iscritto all’interessato l’esito della sua richiesta;
e) le modalità di presentazione dei ricorsi da parte dei soggetti
interessati che non sono soddisfatti in merito alle prestazioni ipotizzate o
fornite, con l’indicazione della persona (o commissione) incaricata
dell’espletamento dei ricorsi stessi,
nonché la precisazione del tempo massimo entro il quale la decisione deve
essere comunicata all’interessato;
f) il ruolo delle organizzazioni di volontariato in merito alle
questioni di cui sopra.
Il coadiutore
Altra iniziativa utile per
i soggetti in difficoltà, idonea anche a sviluppare la domiciliarità a favore
di soggetti ultradiciottenni non pienamente autosufficienti e privi di adeguato
sostegno familiare, è il riconoscimento e la promozione da parte delle Asl e
dei Comuni di una nuova figura non
professionale: il coadiutore.
L’attività dei coadiutori
dovrebbe essere rivolta a sostenere, mediante le possibili forme di
“accompagnamento”, i soggetti sopra indicati. Detta azione di sostegno dovrebbe
essere effettuata con continuità sia a domicilio, sia presso le strutture in
cui il soggetto è ricoverato ed essere finalizzata a consentire al soggetto
stesso di assumere autonomamente tutte le decisioni ed iniziative occorrenti
per condurre un’esistenza accettabile.
Il compito del coadiutore
non è quello di sostituirsi alla persona in difficoltà, ma quello di presentare
ai suddetti soggetti tutte le possibili soluzioni perché la decisione assunta
sia consapevole. Il ruolo del coadiutore è, in sostanza, quello di consigliere
(54). Il coadiutore, salvo sua diversa decisione condivisa dal soggetto
interessato, non dovrebbe svolgere alcuna attività di aiuto domestico (pulizia
alloggio, preparazione dei pasti, ecc.), né assumere alcuna responsabilità in
merito all’amministrazione di risorse economiche.
Il riconoscimento della
figura del coadiutore da parte delle Asl e dei Comuni dovrebbe comportare un loro
impegno per la selezione e
preparazione, nonché per il controllo del suo operato. Ai coadiutori dovrebbe
essere concesso un rimborso spese forfettario, il cui importo dovrebbe essere
determinato in base ai compiti assegnati.
L’attività del coadiutore dovrebbe
essere svolta o nell’ambito del volontariato civico (si veda al riguardo la
delibera del Comune di Torino del 10 marzo 1997) oppure come una delle funzioni
esercitate da organizzazioni di volontariato. In ogni caso, occorrerebbe che,
per ciascun soggetto non pienamente autosufficiente, fosse individuato, salvo
casi particolari, un solo coadiutore
essendo estremamente importanti i rapporti interpersonali che si stabiliscono.
Per i soggetti totalmente
non autosufficienti (malati di Alzheimer, persone colpite nella sfera
intellettiva, ecc.) diverso dovrebbe essere il ruolo del coadiutore, termine da
noi preferito a quello di “caregiver” fra l’altro con un significato del tutto
oscuro per la stragrande maggioranza dei
cittadini. Infatti, in questi casi, il coadiutore deve interpretare le
esigenze dell’utente, fermo restando il suo dovere di attuare le prescrizioni
impartite dal tutore. Ovviamente, anche a questi coadiutori dovrebbe esser
riconosciuto dalle Asl il loro ruolo e, quindi, dovrebbe essere loro versato un
rimborso spese forfettario.
Conclusioni
Per quanto riguarda i
servizi socio-assistenziali, riteniamo umanamente e socialmente corretta la
nostra posizione consistente nel riconoscimento di diritti esigibili solo alle
persone bisognose. D’altra parte l’art. 22 della legge n. 328/2000 stabilisce
che ai soggetti di cui sopra va riconosciuta la priorità degli interventi.
Nella relazione sul
bilancio dello Stato presentata nel 1969 (non nel 1869!), il Ministero
dell’interno scriveva che «l’assistenza
pubblica ai bisognosi racchiude in sé un rilevante interesse generale, in
quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere il tessuto
sociale da elementi passivi e parassitari».
Non vogliamo che l’attuale
impostazione dell’integrazione sociosanitaria continui ad essere l’espediente
per emarginare i più deboli (non più definiti apertamente elementi passivi e
parassitari, ma in concreto considerati tali) con il pretesto della carenza di
mezzi economici.
Per non fornire ai soggetti
deboli le prestazioni occorrenti per vivere, da secoli, viene usato il pretesto
della mancanza di mezzi economici. I nazisti, addirittura, lo utilizzarono per
sterminarli (55).
Ovviamente, occorre tenere
in attenta considerazione i costi. Tuttavia, non si può essere così ingenui da
credere che se le occorrenti prestazioni sono assicurate dal Servizio sanitario
nazionale, esse sono più onerose rispetto agli stessi interventi forniti dal
settore assistenziale o dal comparto sociosanitario. Com’è evidente, le spese
sono certamente inferiori quando i servizi sono più scadenti.
Non vogliamo certo la luna.
Chiediamo che siano rispettate le esigenze fondamentali di vita dei più deboli,
tenendo anche conto della reale possibilità che potremmo farne parte noi stessi
a seguito di malattie invalidanti o di altri fatti imprevedibili.
(1) Cfr.
“Modello tedesco per la salute italiana”, La
Stampa, 11 luglio 2002.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. La Repubblica del 13 agosto 2002.
(4) Cfr. Avvenire del 13 agosto 2002.
(5) Con la legge
30 ottobre 1953, n. 841, le cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere, erano
state estese ai pensionati statali, inclusi quelli colpiti da malattie
croniche.
(6) Cfr. F.
Santanera, “Sancito dalla legge 4 agosto 1955, n. 692, il diritto degli anziani
cronici non autosufficienti alle cure sanitarie, comprese quelle ospedaliere”, Prospettive assistenziali, n. 73, 1986.
(7) Cfr. “La
spesa sanitaria in Italia è tra le più basse d’Europa”, Ibidem, n. 127, 1999. Segnaliamo, altresì, che, secondo i dati
forniti da Irene Mathis, presidente dell’Associazione medici cattolici,
l’Italia continua ad investire nella sanità somme notevolmente inferiori
rispetto agli altri Paesi. Difatti, riserviamo al Servizio sanitario nazionale
il 5,6% del Pil, mentre la Svezia è al 7% (25% in più di noi), la Norvegia
impegna il 7,1% (+ 26,8%), la Francia il 7,2 (+28,6%), la Svizzera il 7,7
(+37,5%), il Belgio e la Germania il 7,9 (+41,1%).
(8) Come abbiamo
precisato più volte, se mancano le risorse per garantire le cure gratuite,
occorrerebbe, se non si scelgono criteri più equi, che il Parlamento approvasse
una legge per obbligare gli anziani cronici non autosufficienti a versare al
Servizio sanitario nazionale una parte dei loro redditi pensionistici. A nostro
avviso la quota giornaliera non dovrebbe superare i 26 euro.
(9) Cfr.
“L’eutanasia da abbandono: lettera aperta al Ministro della sanità, On. Rosy
Bindi”, Prospettive assistenziali, n.
124, 1998.
(10) Nel verbale
era anche precisato quanto segue: «Si
conferma che la Rsa è una struttura del
Servizio sanitario nazionale».
(11) In seguito,
la denominazione “casa protetta” è stata cambiata, lasciando immutati gli scopi
ed i contenuti, in “residenza sanitaria assistenziale”.
(12) Cfr.
l’editoriale del n. 58, 1982 di Prospettive
assistenziali, “Riforma dell’assistenza, Ipab, modifiche alla legge n. 180,
case protette: come segregare i più deboli”.
(13) Nell’editoriale del n.
48, 1979 di Prospettive assistenziali
avevamo denunciato, purtroppo inutilmente, che “a causa della caduta della partecipazione e del cambiamento di
posizione dei partiti di sinistra, si sta procedendo, partendo dalle Regioni
economicamente più sviluppate, ad una inaccettabile riorganizzazione del
settore assistenziale, mediante il graduale cambiamento dell’utenza degli
istituti di ricovero. Si passa dagli anziani autosufficienti ai cronici, dai
minori normali agli handicappati psichici gravi, dai disadattati alle persone
con profondi disturbi psichiatrici”. Inoltre, avevamo precisato che, per
quanto riguardava i nuovi utenti dell’assistenza “si tratta di persone che non hanno alcuna possibilità di protestare”
anche nella speranza, del tutto delusa, che qualche organizzazione sociale
intervenisse per contrastare la prevista emarginazione di massa. Inoltre, nel
n. 54, 1981 della stessa pubblicazione, avevamo denunciato che la nuova
impostazione individuava «l’assistenza
come il settore nel quale scaricare tutti coloro che sono rifiutati dalla
sanità: gli anziani cronici, gli handicappati non inseribili nel lavoro, le
persone con disturbi psichiatrici, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i
disadattati in genere non in fase acuta», puntualizzando che «alla sanità non si attribuisce il compito
di curare e riabilitare finché si è malati o non autonomi a causa della
mancanza di salute, ma ad essa si attribuisce la facoltà, del tutto
discrezionale di dichiararsi incompetente ad intervenire con la semplice
affermazione che la fase acuta è terminata». Concludevamo precisando che «stando così le cose, il settore sanitario
non ha convenienza, in termini politici, economici ed operativi, a curare ed a
riabilitare. Ha invece l’interesse, anche per quanto riguarda il carico di
lavoro dei medici, degli infermieri e degli inservienti, a scaricare
nell’assistenza gli utenti difficili». Quanto avevamo evidenziato venti
anni fa è stato purtroppo attuato. Inoltre
il decreto legislativo 112/1998 e la legge n. 328/2000 hanno appesantito
notevolmente la già preoccupante situazione.
(14) Cfr. la
rivista dell’Anpas “Nuovo Mondo”, n.
4, 2000.
(15) Cfr. “Dal
diritto alle cure sanitarie gratuite alla beneficenza a pagamento: queste le
nuove ciniche norme riguardanti gli ultradiciottenni con patologie
cronico-degenerative e non autosufficienti”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
(16) Come
abbiamo già segnalato, a seguito della legge n. 692/1955, il fondo per
l’adeguamento delle pensioni e per l’assistenza di malattia ai pensionati era
stato elevato al 9,20% della retribuzione, di cui il 6,15% a carico dei datori
di lavoro ed il 3,05% a carico dei lavoratori.
(17) Cfr. “Cgil,
Cisl e Uil negano lo stato di malattia degli anziani cronici non
autosufficienti”, Prospettive
assistenziali, n. 119, 1997.
(18) Nella
sentenza 10150/1996, la Corte Suprema di Cassazione, dopo aver analizzato il
Dpcm 8 agosto 1985, ha rilevato che la legislazione vigente «prende in considerazione l’attività di cura
indipendentemente dal tipo di malattia (acuta o cronica) alla quale è diretta»,
aggiungendo che se il Dpcm in oggetto «aveva
introdotto tale differenza (fra malattia acuta e cronica, n.d.r.) sarebbe certamente contra legem e come tale
disapplicabile dal giudice ordinario» .
(19) Il Dpcm è
stato invece considerato positivo da alcuni operatori del settore
socio-assistenziale. Ad esempio, A. Banchero nell’articolo “I livelli di
governo nell’integrazione socio-sanitaria”,
Politiche sociali, n. 1, 1999, sostiene che «il Dpcm ha avuto il compito di offrire alle Regioni, agli enti locali e
alle Asl indirizzi omogenei su tutto il territorio nazionale per l’applicazione
dei principi che individuano le prestazioni a carico della sanità e quelle
proprie del compito assistenziale».
(20) La
questione delle varie cause e forme della non autosufficienza era stata
affrontata in modo approfondito nel
primo convegno nazionale delle Autonomie locali e Servizi sociali “L’anziano
non autosufficiente: problemi e prospettive” svoltosi ad Aosta il 23, 24 e 25
ottobre 1986.
(21) Cfr.
Tiziano Vecchiato, “L’integrazione sociosanitaria: dal piano sanitario
nazionale 1998-2000 alla riforma ter”, Politiche
sociali, n. 3/4, 1999.
(22) Cfr.
Graziamaria Dente e Sabina Mantovani, “L’integrazione sociosanitaria: spunti di
riflessione”, Fogli di informazione e di
coordinamento del Movi, n. 5/6, 1999.
(23) Cfr. Anna
Banchero, “I livelli di governo nell’integrazione sociosanitaria”, Politiche sociali, n. 1, 1999.
(24) Citiamo, in
particolare, gli articoli di: Fosco Foglietta, “Le ragioni dell’integrazione
per superare la crisi dei servizi sociali”,
Prospettive sociali e sanitarie, n. 4, 1997; Emanuele Ranci Ortigosa,
“Servizi sociali e sanitari: quale integrazione?”, Ibidem n. 9, 1998; Luca De Gianni, “Lo stato della normativa
legislativa e programmatoria in materia di integrazione sociosanitaria”, Nuova Proposta, n. 5/6, 1999; Donatella
Bramanti e Giovanna Rossi, “Dall’integrazione tra il sociale e il sanitario
alla messa in rete dei servizi. Miraggio o realtà per il sistema salute”, Forum, n. 3/2001. Si vedano, altresì,
gli interventi inseriti nel n. 1, aprile 2002 della rivista di Federsanità Anci
Piemonte, Integrazione sociosanitaria.
(25) Finalmente,
dopo anni di continue pressioni da parte soprattutto del Csa, la Giunta della
Regione Piemonte, con la delibera del 7 maggio 2002 n. 41-5952 “Linee guida per l’attivazione del servizio di cure
domiciliari nelle Aziende sanitarie
locali della Regione Piemonte”, ha finalmente riconosciuto che, accanto
a prestazioni domiciliari relativamente semplici che possono essere
adeguatamente svolte dal singolo medico di base, ne esistono altre estremamente
complesse che esigono l’intervento di un’équipe composta da medici di medicina
generale oppure ospedalieri. In ogni caso è di fondamentale importanza anche
l’intervento degli infermieri.
(26) Nei casi di
limitate risorse economiche dovrebbero essere stabilite le priorità.
(27) Ad esempio,
in materia di sanità i cittadini possono contestare le dimissioni ospedaliere
(art. 41 della legge n. 132/1968), nonché presentare osservazioni e opposizioni
ai sensi dell’art. 4 della legge n. 595/1985 e dell’art. 14 del decreto
legislativo 502/1992.
(28) Analoghe
considerazioni valgono, ad esempio, per i piani di zona. Non si riesce a capire
la loro importanza reale se, com’è finora successo, essi non sono fondati su
diritti azionabili da parte dei cittadini e su obblighi effettivi degli enti
pubblici. Al riguardo si veda l’articolo “I diritti dei cittadini in difficoltà
e il miraggio dei piani di zona”, Prospettive
assistenziali n. 137, 2000.
(29) La
definizione dei criteri di accesso ai servizi è un principio di estrema
importanza per tutti i settori di intervento sociale.
(30) Cfr. il
capitolo “Numero limitato di persone da assistere”, in M.G. Breda, D. Micucci e
F. Santanera, “La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - Analisi della
legge n. 328/2000 e proposte attuative”,
Utet Libreria, Torino, 2001.
(31) Cfr.
l’articolo “Anche l’esperta dell’ex Ministro Livia Turco riconosce che nella
legge n. 328/2000 non ci sono diritti esigibili, anzi”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
(32) Cfr. M.
Dogliotti, “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà…
‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere assistiti dai
Comuni”, Ibidem, n. 135, 2001 e
“L’assistenza alle persone in difficoltà e il ‘Dopo di noi’ devono essere
garantiti dai Comuni in base alle leggi vigenti”, Ibidem, n. 136, 2001.
(33) Non
possiamo non ricordare nuovamente quanto è stato scritto nell’ottobre 2000 nel
documento “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali” predisposto dalla Presidenza del Consiglio di
Ministri, Ufficio del Ministero per la solidarietà sociale: «Nel corso del 1999, 2 milioni di famiglie
italiane sono scese sotto la soglia della povertà a fronte del carico di spese
sostenute per la ‘cura’ di un componente affetto da una malattia cronica».
(34)
L’affermazione è di Tiziano Vecchiato. Cfr. la nota 21.
(35) Il Csa -
Comitato per la difesa dei diritti degli assistiti continua a fornire la
consulenza necessaria per l’opposizione alle dimissioni da ospedali e da case
di cura private convenzionate dei soggetti colpiti da malattie invalidanti e da
non autosufficienza. L’opposizione ha sempre esito positivo.
(36) Cfr. l’articolo 3
septies del decreto legislativo 502/1992, modificato dal decreto legislativo
229/1999.
(37) Cfr. “Dal diritto
alle cure sanitarie gratuite alla beneficenza a pagamento: queste le nuove
ciniche norme riguardanti gli ultradiciottenni con patologie
cronico-degenerative e non autosufficienti”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
(38) È molto
significativo il fatto che dopo secoli di utilizzo della parola
“lungo-degenza”, attualmente sia stato introdotto il termine
“lungo-assistenza”.
(39) Cfr. Mauro
Perino, “I livelli essenziali di assistenza: riduzione della spesa sanitaria e
nuova emarginazione”, Prospettive
assistenziali, n. 137, 2002 e “Enti pubblici e gruppi di volontariato
contro il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sui livelli
essenziali di assistenza”, Ibidem, n.
138, 2002.
(40) Cfr. Anna
Banchero, “Quali certezze per una politica della salute agli anziani?”, in
Cristiano Gori (a cura di), “Le politiche per
gli anziani non autosufficienti - Analisi e proposte”, Franco Angeli, Milano, 2001.
(41) Cfr.
Fabrizio Fabris e Ermanno Ferrario, “Cronici: comparto sanitario o
assistenziale?”, Prospettive
assistenziali, n. 81, 1988. I due Autori sostengono giustamente che «l’intervento sanitario, quando corretto e
tempestivo non genera cronicità, ma la contrasta. Appare pretestuosa la
contrapposizione tra il compartimento assistenziale e quello sanitario: il
secondo viene accusato dal primo di occuparsi poco e male del cronico. Quando
ciò avviene, e non infrequentemente purtroppo, è perché si fa una cattiva
medicina; il rimedio non è certamente quello di attribuire le competenze di
cura del cronico al compartimento assistenziale, ma di rimuovere e migliorare
la qualità dell’intervento sanitario. Questa operazione culturale passa
attraverso una formazione del personale medico e non medico adeguata alla nuova
realtà, facilitando anche gli scambi professionali tra l’ospedale e le attuali
strutture per cronici».
(42) Ricordiamo
che nell’intervista rilasciata dalla dott.ssa Nicoletta Aimonino del gruppo
medico dell’Istituto di riposo per la vecchiaia, gestito direttamente dal
Comune di Torino, risultava che: «il 96%
degli anziani ricoverati presso l’Irv è non autosufficiente per ragioni
mediche; il 60% è affetto da più di tre patologie importanti sul piano
clinico-terapeutico, gli altri hanno più di quattro patologie. Attualmente
circa il 30% degli ospiti è in trattamento per gravi patologie acute (infarto
miocardio acuto, ictus cerebrale, broncopolmonite, scompenso cardiaco acuto,
grave anemia, arteriopatia obliterante arti inferiori, ecc.). Il 40% degli
ospiti ha necessità di terapia iniettiva, il 30% di terapia per via endovenosa,
il 28% ha necessità di medicazioni quotidiane. Si ribadisce pertanto che gli
anziani ricoverati presso l’Irv sono affetti da patologie molto complesse che
richiedono un costante impegno di diagnosi e terapia oltre che di assistenza
infermieristica adeguata e qualificata. La tipologia degli ospiti, il loro
precario equilibrio psico-fisico, il facile sovrapporsi di complicanze e/o il
riacutizzarsi di pregressi eventi morbosi richiedono infatti interventi spesso
immediati ed intensivi».
(43) Dopo una
lunga e complessa trattativa il Comune di Torino, solo nel 2002, è riuscito ad
incassare le quote sanitarie degli anni 1997, 1998 e 1999 relative ai centri
diurni e alle comunità alloggio. Le Asl non hanno ancora erogato al Comune di
Torino le somme concernenti gli anni 2000 e 2001.
(44) Nelle Rsa
piemontesi convenzionate con le Asl, la quota alberghiera varia da 800 a 1300
euro mensili.
(45) Coloro che
seguono le procedure indicate dal Csa - Comitato per la difesa dei diritti
degli assistiti, ottengono sempre la prosecuzione delle cure da parte del
Servizio sanitario nazionale mediante la degenza gratuita e senza limiti di
durata presso strutture sanitarie.
(46) Si veda, al
riguardo, la sentenza della Corte Suprema di Cassazione n.10150/1996, già
citata alla nota 18.
(47) In base
alle leggi in vigore, i medici hanno compiti in materia di diagnosi e cura; ad
essi (come a qualsiasi altro operatore) non spettano le decisioni circa il
trasferimento di soggetti malati cronici dalla sanità all’assistenza.
(48) Ci
riserviamo di prendere in esame in un prossimo articolo le posizioni assunte da
alcuni esperti a favore della istituzione di un fondo per i soggetti non
autosufficienti. Nelle linee esposte, ad esempio sulla rivista dell’Inca-Cgil, L’assistenza sociale n. 4, 2001 e nel
volume già citato curato da Cristiano Gori, non viene mai fatto riferimento
alcuno - il che è gravissimo da parte di autori che si presentano come tecnici
del settore - alle leggi vigenti in materia sanitaria che, lo ripetiamo ancora
una volta, assicurano cure gratuite e senza limiti di durata anche ai soggetti
colpiti da malattie invalidanti e da non autosufficienza.
(49) Cfr. M.G.
Breda e F. Santanera, “Handicap e malattia: i nuovi orientamenti dell’Oms”, Prospettive assistenziali, n. 138, 2002.
(50) Analoghe
considerazioni valgono per le contribuzioni economiche che continuano ad essere
imposte, in violazione delle norme in vigore, ai congiunti dei soggetti
maggiorenni con handicap grave e degli ultrasessantacinquenni non
autosufficienti.
(51) Il manifesto
dell’Ulivo sulla sanità afferma questo
principio, ma poi discrimina i soggetti malati non autosufficienti.
(52) Continuiamo
a ritenere che le prestazioni di aiuto domestico debbano essere fornite
solamente alle persone ed ai nuclei familiari privi di sufficienti mezzi
economici, fino a quando non vi saranno le risorse economiche sufficienti per
estenderle ad altri soggetti.
(53) Le
specificazioni sopra riportate sono indispensabili per evitare discriminazioni.
Ad esempio, sarebbe una inammissibile e ingiustificata disparità di trattamento
prevedere, salvo che per eventuali brevi periodi di sperimentazione, le cure
domiciliari per gli anziani e non per i giovani e gli adulti aventi identiche patologie, o viceversa.
(54) Ai
coadiutori potrebbero essere assegnati anche i compiti previsti per i “tutor”.
Cfr. “Tre appunti per l’Assessore al sistema educativo e formativo del Comune
di Torino”, Handicap & Scuola, n.104,
2002.
(55) Cfr. “La
mancanza di mezzi economici: un pretesto usato dai nazisti per sterminare i
malati psichiatrici”, Prospettive
assistenziali, n. 128, 1999.
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