Prospettive
assistenziali, n. 139, luglio-settembre 2002
NUOVO CONCETTO DI FILIAZIONE E
DIRITTO AL RIPOSO GIORNALIERO RETRIBUITO DELLE MADRI ADOTTIVE: UNA SENTENZA
INNOVATIVA
Riportiamo la
sentenza pronunciata il 4 giugno 2002 dal Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, Amedeo Santosuosso,
sottolineandone l’importanza per quanto concerne il riconoscimento che, in base
alle leggi sull’adozione, in particolare la
n. 431 del 1967 «la filiazione
sia attualmente non tanto un fatto biologico riconosciuto dal diritto» in quanto «per l’ordinamento italiano il
criterio fondamentale per dirimere le
questioni relative ai diritti e agli
interessi dei nati non pare, quindi, che possa essere altro che quello della
esistenza di una comunità di affetti e
della esistenza di genitori che si
assumano i doveri di mantenimento, di educazione e di istruzione previsti dalla Costituzione e ribaditi dalla
consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale».
TESTO
DELLA SENTENZA
Il dottor Amedeo Santosuosso, in funzione di giudice
del lavoro, ha pronunciato la seguente sentenza nella causa n. 1325/2001
promossa da I. E. col proc. avv. Bottini contro Poste italiane spa col proc.
avv. G. Pollio e contro Inps col proc. avv. R.M. Cama.
Svolgimento del processo e motivi della
decisione
Con ricorso al Tribunale di Milano, in funzione di
giudice del lavoro, I. E. chiedeva che fosse accertato il suo diritto a
usufruire dei periodi di riposo giornaliero retribuiti di cui agli art. 10
della legge n.1204/1971 e art. 3, comma 5°, della legge n. 53/2000, nel periodo
compreso tra il 25/9/2000 e il 19/6/2001. Chiedeva inoltre la condanna di Poste
italiane spa a consentirle l’utilizzo di tali permessi nella misura di quattro ore giornaliere fino
al 19 giugno 2001 e a corrispondere la relativa retribuzione. Con vittoria di
spese. Si costituiva ritualmente in giudizio l’Inps chiedendo il rigetto del
ricorso.
Il giudizio in questione è stato preceduto da una fase
cautelare, nella quale il giudice designato ha rigettato il ricorso, mentre il
Tribunale, in sede di reclamo, ha accolto l’istanza della ricorrente, ritenendo
che «il richiamo al primo anno di vita
del bambino, previsto legislativamente in caso di filiazione biologica, non può
che tradursi, nel caso di adozione, in un richiamo al primo anno successivo
all’ingresso in famiglia, che inizia la relazione parentale analogamente a
quanto avviene con la nascita per il figlio biologico».
La presente controversia riguarda l’estensione ai
genitori adottivi dell’istituto dei riposi giornalieri (una volta noti come permessi di allattamento) a suo tempo
introdotti dall’art. 10 della legge 1204/1971 e l’ambito temporale della loro
fruizione.
Al ricorrente, madre adottiva di due bambini di 6 e 4
anni, è stato negato il diritto a tali riposi sul presupposto che la nuova
legge sui congedi parentali (legge 53/2000) avesse esteso l’istituto ai
genitori adottivi, ma solo «entro il
primo anno di vita del bambino». Il
Tribunale, in sede di reclamo, ha, come si è visto sopra, accolto l’istanza
della ricorrente, ricorrendo a un’interpretazione delle norme in esame secondo
la quale, nel caso di adozione, il termine temporale di riferimento deve essere
inteso come primo anno successivo all’ingresso in famiglia, ritenendo che tale momento costituisca l’inizio della
relazione parentale «analogamente a
quanto avviene con la nascita per il figlio biologico».
Tre mesi dopo la decisione del Tribunale del reclamo,
e successivamente quindi anche all’instaurazione del presente giudizio
(depositato il 23 febbraio 2001), è stato emanato, in adempimento a quanto
previsto dall’art. 15 della legge n.
53/2000, il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e
sostegno della maternità e della paternità (decreto legislativo 26 marzo 2001,
pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 26 aprile 2001 ed entrato in vigore il giorno successivo). L’art. 45 del testo
unico limita espressamente l’estensione delle disposizioni in materia di riposi
giornalieri, nei casi di adozione e di affidamento «entro il primo anno di vita del bambino».
La questione che si pone nel presente giudizio è,
pertanto, la seguente:
• per il periodo precedente la norma del testo unico,
la ricorrente ha fruito dei permessi in forza
della decisione del Tribunale del reclamo, emanata nella vigenza di un
sistema giuridico che consentiva (in quanto non escludeva esplicitamente)
l’interpretazione data da quel collegio
(e condivisa da questo giudice);
• per il periodo successivo, vigente la nuova norma che esplicitamente limita il diritto al
primo anno di vita del bambino, la ricorrente ha fruito di premessi (l’anno
dell’ingresso in famiglia è scaduto il 19 giugno 2000).
Il problema è quindi se il diritto sia ancora
riconoscibile nei termini adottati dal Tribunale del reclamo oppure se una pronuncia
del genere sia preclusa, con conseguente esposizione della ricorrente al
rischio di dovere restituire la retribuzione percepita. Proprio per questa
ultima eventualità la difesa della ricorrente ha eccepito la questione di
costituzionalità dell’art. 45 del testo unico a causa della grave disparità di
trattamento tra figli adottivi o in affido e figli naturali che esso determina.
Il che si pone in contrasto con varie norme costituzionali, e in particolare l’art. 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono
uguali davanti alla legge…»), l’art. 30 (che stabilisce che «nei
casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro
compiti»),l’art.31 («La Repubblica
agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia […]
protegge la maternità, l’infanzia e la
gioventù…») e l’art.37, primo comma, il quale stabilisce che le condizioni
di lavoro della madre devono consentire «l’adempimento
della sua essenziale funzione familiare
e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».
Inoltre il diniego opposto ai figli adottivi o affidati di avere, al pari dei
figli biologici, lo stesso diritto alle cure familiari sin dal momento dell’ingresso in famiglia,
di fatto incide gravemente sullo sviluppo della personalità del bambino
adottivo o in affido, con ciò configurandosi anche una violazione, da parte
della legge in esame, dell’art. 32 della Costituzione («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo
e interessa della collettività…»).
Il giudice, esaminata la questione di costituzionalità
(anche sulla base di note autorizzate), ha comunque fissato l’udienza di
discussione e, all’esito della stessa, ha pronunciato sentenza del cui
dispositivo ha dato lettura pubblicamente.
A) Il quadro
normativo
È utile, ai fini della decisione, una rapida
ricostruzione dell’evoluzione normativa in tema di parificazione tra nascita e
adozione, con specifico riferimento ai principi affermati dalle sentenze della
Corte costituzionale in materia.
1) La legge 30.12.1971 n. 1204
La legge 30.12.1971 n. 1204 sulla “Tutela delle
lavoratrici madri” introduce istituti volti a tutelare la lavoratrice madre sia
gli interessi del bambino «che appare
destinatario concorrente, quando non prevalente ed esclusivo, di significative
previsioni nella legge stessa rinvenibili». Nello stesso ordine di idee, la
sentenza della Corte costituzionale n. 1/1987 afferma che «la riforma del 1977 ha inteso garantire il positivo inserimento del
bambino nella famiglia adottiva o affidataria, allo scopo operando una vera e
propria parificazione del figlio adottivo al figlio naturale».
In realtà la legge n. 903/1977 non equipara
totalmente i figli adottivi o affidati
a quelli naturali, omettendo, tra l’altro, di estendere ai genitori adottivi o
affidatari proprio i congedi giornalieri di
cui all’art. 10 della legge 1204/1971. Ed è, ancora una volta, la Corte
costituzionale a intervenire nel senso della totale assimilazione tra parto e
ingresso in famiglia del bambino adottato o affidato sotto vari profili. La
sentenza 24.3.1988 n. 332 dichiara costituzionalmente illegittimo l’art. 12
della legge 1204/1971, nella parte in cui non prevede il diritto della
lavoratrice affidataria in preadozione, che abbia presentato le dimissioni
entro un anno dall’effettivo ingresso del bambino nella famiglia affidataria, a
percepire le indennità stabilite da
disposizioni legislative e contrattuali in caso di licenziamento. La stessa
sentenza dichiara costituzionalmente illegittimi gli artt. 7 e 15 della legge
1204/1971 nella parte in cui non prevedono che il diritto della lavoratrice
madre all’astensione facoltativa dal lavoro e alla relativa indennità spetti
altresì, per il primo anno dall’ingresso del bambino nella famiglia
affidataria, alla lavoratrice alla quale sia stato affidato provvisoriamente un
minore. E, ancora, la stessa sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 4, 1° comma lettera c) della legge 1204/1971, nella parte in cui non
prevede che le lavoratrici affidatarie in preadozione possano avvalersi della
astensione obbligatoria durante i tre mesi successivi all’effettivo ingresso
del bambino nella famiglia affidataria.
2) L’Unione europea e la legge n. 53/2000
Il 3 giugno 1996 il consiglio dell’Unione europea adotta
la direttiva 96/34/CE, che «…attribuisce
ai lavoratori, di ambo i sessi, il diritto individuale al congedo parentale per
la nascita o l’adozione di un bambino…». L’accordo quadro, inoltre,
stabilisce che è necessario «adeguare le
condizioni di accesso e le modalità d’applicazione del congedo parentale alle
circostanze particolari proprie dell’adozione».
Con la legge 8.3.2000, n. 53, sui congedi parentali,
il legislatore si è proposto di equiparare sotto ogni aspetto le famiglie
naturali e quelle adottive, dando in tal modo attuazione al dettato
costituzionale (artt. 30, 31 e 37), alla direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3
giugno 1996 e alle ripetute indicazioni di codesta Corte costituzionale.
B) Il
superamento della concezione biologica della filiazione quale presupposto
dell’evoluzione normativa
L’evoluzione normativa su delineata ha presupposti più
ampi della tutela delle lavoratrici madri e delle finalità assistenziali presenti nell’adozione. Essa si ricollega a
quel profondo mutamento sociale e giuridico che, a partire dalla fine degli
anni Sessanta del Novecento, vede irrompere nelle relazioni familiari e
parentali l’idea di uguaglianza (tra uomo e donna e tra figli) e una concezione
della filiazione come fatto sociale e affettivo più che naturale.
Da quegli anni, in Italia come in altri paesi, la
nuova posizione della donna nella famiglia e dei figli mette in discussione un
assetto dei poteri maschili, e paterni, che era stato a lungo sostanzialmente stabile. E l’affermazione
dell’uguaglianza è accompagnata dal progressivo ridimensionamento del dato biologico, o vincolo di sangue (come ci si esprimeva all’epoca), come fondamento
delle relazioni familiari. Un decisivo passo è costituito proprio dall’adozione
“speciale” (1967), la cui novità è di essere finalizzata ai bisogni affettivi e
di assistenza della persona del minore, e non alla trasmissione del patrimonio
di chi adotta. Soprattutto, questa nuova forma di adozione è “legittimante”: il
che vuol dire che il minore adottato diventa (quasi del tutto) indistinguibile
dal figlio legittimo, sia all’interno della famiglia sia verso l’esterno, non
essendo pubblicizzabile la sua vera storia anagrafica. La famiglia, secondo
l’ispirazione della legge sull’adozione, è principalmente una comunità di affetti,
nella quale la posizione e i diritti dei “genitori di sangue” sono funzionali
ai compiti di assistenza e di educazione della prole che la Costituzione
assegna loro (Corte costituzionale 10/2/81, n. 11, in relazione all’art. 30 della Costituzione).
Idee di questo genere minano alla radice quelle
teorie, all’epoca ancora molto diffuse, che, traendo spunto da un’espressione
letterale della Costituzione (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia
come società naturale”: art. 29 della Costituzione), vedono nella famiglia
un’entità naturale, fuori dalla storia: un ordinamento a sé stante, precedente
allo Stato e capace di opporsi “per diritto di natura” al suo intervento.
L’adozione speciale, a dispetto del trito adagio adoptio imitat naturam, e del suo
apparente adeguarsi al modello legittimo basato sulla naturalità dei rapporti
(in questo senso “legittimante”), più che rendere evidente la superiorità del
modello “naturale” come modello sociale prevalente, mostra, paradossalmente, la
possibile irrilevanza del dato naturale, o biologico, all’interno della
famiglia legittima. Se per il diritto il dato caratteristico della famiglia è la comunità di affetti, sarà questo il
requisito imprescindibile dell’esperienza familiare e quindi anche della
filiazione, sia che i figli siano effettivamente procreati dai genitori sia che
entrino nella famiglia per adozione: è l’apporto biologico dei genitori, il vincolo di sangue, a diventare una non necessità, e non viceversa. Si
afferma così l’idea della possibilità di una riproduzione senza sessualità.
Quando nel 1975 entra in vigore la riforma del diritto
di famiglia l’uguaglianza nei rapporti e la perdita di peso del dato biologico
(che si potrebbe dire debiologizzazione) risultano
accentuati. Particolarmente indicativo della valorizzazione della componente
affettiva (anche a scapito di quella biologica) è il regime giuridico del
secondo riconoscimento regolato dall’art. 250 del codice civile: quando un
figlio è nato da una relazione tra non coniugati, il genitore che ha
riconosciuto per primo (generalmente la madre) ha ora il potere di opporsi
all’altro genitore che vuole riconoscere, anche senza contestare il suo essere
ascendente naturale. In questo modo l’interesse del figlio minore, e la realtà
delle relazioni affettive già stabilite, diventano il criterio di orientamento
che può portare a negare lo stesso accertamento di stato, e non solo a limitare
la potestà.
La paternità e la maternità risultano, così, legate all’aspetto sociale e
affettivo, con la conseguenza che lo status
di figlio non deriva
necessariamente dal dato biologico, ma dipende anche da valori spirituali e
sociali di responsabilità, che possono anche portare a contraddire la “verità”
biologica.
E nello stesso ordine di idee è
significativo che la sentenza della Corte costituzionale n. 341 del 1990
subordini l’ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità o di maternità naturale (art. 274, comma 1 del codice civile) «all’interesse del figlio» e all’assenza
di rischi di pregiudizio per «gli
equilibri affettivi, l’educazione e la collocazione sociale».
A questo quadro va aggiunta l’evoluzione
delle opportunità offerte dalle tecniche di procreazione assistita. Nei casi in
cui essa avvenga con apporto di gameti provenienti da terzi, i rapporti di
filiazione che si stabiliscono dopo la nascita sono per definizione non corrispondenti a quelli biologici. Il fatto che
il legislatore italiano abbia una difficoltà del tutto peculiare a legiferare
in materia, non esclude che l’ordinamento nel suo insieme non debba fare i
conti con una realtà ormai diffusa. E tutto sommato ne ha cominciato a tenere
conto la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale, laddove, pur
ribadendo l’opportunità di una regolamentazione per legge, ha assunto un
atteggiamento di prudente apertura verso l’esistenza di un fenomeno sociale
nuovo, di cui non è possibile ignorare l’esigenza. Non a caso, dopo la nota
ordinanza n. 347 del 26/9/1998, la Corte di Cassazione ha risolto la antica
questione del disconoscimento proposto dal marito, che aveva dato il consenso
alla fecondazione con apporto di gamete proveniente da donatore, negando
legittimità a tali ripensamenti.
Il risultato è che, anche in
questo caso, risulta ulteriormente valorizzato il momento della consapevole
assunzione di responsabilità nella filiazione, rispetto a quello meramente
biologico.
In conclusione, si può dire che all’esito
di questa evoluzione, che è al tempo stesso normativa e sociale, e che riguarda
sia il nostro paese che gli altri di cultura affine, la filiazione sia
attualmente non tanto un fatto
biologico riconosciuto dal diritto, al quale si aggiungono situazioni equiparate, ma il frutto di
un intreccio tra (a) opportunità biologiche personali, (b) decisioni di
ricorrere o meno all’adozione e (c)
decisioni di avvalersi o meno dei mezzi
offerti dalle nuove tecniche riproduttive.
È ovvio che la stragrande maggioranza
della popolazione non si avvarrà di
tutte queste possibilità, ma il semplice fatto che esse esistano fa sì che anche il riprodursi in modo naturale risulti oggi una scelta, al pari delle altre.
Significativamente l’articolo 9 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza, dicembre 2000)
garantisce il diritto di sposarsi e il
diritto di costituire una famiglia. Certo si tratta, allo stato attuale, di
una mera proclamazione, che inoltre rinvia alle leggi nazionali, ma non può essere sottovalutato il fatto che la Carta parli semplicemente di famiglia, senza porre limiti o
fondamenti particolari che abbiano un valore preclusivo.
Per l’ordinamento italiano il criterio fondamentale
per dirimere le questioni relative ai diritti e agli interessi dei nati non
pare, quindi, che possa essere altro che quello della esistenza di una comunità
di affetti e della esistenza di genitori che si assumano i doveri di
mantenimento, di educazione e di
istruzione previsti dalla Costituzione, e ribaditi dalla consolidata
giurisprudenza della Corte costituzionale.
C) L’art. 45
del testo unico (decreto legislativo 26/3/2001, n. 151)
Quanto sin qui esposto consente di vedere
in una luce diversa l’art. 45 in questione e il suo parlare di primo anno di vita, anche a proposito
del bambino adottivo.
Certo si può sospettare una norma del
genere di incostituzionalità, visto che l’istituto dei permessi giornalieri
resterebbe l’unico in cui l’estensione ai genitori adottivi si accompagna ad un
limite temporale computato a decorrere dalla nascita invece che dall’ingresso
nella famiglia adottiva. Ma, a ben vedere, il presupposto di tale ragionamento
è che si intenda vita come
contrapposto a ingresso in famiglia,
e con vita si intenda esclusivamente vita biologica. Una tale corrispondenza,
che sembra largamente fondata sul senso comune, non è però fondata dal punto di
vista del diritto, e, in particolare, alla luce di quella evoluzione su
delineata, che ha visto una progressiva debiologizzazione
delle relazioni parentali e una valorizzazione della componente affettiva e
relazionale.
Si può quindi dire che all’interno delle
relazioni di filiazione l’idea di vita in
senso non necessariamente biologico sia quello che può consentire, sul
piano sistematico, una interpretazione che non generi discriminazione tra nati
in famiglia biologica e nati in famiglia adottiva, e, tra i figli adottivi, tra
quelli affidati immediatamente dopo la nascita e quelli adottati in età più
avanzata.
Certo è vero che, ogni qualvolta si è
dovuto stabilire un termine da cui decorre un congedo, tale termine è sempre
stato indicato con l’ingresso nel
nucleo familiare del bambino adottato: si pensi ad esempio all’art. 3, 5° comma
della legge 53/2000, nel quale si stabilisce che l’esercizio del diritto
all’astensione facoltativa può essere esercitata entro tre anni «dall’ingresso del minore nel nucleo
familiare». Ed è vero che lo stesso criterio è stato adottato dalla legge
9.12.1977 n. 903, art. 6, nel quale si stabilisce che la madre può usufruire
dell’astensione obbligatoria dal lavoro «durante
i primi tre mesi successivi all’effettivo ingresso del bambino nella famiglia».
Così come, sempre in materia di
astensione obbligatoria, in caso di adozione internazionale, il rientro in
Italia (secondo le risultanze contenute nel certificato dell’ente autorizzato
cui si è rivolta la coppia: legge 476/1998) si configura come il “giorno del
parto”.
Tanto che si può dire che, ogni volta che
il legislatore o la giurisprudenza hanno esteso ai genitori adottivi o
affidatari un istituto giuridico relativo ai congedi parentali, hanno parlato di ingresso del bambino nel nucleo
familiare.
Ma è ragionevole affermare che l’utilizzo
di tali scelte lessicali differenziate, per indicare l’ingresso in famiglia
adottiva rispetto alla nascita, rifletta una fase dell’evoluzione giuridica e
sociale in cui era necessario parificare le diverse forme di filiazione a quella
naturale. Se oggi, invece, come si è visto sopra, la filiazione non è tanto un
fatto biologico riconosciuto dal diritto, al quale si aggiungano situazioni equiparate, ma il frutto di
un intreccio tra opportunità biologiche personali, decisioni di ricorrere o
meno all’adozione e decisione di avvalersi o meno dei mezzi offerti dalle nuove
tecniche riproduttive, e se si può dire
che, per l’ordinamento, esistano solo famiglie, indipendentemente dal fondamento
biologico o meno della filiazione, si
può anche concludere che l’espressione lessicale usata dall’art. 45 citato (primo anno di vita) ha un significato
assolutamente non equivoco: è il primo anno di vita nella famiglia adottiva.
Si rifletta sulla situazione ipotetica,
ma che non si può escludere, che la prima madre (quella biologica) abbia goduto
dei permessi in questione, prima della dichiarazione di adottabilità. A fronte
di una ipotesi del genere risulta del tutto chiaro che l’ingresso nella
famiglia adottiva rappresenta una seconda
nascita nella storia biologica e personale dello stesso essere umano. E, a
fronte di questa seconda opportunità di nascere, è giusto che i nuovi genitori
godano delle stesse garanzie della prima nascita, garanzie funzionali agli
interessi di quel minorenne.
L’art. 45 citato quando usa l’espressione
«primo anno di vita», fa dunque
riferimento a una concezione non
necessariamente biologica di vita e dà coerentemente per scontato che possa
accadere nella vita di nascere due volte.
Il ricorso proposto dalla signora I.E. è pertanto fondato, sia alla luce
della precedente situazione normativa sia di quella successiva all’entrata in
vigore dell’art. 45 del testo unico, decreto legislativo 26/3/2001, n. 151.
Seguono le pronunce come da dispositivo.
Le spese sono regolate secondo la soccombenza con la
spa Poste italiane e compensate con
l’Inps.
PQM
Condanna Poste italiane spa a retribuire i permessi di
cui è causa dal 25/9/2000 al 19/6/2001, nonché a rifondere le spese di lite
liquidate in 3500,00 complessivi; compensate le spese con l’Inps.
www.fondazionepromozionesociale.it