Prospettive
assistenziali, n. 140, ottobre-dicembre 2002
MARIA MATTIELLO
Dopo
l’articolo di Antonio Ronga “La difesa del diritto
degli anziani cronici non autosufficienti alle cure sanitarie: la vicenda di
mia madre”, pubblicato nelle scorso numero di Prospettive assistenziali, riportiamo il resoconto di un’altra sconvolgente esperienza di cui
avevamo denunciato il comportamento inaccettabile dei servizi socio-sanitari
della Regione Veneto che hanno causato tanta sofferenza (1).
Dopo la morte di mia mamma Virginia Lovato ho voluto, tramite il locale quotidiano Il Giornale di Vicenza e successivamente
tramite la vostra rivista, rendere pubbliche, in sintesi, le vicissitudini
subite all’interno del sistema sanitario
pubblico. Desidero ora, se mi viene concesso lo spazio, fare un’analisi
dettagliata di come si sono svolti i fatti.
Mia mamma da tre anni e mezzo era costretta su sedia a
rotelle in seguito ad alcune cadute ed anche la sua mente andava sempre più
chiudendosi.
Tutti in paese conoscevano la mia situazione,
istituzioni comprese, ma nessuno mai si è fatto vivo per offrirmi un minimo
aiuto, né io d’altronde lo chiesto avendo ottenuto per tutto questo periodo il
part-time, anche se il lavoro è la mia unica fonte di reddito, ed essendo
“fortunatamente” aiutata dalla forza delle braccia del mio unico fratello
sordomuto dalla nascita.
La mia sorpresa è stata totale quando sono stata
“costretta” dai medici ospedalieri a presentare domanda per l’ingresso in una
struttura assistenziale. Con molta solerzia l’assistente sociale del Comune si
presenta a casa mia per verificare se ci sono barriere architettoniche (come
mai si preoccupa solo ora che non serve?), per chiedere il reddito di mia
mamma, le eventuali proprietà e se io ero in grado di pagare la retta: questo è
stato il primo aiuto avuto dalle istituzioni locali!
Il 6 ottobre 2000 verso l’una di notte mi sveglio di
soprassalto e trovo mia mamma con gli occhi sbarrati e la bocca storta. Tento
di scuoterla ma gli occhi si rovesciano ed emette una specie di sibilo: il
panico è totale... chiamo immediatamente il 118 e poco dopo arriva
un’ambulanza. Nel frattempo la mamma si era un po’ ripresa e non aveva più la
bocca storta ma non rispondeva alle nostre domande. Decidono di ricoverarla; in
poco tempo arriviamo al pronto soccorso e come viene stesa sul lettino ha un
altro violentissimo attacco. Io vengo fatta allontanare ma dalla sala adiacente
dove mi trovo sento delle urla che nulla di umano sembrano avere. Dopo circa
mezz’ora vengo chiamata dal medico del pronto soccorso e mi dice che la
situazione è gravissima, che la mamma era stata intubata
e che sarebbe stata portata in reparto medicina. Quando esce dal pronto
soccorso la vedo nuovamente con gli occhi sbarrati, però questa volta fissi su
di me come per implorare aiuto. Quando viene adagiata sul letto di reparto ha
ancora un’altra crisi ed io vengo nuovamente allontanata. Il medico di turno mi
dice che ha avuto un ictus e mi conferma la gravità della situazione. Al mattino
seguente viene vista dal primario con due medici al seguito, mi conferma che
l’ictus ha probabilmente colpito la parte destra e che la situazione si vedrà
dopo 24-48 ore, ammesso che superi questo tempo.
Passano queste ore, e nei giorni successivi, pur rimanendo
gravissima la situazione, la mamma ha delle fasi alterne: su mia continua
sollecitazione verbale riesce a pronunciare qualche parola, inoltre facendole
pulizia ai piedi mi accorgo che, se stimolati, li muove entrambi. Mi viene
spontaneo pensare che non può essere paralizzata la parte destra come
ipotizzato dai medici. Riferisco tutto sia ai medici sia al primario di
medicina ma mi sento rispondere che queste cose da me segnalate sono per loro irrilevanti (!!!).
Nel frattempo vengo invitata a presentarmi al
distretto Ulss per prenotare il trasferimento presso
una struttura assistenziale non
essendo la mamma in condizioni di essere riportata in famiglia.
La mia disperazione è senza limiti! Non riuscendo a
darmi pace, il giorno successivo faccio intervenire il nostro medico di
famiglia affinché parlando con i medici dell’ospedale possa ottenere una Tac e
verificare lo stato reale di mia mamma per procedere eventualmente ad un
possibile, anche se remoto, tentativo di recupero.
La risposta è che non
è necessaria una Tac (perché?
Forse perché è anziana?).
La chiedo io per iscritto al direttore sanitario anche
eventualmente a pagamento: in mancanza di risposta, su mie sollecitazioni
telefoniche dopo alcuni giorni mi viene fissato un appuntamento per un colloquio.
Molto amaramente devo convincermi che le cure sanitarie non esistono più per le
persone anziane.
La mia tenacia comunque non demorde e interpello un
altro ospedale, anche se ormai sono trascorsi 40 giorni dall’evento, e dopo
poco viene accolta nel reparto neurologia.
Qui finalmente viene sottoposta ad una Tac: la
diagnosi è “atrofia cerebrale diffusa da
sofferenza ischemica in assenza di sicure lesioni
locali”, quindi in netto contrasto con la diagnosi del primo ospedale e
cioè di un ictus che ha colpito la parte destra.
Ormai la mamma è ridotta allo stato vegetativo: non
parla, non deglutisce, non ha alcun stimolo visivo, dell’udito o del tatto,
viene nutrita con sondino naso-gastrico, porta il catetere e viene
necessariamente aspirata.
Pressata dai medici affinché venga accolta in una
struttura assistenziale, mi rivolgo a più di una casa di riposo ma non
essendoci posti liberi immediati, mi sento fare dal responsabile dell’area
anziani questa allucinante proposta: trasferire la mamma nel reparto geriatria
del primo ospedale (cioè quello di appartenenza alla nostra Ulss)
per cinque giorni ed io, come figlia, farmi insegnare dalla capo sala l’uso del
sondino naso-gastrico per l’alimentazione, la pulizia del catetere, le posture,
ecc., e portare provvisoriamente la mamma a casa, quindi optare eventualmente
per l’assistenza diurna in attesa di un posto definitivo.
Tutta questa orribile storia è stata da me denunciata
per iscritto sia ai vertici della Regione Veneto sia al Ministro della sanità
prof. Veronesi che ancora una volta, tramite la vostra rivista, ringrazio per
il premuroso conforto morale che ha voluto esprimermi.
Una sera - era di giovedì - vengo chiamata
telefonicamente da una casa di riposo, che tra l’altro io non avevo indicato
come preferenziale, in quanto essendo deceduta una persona si rendeva libero un
posto per mia mamma che figurava nei primi posti in graduatoria.
Devo dare una risposta quasi immediata pena la perdita
del posto; il mattino seguente, quindi di venerdì, mi reco in questa struttura
per dare la mia adesione e antepongo tutte le mie preoccupazioni per una
adeguata assistenza viste le condizioni di mia mamma che spiego in modo
dettagliato.
Vengo rassicurata e quindi mi fanno firmare il
contratto non senza avermi informata che il pagamento sarebbe decorso da
subito, quindi di venerdì, ma che avrei dovuto far trasportare la mamma
dall’ospedale in cui era ricoverata solo il lunedì successivo perché questi
giorni sarebbero serviti per la preparazione del posto letto e dell’accoglienza
del nuovo ospite.
Perplessa e non convinta, sono comunque costretta ad
accettare, ben sapendo quali sarebbero state le domande dei medici ogni
qualvolta li incontravo in reparto (…ha trovato il posto per la mamma?…).
Il lunedì successivo alle ore 8.30 una ambulanza
portava la mamma in questo posto e la situazione era la seguente: camera da tre
letti, quello destinato a mia mamma non ancora completamente rifatto,
ordinazione del nutrimento tramite sondino non ancora eseguita (solo verso le
ore 17 una infermiera viene a chiedermi peso e altezza per poter fare
l’ordine), del materasso ad aria nessuna traccia (dopo due giorni devo mandare
io una persona a ritirarlo presso una struttura sanitaria convenzionata con l’Ulss).
Indignata per tutto ciò, mi reco dall’assistente
sociale del Comune per esporre questa vergognosa situazione; prende atto ma non
può intervenire perché il suo compito è esaurito con la “collocazione” della
persona (per loro sono numeri) che era in graduatoria.
Segnalo tutto questo al presidente della casa di
riposo, chiedendo il rimborso dei tre giorni pagati anticipati per un servizio
non corrisposto, ma mi viene opposto diniego.
Informo l’Assessore regionale alla sanità chiedendo un
suo intervento ed una risposta in base alla legge n. 241/1990, ma nessun
riscontro mi è finora pervenuto.
Segnalo la cosa al difensore civico regionale, ma
nemmeno da questa persona mi è mai arrivata una risposta.
Ora mi sto chiedendo se devo procedere a una formale
denuncia.
La cosa peggiore in assoluto è che il medico assegnato
a questa casa di riposo mi informa che la mamma sarà nutrita in 8-9 ore
massimo, anziché nelle 24 ore come in ospedale, perché non esiste l’assistenza
infermieristica notturna. Non nascondo la mia grande preoccupazione per
eventuali conseguenze, ma mi risponde che già un’altra persona è stata
“abituata” a questi orari.
Lascio a voi immaginare il mio sgomento.
Mi reco subito da un medico del reparto geriatria del
primo ospedale per avere rassicurazioni; mi dice francamente che è rischioso un
nutrimento di due flaconi di Nutrodrip per diabetici
in così poche ore in una paziente in simili condizioni e di riparlarne con il
medico della casa di riposo. Purtroppo non mi può presentare altre soluzioni.
A questo punto insisto perché la mamma venga trasferita
nella struttura assistenziale da me prescelta in quanto ospita solamente
persone non autosufficienti.
Dopo dieci giorni viene accolta in questa struttura.
Anche qui manca l’assistenza infermieristica notturna ma almeno le operatrici
hanno notevole esperienza di persone ammalate. Decidiamo con i familiari degli
altri ospiti di sottoscrivere una richiesta affinché sia inserita una
infermiera di notte vista la gravità delle persone ospitate e che ci risulta
obbligatoria per legge. Dopo qualche tempo il servizio viene ripristinato.
Trascorrono ben quindici mesi e la situazione va
sempre più aggravandosi fino all’ennesimo attacco che la riporta in ospedale il
10 gennaio 2002.
Per otto lunghe ore rimane in pronto soccorso perché
mi viene comunicato che non ci sono posti liberi né in medicina né in geriatria
di questo ospedale e nemmeno negli altri ospedali del comprensorio dell’Ulss. Mi assale un impeto di ribellione e mi chiedo:
neanche di fronte alla morte c’è più dignità, visto che la pietà sembra essere
stata tolta dal vocabolario?
È possibile che anche in punto di morte una persona
debba essere trasferita da una città all’altra come un pacco postale?
Mi reco da un medico in geriatria e riferisco che non
accetto che mia mamma venga trasferita fuori città per morire, che se negli
altri reparti di questo ospedale, dove mi risulta ci siano sempre medici a
prestare servizio, non ci fosse stato nemmeno un posto libero avrei optato per
il rientro nella struttura assistenziale.
Poco dopo arriva il via libera per il ricovero nel
reparto di chirurgia sia di mia mamma sia di un’altra signora nelle medesime
condizioni più un’altra signora con trauma cranico per una caduta.
Passando per il corridoio noto che più della metà dei
posti letto sono liberi! Il mattino successivo verso le ore 8.30-9 vedo due
medici, in camice e berretto verde da sala operatoria, guardano le cartelle
delle tre pazienti ricoverate ed il commento è il seguente: la paziente con
trauma cranico la visitiamo dopo la sala operatoria mentre le altre due non
sono nostre, sono qui a svernare.
Un figlio di una delle tre pazienti è buon testimone
di questa vergognosa affermazione.
Verso le ore 11, non vedendo nessun altro medico, mi
reco dalla capo sala del reparto geriatria e chiedo se i dottori di questo
reparto sanno di avere due pazienti in chirurgia. Mi risponde affermativamente
e che finito il giro in reparto sarebbero venuti a visitarle. Verso le ore 13
una dottoressa la visita, mi conferma la gravità della situazione e mi dice che
in serata, liberandosi dei posti in geriatria, sarebbero state trasferite
entrambe, cosa che avviene verso le ore 21. Il giorno 14 gennaio 2002, dopo 4
giorni di straziante agonia, la mamma cessa il suo calvario.
Qualche giorno dopo vengo a conoscenza dell’esistenza
del Movimento per i diritti del cittadino Alto Vicentino, al quale racconto la
mia storia. Ah… se l’avessi conosciuto prima! Quante sofferenze mi sarebbero
sicuramente state risparmiate!
Con il loro aiuto ho deciso di rendere pubblica questa
mia dolorosa esperienza affinché altre persone, segnate dalla malattia, non
abbiano a subire i miei medesimi trattamenti, trattamenti comunque riservati a
chi non ha voce, a chi non ha conoscenze importanti, ecc. Questo l’ho ben
sperimentato durante tutta la permanenza negli ospedali.
Alle persone comuni come me sento il dovere di dire,
dopo la mia esperienza, di non prendere paura delle pressioni che vengono fatte
loro dai medici, con la motivazione di una imminente dimissione, se hanno un
familiare in situazioni critiche e assolutamente bisognoso di cure.
È un diritto costituzionale essere curati in ospedale
gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale che ognuno di noi (o la
maggioranza di noi) ha contribuito a rendere efficiente nell’arco di una vita
versando i relativi contributi.
(1) Cfr.
“Assessore De Poli, ma questa non è eutanasia?”, Prospettive assistenziali n. 139, 2002.