Prospettive assistenziali, n. 141, gennaio-marzo
2003
il diritto alla segretezza del parto: aspetti sociali e
sanitari
marisa
persiani (1)
In data 21 ottobre 2002 ha avuto luogo a Torino, con la
partecipazione di oltre 300 operatori e volontari impegnati nel settore, il
convengo nazionale “Esigenze e diritti delle gestanti e delle madri in
difficoltà, nonché dei loro nati. L’attuazione della legge 328/2000 sui servizi
sociali e il trasferimento delle competenze dalla Province ai Comuni, alla luce
delle esperienze acquisite in settant’anni di attività”, organizzato dalla
Provincia di Torino, con il patrocinio del Comune di Torino e in collaborazione
con la Scuola dei diritti “Daniela Sessano” dell’Ulces, la Redazione di Prospettive assistenziali e l’Anfaa, Associazione nazionale famiglie
adottive e affidatarie.
Nell’attesa della pubblicazione degli atti, riportiamo la relazione “Il
diritto alla segretezza del parto. Aspetti sociali e sanitari”, tenuta da
Marisa Persiani, psicologa del Servizio “Minori” della Provincia di Roma.
Premessa
La tematica sulla quale oggi ci confrontiamo si colloca oltre la
corretta applicazione di una legge. Essa ha infatti a che fare con l’ “a priori” della vita, con la direzione e con
l’universo di senso dell’esistenza di
un bambino che nasce in condizioni di rischio psico-sociale, rischio connesso
agli esiti che la sua nascita può produrre sia
in termini di danno psicologico personale, sia in termini di ricaduta
sociale ed economica.
Per più di un decennio mi sono
occupata di questa problematica nell’ambito dello Spapi, il Servizio di pronta
accoglienza per la prima infanzia, che la Provincia di Roma ha gestito in forma
diretta sino al febbraio 2002, epoca in cui si è realizzato il previsto
trasferimento al Comune di Roma delle competenze sui minori non riconosciuti,
riconosciuti dalla sola madre ed esposti all’abbandono.
L’esperienza a cui faccio riferimento nelle riflessioni che propongo, è quella che proviene da un
osservatorio molto singolare dove ho incontrato le diverse varianti del fenomeno,
ne ho potuto osservare le determinanti in termini di causalità e le
effettualità possibili.
Già nel 1995, sempre per
iniziativa dell’Anfaa, da lungo tempo sensibile alla protezione della nascita,
un nutrito gruppo tecnico di lavoro interdisciplinare, interregionale, di cui
io stessa ho fatto parte, si era riunito per un intero anno, per discutere su
questa tematica, mettendo a confronto esperienze professionali, realtà
territoriali e normative regionali diverse. Il confronto ha portato alla
produzione di un elaborato che conteneva riflessioni e sollecitazioni dense di
potenzialità operative, presentate poi in un analogo convegno.
Trovarci a distanza di anni a
dibattere di esigenze e diritti di gestanti e delle madri in difficoltà, nonché
dei loro nati, richiama tutti noi, amministratori e tecnici, ad una verifica di
quanto è stato realizzato e di quanto è ancora possibile o necessario
realizzare.
Legislazione
È noto a tutti noi come la
legislazione italiana tuteli i diritti di chi genera e di chi nasce e come
all’interno di essa il rispetto dei diritti dell’adulto non si contrapponga,
ma sia funzionale al rispetto dei
diritti del minore.
Alla donna viene riconosciuto il
diritto preliminare ad essere informata se riconoscere o meno come figlio il
bambino generato, il diritto alla segretezza del parto, qualora abbia già deciso di non riconoscere il
proprio nato e il diritto alla necessaria assistenza.
Al bambino viene riconosciuto il
diritto a cre-scere in una famiglia, anche diversa da quella di origine, in
grado di garantirgli le condizioni adeguate ad un armonico sviluppo
psico-affettivo e
fisico.
La legislazione italiana è,
nell’ambito di questa materia, decisamente avanzata, in quanto riconosce la
donna che partorisce ed il bambino che
è nato quali individualità distinte e separate, titolari di diritti propri,
scaturiti dal riconoscimento dei
rispettivi bisogni vitali. Sul piano normativo dunque esistono i presupposti
necessari per proteggere la nascita a rischio psico–sociale e per
affrontare i problemi ad essa connessi.
Episodi di grande allarme sociale
come il maltrattamento, l’abbandono di
neonati sino al fenomeno estremo dell’infanticidio, ancora troppo
frequentemente segnalati dagli organi di stampa, impongono una riflessione su quanto è stato posto in essere in
termini di prevenzione primaria e secondaria ed una verifica in ordine ai
modelli operativi adottati da pubblico e privato.
Centriamo dunque il focus sui
punti di criticità connessi al fenomeno della nascita a rischio per individuare
i punti forza su cui investire in termini progettuali, con la prospettiva di
realizzare il cambiamento ed interrompere la catena del disagio che si
“autoperpetua” e dell’assistenzialismo che si “autopromuove”.
Target
Nella mia esperienza
professionale ho potuto verificare che la tipologia delle donne che si trovano
a vivere una gravidanza accidentale, non desiderata e non desiderabile è
fortemente variegata.
Si tratta di donne molto giovani,
di persone infantili, immature sul piano psico-affettivo, di straniere
emigrate, di tossicodipendenti, di donne affette da patologia psichiatrica, di
persone senza fissa dimora, tutte unite da un comune denominatore, la
condizione di isolamento relazionale, l’assenza di rapporti significativi sul
piano affettivo, l’assoluta mancanza di riferimenti familiari o amicali, le
precarie condizioni socio-ambientali. Spesso queste donne sono portatrici di
storie familiari pregresse caratterizzate da grave deprivazione e dall’assenza
di riferimenti affettivi ed identitari adeguati.
La gravidanza per queste persone
spesso si manifesta, sul piano della consapevolezza, quando sono già superati i
tempi previsti dalla legge per valutare l’ipotesi di una interruzione della
stessa. A volte la gestazione, proprio perché negata sul piano cosciente, non
viene affatto percepita e si impone, con tutta la sua drammaticità al momento
del parto, vissuto come evento dirompente e destrutturante che attiva, in
condizioni di panico e di sospensione del contatto con la realtà, il
meccanismo, purtroppo noto, della eliminazione del proprio nato in quanto
percepito minaccioso ed estraneo a sé.
Il primo nodo problematico è come
raggiungere persone che sfuggono ai normali circuiti assistenziali e, qualora
vi accedano, come prenderle in carico e quali interventi realizzare a loro sostegno.
Esiste il problema di mettere in rete sinergica i diversi servizi
che a vario titolo intervengono per competenza sulla donna. Donna che spesso
vive una condizione frammentata dei
suoi bisogni, anche a causa della
frammentazione delle competenze istituzionali.
Nella realtà romana, infatti,
fino a qualche mese fa i Comuni avevano competenza ad intervenire sulle
gestanti sino al parto, momento in cui la competenza passava alle Province,
senza che tra i due enti ci fosse, il più delle volte, alcuna integrazione né
in termini di conoscenza o di segnalazione della situazione, né di
progettazione congiunta.
Informazione, formazione,
autenticazione
La presenza di leggi avanzate,
aspetto evidentemente positivo, non basta a garantire di per sé “tutela” se le
stesse leggi non sono conosciute o applicate. Il problema dell’informazione e
della formazione deve essere affrontato a due livelli, uno di tipo
contenutistico rivolto ad ampi gruppi, l’altro di natura tecnica, formativa ed
organizzativa diretto a specifiche categorie professionali, con l’obiettivo di
costituire unità operative specializzate che operano secondo un modello
condiviso e co-costruito.
Può risultare di sicura efficacia
individuare strategie volte a raggiungere quelle categorie di donne irraggiungibili, facilmente esposte a queste esperienze.
Depliants informativi sulla
legislazione italiana in merito ai diritti della donna e del nascituro e di
orientamento ai servizi, potrebbero essere predisposti in diverse lingue e
diffusi nell’ambito dei Consolati, dei
Centri Caritas, dei Centri di ascolto, di tutte le strutture e le associazioni
del terzo settore, nonché dei
reparti ospedalieri di maternità, ambiti nei quali, per motivazioni di diversa
natura, accedono donne in difficoltà.
Campagne di informazione e di
sensibilizzazione al problema potrebbero essere progettate, d’intesa con il
Ministero della pubblica istruzione, nella fascia adolescenziale della scuola
dell’obbligo, anche al fine di creare uno spazio–luogo di “pensabilità” su
eventi intorno ai quali solitamente si coniuga il silenzio ed il meccanismo di
negazione collettiva: l’ormai famoso “nessuno si era accorto di nulla…”.
La stipula di protocolli di
intesa tra tribunali per i minorenni, uffici di stato civile, enti locali, Asl,
nello specifico Consultori familiari, Dipartimenti di salute mentale e Servizi
per la tossicodipendenza e Centri nascita di aziende ospedaliere, renderebbe
possibile la messa a punto di un modello operativo che si avvale del contributo
delle diverse e specifiche competenze professionali e l’efficace messa in rete di risorse sanitarie sociali ed
assistenziali che, nel rispetto della privacy, consentirebbe la segnalazione
precoce del bisogno o del disagio e la
conseguente attivazione di quanto necessario per una efficace presa in carico
della persona.
Di maggiore complessità appare il
problema della formazione e della autenticazione degli operatori pubblici e
privati che a vario titolo incontrano donne che si trovano a dover affrontare
una gravidanza inattesa. La trasmissione di informazioni, di competenze, la
messa a punto di modelli operativi condivisi è, all’interno di specifici
progetti, obiettivo facilmente raggiungibile, dunque più agevolmente perseguibile.
Più complesso è promuovere ed
acquisire la condizione di “autenticità” per le persone che pongono in essere interventi socio-assistenziali,
intendendo per autenticità la piena conoscenza e la consapevolezza di sé e
delle personali dinamiche, unite alla capacità di percepire l’altro come
persona da sostenere perché maturi, con sufficiente consapevolezza, la “propria
scelta”. Chi intercetta momenti di così forte pregnanza emotiva, strutturanti
la vita, ha l’obbligo di essere autentico a sé stesso.
«L’uomo che possiede la propria misura è conosciuto a sé stesso, può
amministrare la realtà, quindi fare scienza esatta. Una volta che ha la sanità
base radicale di sé può immettersi nella radicalità delle cose che gli sono
prossime, può fare scienza esatta» ( A. Meneghetti, 1995).
Mi riferisco nello specifico ai
rischi, purtroppo frequenti, di contaminazione ideologica, di proiezione
inconsapevole delle personali dinamiche su altri, di induzione di scelte. La
severità di giudizio a volte espressa da alcuni nei confronti di chi manifesta
la possibilità di non riconoscere il proprio nato, può veicolare, tra gli altri, un meccanismo di negazione e di spostamento
su un “fuori di me” di parti personali rimosse. Tutto questo non consente di
percepire autenticamente l’altro ed i
bisogni di cui è portatore.
Realizzare tale condizione di
autenticità della persona appare un obiettivo più complesso perché ha a che
fare con il percorso di maturazione, di conoscenza e di elaborazione di ciascun
individuo. All’operatore si chiede di superare la rassicurante dimensione di autoreferenzialità
per collocarsi in quella di interprofessionalità. Il lavoro in équipe e la
possibilità di usufruire di spazi di supervisione può contenere i rischi
connessi a questa variabile interferente.
Aspetti psicologici del riconoscimento
Per chi si avvicina all’evento della nascita, un peso
determinante viene svolto dagli stereotipi biologici, familistici, sociali e
culturali che, in assenza di consapevolezza, come un chip o una matrice selezionano ed orientano la stessa percezione
della realtà.
È convinzione largamente diffusa
che il cosiddetto legame “del sangue”
costituisca una precondizione garantista di una filiazione “autentica” e per
questo dotata di valenza di per sé positiva. Tuttavia la legittimazione
biologica non certifica affatto quella psico-affettiva, né garantisce un
processo di crescita “sufficientemente buono.”
Un bambino può essere presente
nella dimensione fisica di una donna, dentro la sua pancia, ma se non entra
nella dimensione psichica, se non viene generato nel pensiero, non è visto.
Il contenimento fisico, dunque da
solo non garantisce ad un bambino un ingresso favorevole nel mondo della vita.
Una donna che vive in frustrazione la propria maternità, realizza un uso
strumentale del figlio.
In tali circostanze, possiamo
immaginare il periodo della sua vita
intrauterina, per il processo di risonanza del feto allo stato emotivo ed
endocrino della madre, caratterizzato da una condizione di incertezza, di
ambivalenza, di sospensione, di conflitto, di rifiuto. La madre trasmette al
feto attraverso molteplici canali, non solo gli elementi del proprio stato
biologico, ma anche quelli della propria sfera mentale ed emotiva. Già prima
della nascita il bambino assimila l’universo di senso che a lui viene declinato
dalla donna che lo ha generato.
«Il feto reagisce nel corpo della madre esattamente come un organo del suo
corpo. Conseguentemente come un qualsiasi organo di un essere umano può
ammalarsi per infiltrazione di emozioni negative, così accade la lesione
dell’autonomia ed integrità del futuro bambino» (A. Meneghetti,1995).
Il cucciolo d’uomo si struttura
su quanto gli viene rappresentato dall’adulto che si pone come primo ambiente
di protezione, dal suo modo di essere pone le radici del proprio Io che inizialmente è amebico. Esso si sagoma in
diverse forme, in relazione a ciò che metabolizza all’interno di un processo di
etero identità che solo successivamente diventerà di auto identità.
La famiglia è l’unità di base di
ogni istituzione sociale, politica e giuridica, ma utilizzando una metafora di
ordine medico, si ricava l’impressione che ci si occupi della salute degli
organi, omettendo completamente di considerare lo stato di salute delle
cellule. Solo cellule sane fanno organi e organismo sani.
Ciò che oggi si impone è la necessità
di collocare l’individuo, quale epifania della vita, al centro, restituendogli
la dignità di individuazione che contiene in sé, in modo separato e distinto,
il personale progetto di natura.
Il seme contiene dentro di sé la
propria specificità, il progetto virtuale è già dato, l’habitat ecologico gli
dà l’energia per svilupparsi. Un seme può portare nel suo nucleo grandi
potenziali di sviluppo, ma se l’habitat nel quale accade non è congeniale alla
sua crescita, questa non si svelerà, o si manifesterà in modo alterato o
deviato.
Lo stereotipo della sacralità
biologica, non consente il necessario rispetto di ciascun individuo quale
persona in sé e per sé e porta al rischio di confondere la stazione di partenza
con il personale viaggio, con l’inevitabile conseguenza di non poterlo mai
realizzare.
Ogni bambino ha bisogno di quel
genitore capace di consentire ed agevolare la sua realizzazione.
Mi riferisco ai numerosi casi di
riconoscimento indotto o forzato, dettato da condizionamenti culturali, stereotipie
e meccanismi proiettivi personali, che agiscono sul senso di colpa, messi in
atto da figure che incontrano la donna nel periodo della gravidanza o del parto
e che si trovano ad assumere nei suoi confronti una posizione di forza.
Sono noti a tutti gli esiti di
tali “forzature”. Quasi sempre producono abbandoni tardivi, episodi di
maltrattamento e di abuso, carenza di cure, con gravissimo danno sul piano
psico-affettivo per il bambino ed anche per la madre.
Il momento del parto rappresenta
il “punto zero”.
Il più delle volte costituisce
l’unica occasione di contatto con donne
irragiungibili e di osservazione di una relazione genitoriale a rischio di
sofferenza. Il momento della nascita è
la condizione esclusiva in cui tutto è visibile, se si vuole vedere, è un
momento in cui potenzialmente è
possibile porre in essere interventi di protezione e di aiuto, nel rispetto dei
diritti e dei bisogni di chi genera e di chi nasce. È a partire da questo
momento, a forte valenza strutturante, in un’area particolarmente “scoperta” di
servizi di diagnosi e di intervento psico-sociale, che debbono essere
progettate azioni di rete volte a proteggere la nascita e a sostenere la
relazione genitoriale. Solo da una corretta lettura del bisogno è possibile
progettare servizi che producono una efficace ricaduta in termini di benessere.
Nel territorio di Roma e
provincia le donne che hanno partorito usufruendo del diritto al non
riconoscimento sono state n. 63 nel 2000 e n. 60 nel 2001. Non rientrano in
questo gruppo le donne che hanno effettuato un
riconoscimento indotto esitato poi in un successivo abbandono, quelle
che hanno lasciato il loro nato in strada e quelle che non hanno riconosciuto
il bambino per la presenza di un grave handicap.
La scelta del non riconoscimento
può essere sostenuta da diverse motivazioni; nelle situazioni più frequenti chi
ha generato, nella consapevolezza delle proprie condizioni, dei propri limiti e
dei rischi a cui esporrebbe il proprio nato, rinuncia ad esercitare la funzione
di genitore, consentendo l’immediata attivazione, a tutela del minore,
dell’iter giuridico dell’adozione.
Il non riconoscimento anagrafico,
spesso paradossalmente, segnala l’avvenuto
riconoscimento del bambino quale persona che ha il diritto di vivere in
una famiglia in grado di accompagnarlo
nel suo percorso di crescita.
Per mia esperienza, tale
condizione si manifesta con minore sofferenza e più ampio vantaggio per chi
nasce e per chi genera, allorquando una donna in difficoltà viene sostenuta nel
periodo della gravidanza, in un contesto adeguato e favorevole, da un servizio
specialistico, competente ed ideologicamente laico, che la aiuti a maturare con
consapevolezza la scelta più funzionale, in quel momento, ai bisogni di
entrambi.
In questo modo la decisione di esercitare
il diritto di non riconoscimento può essere vissuta come responsabile atto di
amore, come decisione di affidare in mani più sicure delle proprie il bambino
messo al mondo, per consentirgli l’accoglienza, l’accettazione, le cure,
l’amore di cui ha bisogno per crescere in modo sano ed equilibrato. Una donna
che può maturare con consapevolezza questa decisione, ricevendo il sostegno
necessario ad elaborarla, vivrà la gravidanza in modo meno traumatico per sé e
per il feto. A lui trasmetterà quello che è in grado di offrire , la vita ed
insieme potranno prepararsi a quel commiato, che in tali circostanze può
assumere il significato di un saluto
motivato, anche se doloroso, piuttosto che di una lacerante rottura di
relazione. Questa condizione oltre ad essere di maggiore protezione per il
bambino, assume anche per la donna una valenza meno negativa, poiché le
restituisce la dimensione di persona che ha protetto, la stima di sé viene meno
pesantemente compromessa e si amplificano gli aspetti positivi di valutazione
del dono della vita realizzato, rispetto alle implicazioni di giudizio connesse
all’abbandono. Drammatica invece, per gli esiti che produce nel bambino e nella
madre, è una rottura tardiva della relazione, tanto più se viene decretata da
un tribunale. In questo caso il bambino si trova esposto ad una relazione
insicura e sospeso in termini di appartenenza. La donna dal canto suo è
impossibilitata ad accettare il verdetto di madre inadeguata e per questo tende
più facilmente a contrastarlo, per i sensi di colpa che attiva, sia promuovendo
azioni di opposizione al decreto promosso dal tribunale per i minorenni, sia
realizzando nuove gravidanze con
finalità sostitutiva o riparativa.
Buone prassi
La funzione di cura dei figli
riguarda certamente la famiglia, ma coinvolge, in termini di responsabilità
tutta la società.
Una relazione che soffre produce
disagio e malattia. La sua protezione e tutela debbono divenire, a partire
dalla gravidanza, oggetto di nuove politiche sociali. Particolarmente in questa
delicata area di intervento le politiche sociali debbono muoversi in un’ottica
di prevenzione, intesa non solo come rilevazione precoce delle condizioni di
rischio, ma come attivazione di risorse
positive multiple che producono cambiamento e benessere.
Ed è proprio il cambiamento, in
termini di processo di crescita finalizzato a realizzare autonomia e
salute, la vera scommessa delle
politiche sociali del III millennio. Se vogliamo tendere alla costruzione di
una società composta di individui sani,
autonomi e sufficientemente felici dobbiamo partire dalla sua cellula iniziale,
l’individuo, e dal suo diritto a crescere in un ecosistema psico-affettivo
capace di consentire lo sviluppo del suo
potenziale di natura in modo equilibrato e funzionale.
Ha sempre avuto su di me una
forte risonanza emotiva constatare, all’interno degli archivi provinciali, la
presenza di un andamento generazionale ridondante circa la condizione di madre
nubile, trasmessa da nonna a madre a
nipote, come fosse un tratto a trasmissione
genetica. Questa evidenza accanto agli inevitabili sentimenti di
impotenza, deve farci riflettere sulla incisività in termini di cambiamento,
delle politiche sociali sino ad oggi attuate. La dominanza di interventi
compensativo-riparativi di natura assistenziale, ha portato di sovente ad un
rinforzo del disagio, alla cristallizzazione di categorie di assistiti, ad una
radicalizzazione passivizzante di una dipendenza che disattiva le risorse
personali.
L’accorpamento delle competenze sui minori e dei servizi rivolti
alla persona, attualmente completamente in carico ai Comuni, per certi aspetti
dovrebbe consentire il superamento della parcellizzazione e della
frammentarietà degli interventi. Tuttavia ritengo questa condizione non
sufficiente a porre in essere azioni funzionali a determinare benessere e
sanità.
Realizzare infatti efficaci
interventi di rete, impone anche un
cambiamento radicale delle politiche sociali e l’assunzione di una nuova
identità da parte dei servizi che da socio-assistenziali dovrebbero divenire socio-promozionali,
centrati sulla persona e su una corretta decodificazione del bisogno, con
capacità di promuovere crescita, autonomia e benessere.
Un altro aspetto delicato
riguarda la frequente coesistenza e sovrapposizione di interventi parziali ad
opera di organismi pubblici e privati, caratterizzati a volte anche da
ideologie di appartenenza identitaria. Questo ha reso visibile un corpo sociale
acefalo che in modo confuso e frammentario muove i numerosi arti in modo
disarticolato e non finalizzato. Si rende dunque necessario individuare a monte
un “organo di regia”, visibile e competente, con capacità di promozione, di
sensibilizzazione e di coordinamento
che metta in rete progettuale e funzionale servizi pubblici e privati di diversa
area.
Nel momento di attuazione della
legge 328/00, oltre a trasferire le competenze, sarebbe vantaggioso e
funzionale che le Province trasferissero le esperienze acquisite in tanti anni
di attività, per non ricominciare da zero e poter almeno trarre insegnamento
dagli eventuali insuccessi.
Per F. Dolto prevenire significa
sollevare dalla solitudine, condividere, superare l’inconsapevolezza,
l’inquieta impotenza di fronte agli imprevisti.
Quanto ci siamo detti sino ad ora
appartiene alla dimensione razionale delle considerazioni e delle riflessioni
di un tecnico che andranno a collocarsi nella dimensione della sfera cognitiva
di chi ha ascoltato.
Sento per questo il dovere di
rappresentare la risonanza emotiva che produce un riconoscimento indotto, attraverso
le parole consegnatemi da una giovane donna rumena, che ha vissuto questa
esperienza, sino all’inevitabile esplosione, ad un anno di distanza dalla
nascita del suo bambino, di un conflitto interno tra desiderio ad occuparsi di
lui ed impossibilità a realizzarlo, esitato in una crisi psicotica ed in un
trattamento sanitario obbligatorio e conclusosi con la ratifica della sua inadeguatezza come madre da parte di un
tribunale. Forse accompagnarla ad una scelta consapevole di protezione e
vantaggio reciproco avrebbe potuto evitare tanta sofferenza e tanti danni.
Lettera di A.L.
Signora Persiani,
ho scelto questa possibilità di scrivere perché io quando scrivo mi sento
molto bene, parlando no. Sto male ma sono lucida, ragionevole. Ho pensato tanto
e ho preso una decisione. Non voglio che E. diventi un prodotto per una società
come sono diventata io. Rousseau diceva che quando siamo nati, siamo nati puri,
innocenti, ingenui ma dopo la società ci cambia. Ho parlato con mia madre ma
lei mi ha detto che era uno scherzo, che lei non crede a questo finché non vede
E. a casa. Ma se io lo porto a casa io non posso vivere con lui in quella casa.
Perché? Semplicemente perché i miei vicini sono snob, vanno ai concerti di
Mozart. Anche io quando ero piccola andavo a concerti non perché mi piaceva ma
mio padre era innamorato di Bach, Verdi.
Talvolta è meglio quando si vive in
mediocrità perché ti senti libero. Il Signor M. è stato per me come un
padre buono e lui è una persona libera perché non ha i principi morali ma
principi di bontà. I miei genitori mi hanno dato tutto, mi hanno insegnato
tutto, ma non mi hanno insegnato che cosa significa l’amore. Ho studiato a
scuola che si può parlare di tanti tipi di amore, che l’etimologia di questa
parola viene dal latino: amo-are, avi-atum, ma che significa in fondo amare?
(…). Diceva una frase molto bella: “Se l’amore non c’è allora non c’è niente”.
Ieri davanti a me la signora presidente sembrava mia madre e io dovevo dire la
verità, come stanno le cose. Se io mi ritorno a casa di mia madre devo dire la
verità, ma mia madre non accetta questa verità perché è assurdo. Il padre di E.
è più grande di mia madre e la sorella di E. è più grande di me. Non posso
vivere nella società rumena perché è troppo chiusa nei propri pregiudizi e io
sono troppo debole per accettare e affrontare questa realtà per questo ora
preferisco lavorare come domestica qui perché mi piace essere un nemo, un nessuno, un alter-ego ma non posso
ritornare in Romania con E. Ho deciso di dire a mia madre che veramente è stato
uno scherzo che ho mentito con tanta nonchalence e chi se ne frega. Ma E. deve
avere una famiglia che lo ama veramente. Ho accusato il giudice ma non ho avuto
ragione perché è stato non umano ma troppo umano. Ha sacrificato E. per me. E adesso
deve aspettare che sua madre, la
traviata, trova la strada giusta ma non
si sa se anche la trova. E perché questo? Perché sua madre si deve imparare ad
amare, perché ha un cuore di marmo, perché le piacque giocarsi con la vita
delle persone, perché non si trova bene con se stessa.
In questa società sono pochi i vincitori e tanti i vinti. Io non faccio
nessuna eccezione. Ammetto ora sono una persona vinta, una madame Bovary, mai capita. Ho parlato una volta con
uno psicologo e lui mi ha parlato di teoria dell’esistenzialismo, ma che è in
fondo questa esistenza? Perché io non ho capito. Sono troppo ignorante ma anche
gli psicologi sono intelligenze rovinate. E credo che anche gli avvocati,
perché ieri il mio avvocato ha pensato che ha fatto tutto ma lo so che infondo
non ha fatto niente. Mio padre mi diceva che se una persona non ha niente, non
produce niente, allora è un niente è una nullità. Ex nihilo, nihil,ma questa è
una vita piena di disillusioni, piena di fango, non voglio che E. diventi una
prigione come me, voglio che lui sia libero, come io ho detto anche a lei, mio
rifugio è in lavoro e in libri. Mi piace tanto anche musica di piano ma Signore
M. non ha un piano. Cercherò di trovarmi un lavoro e spero che sarò felice. Mi
dispiace che ho creato problemi al Signor M. È una persona troppo buona e non
merita questo. Non veniva mai all’istituto. E., deve vivere molto più bene di
me, in tranquillità, in serenità, senza principi, senza concetti, senza
pregiudizi e questa serenità io non ho mai avuto e non so se lo avrò una volta.
In Romania ho vissuto con la maschera qui sono libera.
Con rispetto A.L.
(1) Psicologa
del Servizio “Minori” della Provincia di Roma.
www.fondazionepromozionesociale.it