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VALIDE CONSIDERAZIONI SULL’INVECCHIAMENTO
Nella relazione tenuta al
convegno “Costruiamo il futuro: una assicurazione sociale di cura per le
persone non autosufficienti”, tenutosi a Milano il 3 maggio 2002, il geriatra
Giambattista Guerrini ha avanzato alcune considerazioni della massima
importanza sull’invecchiamento, che dovrebbero essere considerate la base
imprescindibile per una corretta impostazione degli interventi da predisporre
nei riguardi degli anziani cronici non autosufficienti.
In primo luogo ha rilevato che «è un dato ormai acquisito che
l’invecchiamento della popolazione – fenomeno particolarmente significativo nel
nostro Paese – si è accompagnato ad una sorta di spostamento in avanti della
soglia stessa dell’età anziana. La vecchiaia biologica non coincide più con la
vecchiaia sociale».
Pertanto «ogni discorso sulla vecchiaia e soprattutto sulla malattia e la
dipendenza come condizioni che alla vecchiaia sono associate, in termini di
aumentato rischio, non può più fare riferimento ai 65 anni, ma almeno ai 75
anni (e solo a questa fascia di età mi riferirò nel mio intervento). E solo al
di sopra di questa età infatti che aumenta la “fragilità” delle condizioni di
salute e diventa significativo il rischio di perdere la propria autonomia, come
conferma anche una recente ricerca condotta dall’Irer sulla popolazione anziana
della Lombardia» (1).
Dunque «le previsioni terroristiche di una demografia catastrofica possono
ridimensionarsi: se come area della vecchiaia “a rischio” di dipendenza
consideriamo gli ultimi 10 anni di vita della persona (come già nel 1985
suggeriva il Professor Antonini, accogliendo una riflessione del professor
Blangiardo) il numero di “vecchi” non ha subìto negli ultimi decenni aumenti
significativi».
Ne consegue che «la transizione demografica che stiamo
vivendo e che prevedibilmente abbiamo di fronte ci autorizza ad ipotizzare una
sostanziale stabilità del numero di soggetti anziani ad elevato rischio di
dipendenza».
Dopo aver affermato la necessità
di consistenti investimenti sulla prevenzione delle patologie
cronico-degenerative, il Guerrini ha precisato che «la difesa e la promozione dell’autosufficienza devono diventare un
obiettivo - se vogliamo, un parametro di riferimento - di tutto il complesso
delle politiche sociali (la politica economica, quella abitativa, la cultura,
la partecipazione, ecc.), dell’informazione e dell’istruzione, delle politiche
urbanistiche (una città a misura di anziano, una città “dai ritmi rallentati”),
della tecnologia e della ricerca, e così via».
Per il conseguimento degli
obiettivi di cui sopra, il Guerrini ritiene che occorra ripensare «l’attuale modello di sanità, che appare
del tutto inadeguato – tutto centrato com’è sull’intensività e sullo scambio di
prestazioni – a rispondere alla patologia cronica, che richiede piuttosto un
approccio estensivo e la costruzione di un progetto di cura condiviso da più
soggetti con l’interessato ed i suoi familiari sviluppando alcune linee di
fondo: approccio multidimensionale, continuità dell’intervento, integrazione
socio-sanitaria, diversificazione, flessibilità e raccordo “in rete” dei
servizi, sostegno alle reti informali».
IMPORTANTI PRECISAZIONI SULLA
SPESA SANITARIA
«L’abitudine di gridare “al lupo, al lupo!”. Questo il diffuso atteggiamento
di chi analizza il livello e la dinamica della spesa sanitaria pubblica in
Italia. In realtà i dati indicano che non esiste alcun intrinseco fattore di
allarme.
«È innanzitutto importante tenere presente che non esiste alcun parametro
di riferimento rispetto al quale esprimere un giudizio assoluto. Il giudizio
non può che essere formulato attraverso un confronto nel tempo e nello spazio.
«Cominciamo dai confronti internazionali. Se consideriamo i paesi con un
livello di sviluppo simile al nostro, i dati dell’Oecd indicano che la quota di
risorse destinata in Italia alla sanità pubblica è inferiore a quella della
maggior parte dei paesi sviluppati (http://www.oecd.org/xls/
M00031000/M00031385.xls). Il rapporto spesa pubblica/Pil, pari a 5,9% nel 2000,
è inferiore a quello della Germania (8%), della Francia (7,2%), della Danimarca
(6,8%), della Norvegia (6,7%), della Svezia (6,6%), del Canada (6,5%), del
Belgio (6,2%), della Svizzera (6%), del Giappone (5,9%).
«Si noti che gli Usa destinano alla sanità pubblica il 5,8% del Pil, una
quota piuttosto rilevante se si tiene conto che i programmi pubblici hanno
funzioni residuali, ovvero proteggono solo i poveri e gli anziani.
«Passiamo alla dinamica della spesa. Ancora una volta ci vengono in
soccorso i dati Oecd i quali indicano che l’Italia è in controtendenza rispetto
agli anni Novanta. A fronte infatti di aumenti quasi generalizzati (che in
alcuni casi superano nel decennio il punto di Pil, si vedano Germania,
Portogallo, Giappone, Usa e Svizzera) il nostro paese registra un drastico
contenimento delle risorse destinate alla sanità pubblica, solo in parte
mitigato dal recupero degli ultimi anni Novanta: si passa dal 6,4% del Pil nel
1990 al 5,9% nel 2000.
«Anche le proiezioni di medio e lungo periodo della Ragioneria Generale
dello Stato (riprese nel Dpef 2003-2006 - pag. 55 - quale supporto tecnico alle
ipotesi di intervento, http://www.dt.tesoro.it/Aree-Docum/Analisi-Pr/Documenti-/Documento-/Dpef-2003-2006.pdf)
non sono allarmanti: fra 50 anni la quota di risorse assorbita dal Servizio
sanitario nazionale sarà pari a 7,2 punti del Pil, un valore inferiore a quello
attuale della Germania e pari a quello attuale della Francia!
«Quali allora le ragioni del diffuso allarme per la spesa sanitaria?
«Le ragioni sono in gran parte esterne al sistema sanitario e sono
riconducibili, da un lato, allo stato della finanza pubblica (che impone un
faticoso percorso di risanamento) e, dall’altro, alla maggiore difficoltà,
tecnica e politica, degli altri settori di spesa a spostare il finanziamento
dal pubblico al privato.
«Il grido di allarme sulla spesa sanitaria risponde quindi a esigenze per
lo più estranee alle dinamiche della sanità, funzionali più a favorire un
progressivo ridimensionamento dell’intervento pubblico nel settore sanitario
che a contenerne i costi e a migliorarne l’efficacia».
(da
Nerina Dirindin - www.lavoce.info)
RESPONSABILITÀ DEL GINECOLOGO PER
L’OMESSO ACCERTAMENTO DELLE MALFORMAZIONI DEL FETO
Con la sentenza n. 6735 del 10
maggio 2002, la III Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione ha
individuato la responsabilità di un ginecologo per il non corretto accertamento
delle condizioni del feto e per la mancata formulazione di una diagnosi
precisa.
Il procedimento ha avuto luogo a
seguito della nascita di A., colpito dalla sindrome di Apert, caratterizzata da
un gravissimo handicap permanente.
La presenza delle menomazioni
doveva essere rilevata dal ginecologo, al quale la madre di A. si era rivolta
per il controllo della gravidanza e del regolare sviluppo. Una tempestiva
diagnosi prenatale avrebbe consentito alla donna di interrompere la gravidanza
anche oltre il novantesimo giorno.
Non essendo stata fornita la
dovuta informazione alla signora circa le gravi malformazioni del suo nato,
alla donna è stato impedito di compiere la scelta dell’interruzione della
gravidanza.
Dato che la responsabilità del
ginecologo è di natura contrattuale, ne deriva - secondo la Corte di Cassazione
- che il medico è tenuto al risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali (stabiliti dalla Corte d’appello in 700 milioni di lire) subiti
non solo dalla madre, ma anche dal padre.
La Corte Suprema di Cassazione ha
confermato la validità delle affermazioni della sentenza di secondo grado in
cui viene rilevato che «la nascita di un
figlio, che ella saprà invalido al 100% per il resto della vita, continuamente
bisognoso di cure per la sua stessa sopravvivenza, com’è descritta dai medici
la sindrome da cui è affetto, è sicuramente un fatto tale da generare nella
madre qualcosa di più della sofferenza e ribellione di cui parla il Tribunale,
ma certamente un trauma psichico di notevole gravità. La legge stessa (art. 6
della n. 194/1978) prevede che “rilevanti anomalie o malformazioni del
nascituro” possono gravemente influire sulla salute psichica della donna e,
nella specie, tali anomalie o malformazioni esistono e sono purtroppo
estremamente rilevanti, mentre non manca il riscontro del danno per la salute
psichica della madre, che ancora a distanza di sette anni dalla nascita del
figlio gravemente menomato è stata riconosciuta affetta da sintomatologia
depressiva profonda oltre ad altri disturbi di ordine psichico. Ben poteva,
quindi, la M. ottenere il consenso medico all’interruzione della gravidanza se
fosse stata correttamente informata dal professionista sulle malformazioni del
figlio».
EUTANASIA PER LA MADRE DELL’EX
PRIMO MINISTRO FRANCESE JOSPIN
Mirelle Jospin-Dandieu, madre
dell’ex primo ministro Lionel
Jospin, si è spenta il 6 dicembre 2002 per eutanasia.
A darne l’annuncio è un
necrologio comparso su “Le Figaro”
che non lascia dubbi.
Attivista dell’Associazione per
il diritto a morire nella dignità, ha deciso serenamente di abbandonare la vita
all’età di 92 anni.
Cordoglio è stato espresso dal
presidente Jacques Chirac.
Il decesso è avvenuto nel suo
domicilio di La Celle-Saint-Cloud, a ovest di Parigi.
UN ALTRO ACCORDO DEL CSA SULLA
PIENA COMPETENZA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE PER LA CURA DEGLI ANZIANI CRONICI
NON AUTOSUFFICIENTI
Dopo gli accordi stabiliti dal
Csa con l’Asl 4 di Torino, i Presidi sanitari Fatebenefratelli e San Camillo,
nonché con la Casa di cura privata Villa Grazia (cfr. Prospettive assistenziali, n. 133, 137 e 140), una analoga intesa è
intervenuta con l’Asl 3 di Torino come risulta dalla “Informativa sul
trasferimento di anziani non autosufficienti in strutture riabilitative e di
lungodegenza post-acuzie” che riportiamo integralmente.
«Com’è universalmente noto, la permanenza a casa loro o presso familiari di
anziani cronici non autosufficienti e di malati di Alzheimer è estremamente
positiva - non solo e principalmente - per quanto riguarda le condizioni
psicologiche ma anche - quasi sempre - in merito al recupero della voglia di
vivere e dello stato di salute.
«Nel caso in cui non siano realizzabili le cure domiciliari, l’Asl 3
provvederà ad attivare le procedure per il trasferimento del paziente in una
delle strutture accreditate con il Servizio sanitario regionale per la funzione
di riabilitazione oppure lungodegenza post-acuzie.
«Il trasferimento sarà preventivamente concordato con il paziente o con un
congiunto dello stesso ed avrà luogo a cura e spese dell’Asl 3, previa
comunicazione da effettuarsi almeno 24 ore prima, salvo motivi d’urgenza
determinati dalla necessità di occupare il posto letto disponibile.
«Come previsto dalle vigenti disposizioni regionali, i presidi accreditati
per la funzione di riabilitazione e lungodegenza post-acuzie forniscono ai
pazienti tutte le necessarie prestazioni mediche, infermieristiche, riabilitative,
assistenziali ed alberghiere.
«Sono, invece, a carico del paziente ricoverato le spese riguardanti la
degenza in camere dotate di un elevato confort alberghiero, le bevande ed il
vitto extra-pasti, le spese di utilizzo di telefono, radio e TV, nonché di
tutto ciò che non abbia attinenza diretta con le prestazioni a carico del
Servizio sanitario regionale.
«Qualora, al termine della degenza presso la casa di cura accreditata, non fosse realizzabile il ritorno
del paziente al domicilio proprio o dei propri congiunti, l’Asl 3, se
territorialmente competente in ragione della residenza del paziente, provvederà
a garantire nell’ambito delle sue competenze la prosecuzione delle cure,
prendendo contatto con l’interessato o, se questi non è in grado di programmare
il proprio futuro, con un suo congiunto.
«Eventuali chiarimenti o reclami devono essere indirizzati all’Asl di
residenza del paziente».
IL RICOVERO IN ISTITUTO NON
CONSENTE AI MINORI DI DIVENTARE AUTONOMI
Ancora una conferma delle
conseguenze negative del ricovero in istituto di fanciulli.
Sul n. 21, novembre 2002 di “Il Colibrì”, rivista trimestrale
dell’omonima associazione, Padre Renato Chiera, dopo aver creato in Brasile la
“Casa do menor”, vorrebbe anche, a causa delle sue non buone condizioni di salute,
garantire il futuro dell’istituzione.
Al riguardo precisa che «il grande problema e la grande
preoccupazione che abbiamo nella “Casa do menor” è il dopo “Casa do menor”. Questo
deve essere il centro ed il fulcro dei nostri sforzi in questo momento. Mi
spiego… la “Casa do menor” con i suoi oltre 120 collaboratori impiegati ha
imparato in questi 15 anni di assistenza a togliere tanti ragazzi dalla strada,
ha restituito loro la dignità di figli di Dio e di cittadini, ha dato loro
valori, scuola, un mestiere, ha ricevuto riconoscimenti da più parti; ma quando
questi adolescenti raggiungono i 18 anni e devono uscire dalla “Casa do menor”,
inserirsi nel mondo del lavoro, costruirsi una casetta o affittare un piccolo
spazio per vivere e guadagnarsi il necessario per costruire una famiglia, non
ce la fanno. Non hanno l’appoggio di una famiglia alle spalle, non trovano
lavoro, non sanno dove abitare, non guadagnano il necessario per vivere, si
scoraggiano e non hanno nessuna prospettiva di futuro e alcune volte hanno già
dei figli. Solo il narcotraffico, la strada e la microcriminalità si presentano
come soluzione e molti corrono il rischio di ritornare ad un passato da cui
erano faticosamente usciti».
Conclude Padre Renato: «È duro per me, per noi che li abbiamo
aiutati a risorgere, incontrarli dopo alcuni mesi in carcere e sapere che sono
ritornati nel narcotraffico o peggio, che sono stati uccisi con i circa 50 mila
giovani assassinati ogni anno in Brasile».
Anche in questo caso viene
confermata la validità di ciò che gli esperti sostengono da mezzo secolo:
l’istituto fa male allo sviluppo armonico del fanciullo. Per minori in difficoltà occorre, pensando al
loro futuro e tenendo conto delle singole situazioni, aiutare il o i genitori,
provvedere all’affidamento familiare a scopo educativo o all’adozione.
Solamente nei casi in cui non
siano attuabili gli interventi sopra indicati, è necessario costituire comunità
alloggio di 8-10 posti non accorpate fra di loro.
Un’esperienza in merito è
perseguita da anni dalla Comunità presieduta da Don Oreste Benzi di Rimini,
come abbiamo segnalato nell’articolo “L’intervento in Zambia della Comunità
Papa Giovanni XXIII a sostegno dei minori senza famiglia”, Prospettive assistenziali, n. 125, 1999.
(1) Irer, Anziani: stato di salute e reti sociali.
Un’indagine diretta sulla popolazione della Lombardia, Guerrini e
Associati, Milano, 2000.
www.fondazionepromozionesociale.it