Prospettive assistenziali, n. 143, luglio-settembre
2003
contratti vessatori: una
ordinanza del tribunale di torino molto negativa
Anche alla luce di eventuali altre iniziative nei confronti di Ipab,
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, abbiamo chiesto all’avvocato
Michele Fardin di Genova di esaminare l’ordinanza emessa dal giudice Giacomo
Oberto del Tribunale di Torino in data 28 febbraio 2001 e di seguito
pubblichiamo il commento che gentilmente ci ha inviato.
Il provvedimento, anch’esso riprodotto integralmente più avanti, era stato
assunto a seguito della contestazione del regolamento dell’Ipab “Opera Pia
Convalescenziario alla Crocetta”, avanzata dal Presidente della sede regionale
piemontese della Federconsumatori.
Infatti, era stata ritenuta vessatoria, ai sensi dell’articolo 3 della
legge 281/1998 “Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”, la
dichiarazione che doveva essere sottoscritta dai familiari degli anziani
cronici non autosufficienti per poter ottenere il loro ricovero nei reparti
dell’Ipab torinese, in cui veniva imposto di:
a) versare la parte della retta non coperta dal ricoverato con i propri
redditi;
b) provvedere al pagamento della retta giornaliera alle condizioni
stabilite unilateralmente dall’ente;
c) assumersi l’obbligo del trasferimento del loro congiunto qualora la
decisione fosse, anche in questo caso, decisa
unilateralmente dall’Ipab.
Fra i comportamenti lesivi degli interessi degli utenti, veniva altresì
contestato l’aumento della retta alberghiera da 60 mila lire a 75.000 attuato
nel 1998 con un incremento di ben il 25%.
A sostegno della propria tesi, la Federconsumatori ricordava le norme del
decreto legislativo 130/2000, in base alle quali le prestazioni sociali fornite
a soggetti ultrasessantacinquenni non autosufficienti devono tenere in
considerazione esclusivamente la loro situazione economica e personale.
Da parte nostra, ricordiamo che, nonostante il carattere esclusivamente
negativo della sentenza, il Csa, Coordinamento sanità e assistenza fra i
movimenti di base, ha ottenuto dal Comune di Torino (1) e da molti altri enti locali del Piemonte e di altre regioni,
l’approvazione di delibere conformi alla vigente normativa che non consente
agli enti pubblici di pretendere contributi economici dai parenti non
conviventi di assistiti maggiorenni e, per quanto riguarda i soggetti con
handicap in situazione di gravità e gli ultrasessantacinquenni non
autosufficienti, nemmeno dai congiunti conviventi.
Commento di Michele Fardin
Con ricorso in via
cautelare ex art. 1469 sexies c.c., depositato in data 2 febbraio 2001, la
Federconsumatori adiva il Tribunale torinese al fine di ottenere l’inibitoria
nell’utilizzazione, da parte dell’Ipab Opera Pia Convalescenti alla Crocetta, nella modulistica da questa
utilizzata per la conclusione dei contratti con gli utenti del servizio, della
facoltà di applicare le clausole contenenti le seguenti condizioni: «In caso di aumento della retta, il
sottoscritto assume altresì l’impegno, permanendo l’ospitalità del/la Sig……,
Cod. Fisc……, presso l’Opera pia di provvedere al pagamento della retta nella
maggiore somma stabilita. Il sottoscritto assume infine l’obbligo di
trasferimento del/la Sig… qualora codesta amministrazione ritenesse di non
poterlo/a più ospitare … omissis…».
Il vizio lamentato
dall’Associazione dei consumatori ricorrente si incentra sulla possibilità, per
l’Ipab convenuta, di modificare unilateralmente l’importo della retta sulla
scorta della riferita previsione pattizia, imponendo aumenti cui il contraente
è tenuto a sottostare, senza che gli stessi siano dettagliatamente
giustificati e oggetto di specifica
trattativa tra le parti.
Il Tribunale di Torino dichiara
inammissibile il ricorso (2), ritenuta inapplicabile alle Ipab, la normativa di
cui all’art. 1469-bis c.c. e ss. in tema clausole vessatorie, stante l’impossibilità
di riconoscere alla stessa la qualità di “professionista”, e condanna la
ricorrente Federconsumatori alla rifusione delle spese di lite nei riguardi
della parte resistente, liquidate in complessive lire 12.000.000.
Le conclusioni cui perviene la
pronuncia in esame non paiono allo scrivente condivisibili, sia con riguardo
alle motivazioni logico-giuridiche poste a suo fondamento, sia in riferimento
alla disciplina legislativa riguardante le Ipab, come positivamente disegnata
dal legislatore con l’art. 10 della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro
per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), e, da ultimo, con il
decreto legislativo 4 maggio 2001, n. 207 (Riordino del sistema delle
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, a norma dell’art. 10 della
legge 328/2000).
Per quel che concerne il primo
profilo di valutazione, l’ordinanza in commento si fonda su una rigida
interpretazione dell’art. 1469 bis del codice civile, a mente del quale «nel contratto concluso tra il consumatore e
il professionista, che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di
servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede,
determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e
degli obblighi derivanti dal contratto… omissis…».
Il comma II della
citata norma fornisce la definizione di consumatore e di professionista: «In relazione al contratto di cui al primo comma, il consumatore è la
persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o
professionale eventualmente svolta. Il professionista è la persona fisica o
giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della sua attività
imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto di cui al primo comma».
Il Tribunale
torinese rinviene l’impossibilità di riconoscere nella Ipab resistente la
qualità di professionista, con un laconico richiamo agli artt. 2229 ss. c.c.
sulle professioni intellettuali, attesa anche l’assenza, nel profilo costituivo
della stessa, dello scopo di lucro, individuato quale indice rivelatore, nel
contraente “professionista”, del requisito riferito all’“imprenditore” (art.
2082 c.c.), necessario alla applicabilità delle norme sulle clausole
vessatorie, poste a tutela del consumatore.
Occorre a questo
punto porre in rilievo la portata delle definizioni di “consumatore” e di
“professionista”, concentrando l’attenzione sugli elementi oggettivi della
fattispecie qualificatoria: sia il consumatore sia il professionista vengono
infatti selezionati per un particolare rapporto tra il contratto sottoposto a
sindacato e l’attività nel quale esso si colloca.
L’elemento
imprescindibile per accedere alla tutela di cui agli artt. 1469 bis e ss. c.c.
si ravvisa quindi nello squilibrio tra
le parti del rapporto contrattuale, ove una è contraente abituale in quel
settore, l’altra occasionale.
Il tratto
caratterizzante della normativa sulle clausole vessatorie è quello della tutela
del contraente c.d. “debole”, ritenuto dal legislatore l’aspetto primario e
prevalente, rispetto altre diversità strutturali, che diversificano le
condizioni generali dei moduli e dei formulari.
Come chiaramente
espresso dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Palermo, ordinanza 15
settembre 2000, in Resp. Civile e Prev., 2001, 1036), «Appare evidente che il legislatore ha voluto includere nella nozione
di professionista non solo chi svolge un’attività imprenditoriale al fine di
produrre reddito, ma anche il soggetto – pubblico o privato – che esercita
attività di prestazione di servizi e cessione di beni, avvalendosi di una
struttura stabile e duratura. Il termine professionista deve pertanto
intendersi in contrapposizione al concetto di “occasionalità”, a chi cioè
esercita l’attività di prestazione di servizi e cessione dei beni senza un
apparato organizzativo durevole. La disciplina dovrà essere sottoposta ad una
interpretazione estensiva, potendo clausole vessatorie essere predisposte anche
da un soggetto giuridico che eserciti la propria attività senza fini di lucro» (G.
Romagnoli, Clausole vessatorie e
contratti di impresa, 1997, Padova).
Lo scopo di lucro,
secondo la tesi qui riferita, è dunque circostanza che nulla immuta in ordine
alla natura del soggetto. Lo status della
parte contrattuale è destinato a rimanere refrattario non solo, come
espressamente previsto dalla normativa, alla natura pubblica o privata del
contraente, ma anche allo scopo commerciale, finanziario, liberale cui l’ente
impronta la propria attività (in questo senso Lorenzo Bertino, “Ente pubblico
non economico e la qualifica di professionista ai sensi dell’art. 1469 bis
c.c.”, in Resp. Civile e Prev., 2001, 1041 e
ss.).
In sostanza, il
richiamo contenuto nell’Ordinanza del Tribunale di Torino in ordine
all’impossibilità di riconoscere nella Ipab resistente la qualità di soggetto
che eserciti professionalmente un’attività economica (cioè avente scopo di
lucro) organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di
servizi, in riferimento al dettato degli articoli 2082 e 2229 e ss. c.c., non
sembra essere il presupposto logico-giuridico (o quantomeno, l’unico aspetto di
valutazione) atto a giustificare le prese conclusioni.
Proprio con
riferimento all’attività professionale e imprenditoriale, giova sottolineare
come l’attività imprenditoriale deve essere organizzata e condotta con metodo
economico ed esercitata in via abituale e non occasionale, laddove l’esercizio
di una professione intellettuale è professionalmente esercitato in modo
duraturo e sistematico, anche se non necessariamente continuativo.
Tale rilievo
permette di enucleare l’elemento imprescindibile della professionalità.
Richiesta dal dato normativo, nella abitualità dell’accesso ad una determinata
attività; lo svolgimento abituale della stessa permette infatti al professionista
così come all’imprenditore l’apprendimento di cognizioni di cui il contraente
occasionale è privo.
Gli stessi pertanto
si qualificano quali “contraenti forti”, laddove il consumatore, proprio in
ragione della richiamata “occasionalità”, assume la veste di contraente debole.
In questa ottica
risulta quindi ininfluente, nella configurazione giuridica del professionista,
che questi svolga la propria attività con fine lucrativo o con metodo
economico; lo scopo di lucro non costituisce elemento essenziale per
configurare l’attività di impresa (così Lorenzo Bertino, cit., p. 1045).
Attenta dottrina
rileva poi come il concetto di lucro, che non può mancare nella nozione di
imprenditore, deve però essere considerato in senso oggettivo e non soggettivo
e, per questa ragione, possono essere inquadrate nella categoria prevista
dall’art. 2082 c.c. anche le imprese aventi uno scopo mutualistico e le imprese
pubbliche.
È imprenditoriale
infatti quella attività economica, organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o di servizi, che sia di per sé idonea a rimborsare i fattori
della produzione impiegati mediante il corrispettivo di ciò che si produce o si
scambia, anche se chi lo esercita persegua uno scopo ideale o altruistico,
rimanendo al di fuori dell’ambito così enucleato solamente quella attività
svolta da chi eroga gratuitamente beni o servizi (in questo senso si veda, in
motivazione, Cassazione, 14/06/1994 n. 5766, in Giustizia civile, 1995, I,
187).
Alla luce di quanto
sin qui esposto, pare potersi dare risposta affermativa alla vexata questio relativa alla possibilità
di ricondurre nella figura del professionista ex art. 1469 bis, comma II, c.c.,
un ente pubblico che conclude contratti con i consumatori nell’esercizio di un
servizio pubblico senza il perseguimento di un obiettivo lucrativo, e ciò con
precipuo riferimento alla ratio della
richiamata normativa, volta alla tutela del consumatore quale contraente
debole.
Nel caso di specie,
oggetto della pronuncia del Tribunale di Torino, le clausole contenute nel
contratto utilizzato dalla Ipab debbono rientrare nella tutela apprestata dagli
artt. 1469 bis e 1469 ter c.c., laddove il significativo squilibrio dei diritti
e degli obblighi derivanti dal contratto si individua nella sperequazione delle
posizioni giuridiche che si determina a carico del consumatore privo di potere
contrattuale, a fronte della posizione “forte” del professionista, cui è
consentito modificare unilateralmente le condizioni del contratto medesimo.
Chi fruisce del
servizio di assistenza e ricovero di
una persona anziana o comunque non autosufficiente, versa oggettivamente in una
situazione di necessità cui non può certo essere contrapposta la facoltà
unilaterale, da parte dell’ente erogatore del servizio, di aumentare la retta
mensile di ricovero, senza giustificazione alcuna dei maggiori oneri richiesti
al contraente, cui viene incondizionatamente richiesto di adempiere (contraente
che, nel caso di specie, non è direttamente il ricoverato.
Si veda sul punto:
“Ancora sul pagamento delle rette di ricovero a carico dei parenti. Errare
humanum est, perseverare diabolicum” di
Massimo Dogliotti, in questa rivista, n. 138, 2002, p. 11.
La ratio della normativa, volta alla tutela
del contraente debole, deve trovare applicazione anche nei contratti stipulati
dalle Ipab, atteso che, come sopra ampiamente evidenziato, l’assenza di lucro e
la qualifica di ente pubblico non sono ex
se elementi tali dal sottrarre le stesse dall’applicazione della normativa
sulla vessatorietà delle clausole contrattuali.
Tali clausole
pertanto, al fine della loro valida inserzione nel complesso delle norme
contrattuali, dovranno essere oggetto di specifica approvazione scritta e
riferibili ad una trattativa individuale come richiesto dal combinato disposto
degli artt. 1341, 1342 e 1469 ter del codice civile.
In difetto, le
stesse non potranno che considerarsi vessatorie e, conseguentemente, andranno
ritenute inefficaci, secondo il disposto dell’art. 1469 quiquiens c.c.
Le conclusioni di
cui sopra trovano un loro riscontro normativo anche nella stessa disciplina
legislativa che norma le Ipab.
Con la legge 8
novembre 2000 n. 328, all’art. 10, il legislatore ha dettato i principi e i
criteri ispiratori della riforma delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza,
all’interno del nuovo welfare, ponendo
particolare accento:
a) sull’inserimento
delle Ipab che operano in campo socio-assistenziale nella programmazione
regionale del sistema integrato dei servizi sociali di cui all’art. 22 della
legge;
b) sulla
trasformazione della forma giuridica delle Ipab, al fine di garantire
l’obiettivo di una efficace ed efficiente gestione, assicurando autonomia
statutaria, contabile, gestionale e tecnica, compatibile con il mantenimento
della personalità giuridica pubblica, adottando forme gestionali di carattere
privatistico in ordine al personale e alla contrattualistica;
c) nel prevedere la
possibilità della trasformazione delle Ipab in associazioni o fondazioni di
diritto privato.
Il decreto
legislativo 4 maggio 2001 n. 207, attuativo del citato articolo 10 della legge
328/2000, riconduce le nuove Ipab a due diverse tipologie: quelle che
mantengono la personalità giuridica di diritto pubblico, denominate aziende
pubbliche di servizi alla persona e quelle che abdicano definitivamente a tale
tipo di personalità giuridica, accedendo quindi alla depubblicizzazione
(associazioni o fondazioni di diritto privato).
Il legislatore
delegato ha così indicato, per le Ipab che manterranno la personalità giuridica
di diritto pubblico, il modello aziendale, onde meglio rispondere a quel diritto all’assistenza, inteso come
diritto del cittadino a fruire dell’erogazione di servizi sociali di qualità,
cui deve tendere il nuovo welfare.
In particolare,
l’art. 6 del decreto legislativo 207/2001, prevede come «nell’ambito della sua autonomia, l’azienda pubblica di sevizi alla
persona può porre in essere tutti gli atti ed i negozi, anche di diritto
privato, funzionali al perseguimento dei propri scopi istituzionali e
all’assolvimento degli impegni assunti in sede di programmazione regionale».
La Regione Piemonte,
nella bozza di legge regionale per la disciplina del nuovo assetto delle Ipab
definisce all’art. 6 l’autonomia dell’azienda pubblica di servizi alla persona
nei seguenti termini: «L’azienda non ha
fini di lucro, ha personalità giuridica di diritto pubblico, autonomia
statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, ed opera con criteri
imprenditoriali… omissis… Nell’ambito della propria autonomia, l’azienda può
porre in essere tutti gli atti e i negozi, anche di diritto privato, funzionali
al perseguimento dei propri scopi istituzionali… omissis…».
Anche la normazione
regionale, nel solco di quella tracciata dal legislatore delegato, si indirizza
nel riconoscere alle Ipab trasformate in azienda pubblica di servizi alla
persona quelle caratteristiche operative di carattere imprenditoriale,
considerate maggiormente rispondenti ad una corretta e puntuale allocazione dei
servizi cui la stessa è preposta. A tale intendimento certo non può
sacrificarsi la tutela del soggetto fruitore dell’erogazione dei servizi
socio-assistenziali, anche nella sua qualificazione di contraente “debole”,
come sopra evidenziato.
Alla luce di quanto
esposto, merita particolare critica la quantificazione della condanna alle
spese di giudizio (12.000.000 delle “vecchie” lire, pari a euro 6.197,48) che,
nella sua eccessiva consistenza,
parametrata alle disposizioni del codice di procedura civile in merito alla
soccombenza, pare quasi voler sanzionare una sorta di “temerarietà”
dell’instaurato giudizio ad opera dell’associazione di consumatori ricorrente,
con un effetto di “scoraggiamento” verso ulteriori tentativi di adire in via
cautelare l’Autorità giudiziaria.
La condanna alle
spese come liquidata dal giudice torinese non sembra tenere nella dovuta
considerazione la natura stessa del ricorrente, quale ente esponenziale
espressione di interessi collettivi, che si fa portatore di una istanza di
tutela e di coerente applicazione della normativa sostanziale a difesa del
consumatore, chiedendo una puntuale applicazione della stessa.
Inoltre, come già
evidenziato nelle pagine di questa rivista (“I livelli essenziali di
assistenza: riduzione della spesa sanitaria e nuova emarginazione” di Mauro
Perino, n. 137, 2002, p. 4 e ss.) l’azione in sede giudiziaria fornisce
concreta attuazione a quella esigenza, espressa dall’art. 1, comma VI, della
legge 328/2000, di «…omissis… partecipazione attiva per il
raggiungimento dei fini istituzionali di cui al comma 1» della legge ove si
legge, testualmente: «La Repubblica
assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e
servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari
opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza… omissis…».
Alla luce della qui
prospettata panoramica, sia legislativa, sia giurisprudenziale, sia
dottrinaria, sembra, invero, che l’applicazione estensiva della legislazione
sulle clausole vessatorie, risponda proprio a tale esigenza di tutela e di non
discriminazione. Tanto più, che i
riferimenti giurisprudenziali posti dal Tribunale di Torino a fondamento del
provvedimento qui analizzato, collocabili in un contesto storico e sociale
riferibile a decenni or sono, non
paiono più sostenibili, anche in ragione delle numerose evoluzioni normative
frattanto intervenute.
Anche se la
posizione emergente dalla commentata ordinanza, pur nell’assorbenza delle
considerazioni che precedono, dovesse trovare ulteriori conferme, un diverso
approccio avverso l’illegittimità della clausola contrattuale de qua può rinvenirsi nell’analisi dei
principi generali in tema di determinazione dell’oggetto del contratto, ex art.
1346 del codice civile, prescindendo, quindi, dalla qualificazione
soggettiva, di professionista e di
consumatore, individuata quale presupposto per l’applicazione della disciplina
sulle clausole vessatorie.
Infatti, è principio
pacifico in giurisprudenza quello secondo il quale la determinazione o
rideterminazione, nella vigenza del rapporto, dell’oggetto del contratto,
rimessa alla libera scelta di uno solo dei contraenti, ed imposta alla
controparte, rende nullo il contratto stesso; in tale ipotesi di determinazione
unilaterale dell’oggetto contrattuale si pone infatti l’esigenza di tutelare la
parte esposta all’arbitrio del soggetto determinante (Cendon, Commentario al codice civile, Utet,
1999-2001, sub art. 1346 c.c.).
Le cause di nullità
che investono solo singole clausole del contratto, comportano la loro nullità,
ma la stessa non si comunica all’intero corpus
contrattuale, se risulta che le dette clausole non erano essenziali, tali
per cui le parti non avrebbero concluso il contratto senza di esse (art. 1419,
comma I, c.c.).
Nel caso di specie,
la clausola viziata investe il solo profilo della rideterminazione della
prestazione di un contraente, per cui la sua nullità con riverbera sull’intero
contratto, che potrà conservare la sua efficacia obbligatoria tra le parti. La
clausola espunta dall’accordo dovrà essere sostituita con una regolamentazione
che tenga conto di una corretta
determinazione delle prestazioni di ciascuna parte nel corso dello svolgersi
del rapporto medesimo.
Tali principi ed
argomentazioni sono stati recepiti dalla giurisprudenza sia di legittimità sia
di merito, laddove trovano chiara attestazione in due recenti pronunce della
Corte di Cassazione. In tema di contratto d’agenzia, i Supremi Giudici hanno
sanzionato con la nullità per indeterminatezza dell’oggetto la clausola di un
contratto d’agenzia (Cassazione Sezione Lavoro, 8/11/1997, n. 11003) che
prevedeva la possibilità, per il preponente, di modificare unilateralmente, con
il solo onere del preavviso, le tariffe provvisionali, «omissis… dovendo escludersi che la determinazione di un elemento
essenziale del contratto (quale la controprestazione dell’attività dell’agente,
costituita dalle provvigioni) sia rimessa al mero arbitrio del preponente…
omissis…».
Ancora più
incisivamente la Suprema Corte si è espressa stabilendo come: «In tema di concessione di immobile del
demanio, la previsione contrattuale che autorizzi la modificabilità unilaterale
del corrispettivo non soddisfa il requisito della determinabilità dell’oggetto
del contratto ex art. 1346 e 1418 c.c. e ciò stante la mancanza di indicazione
di alcun criterio od elemento atto a stabilire il metodo di liquidazione
definitiva del canone» (Cassazione Sezione I, 12/04/2002, n. 5281).
La controprestazione
del contraente non è quindi suscettibile né di determinazione né di
modificazione unilaterale, rimesse al mero arbitrio dell’altra parte, pena lo
squilibrio del sinallagma contrattuale, sanzionato con la nullità della
clausola che lo contempla.
La ratio espressa dalla giurisprudenza di
legittimità nell’interpretazione del requisito della determinazione
dell’oggetto del contratto, così come correttamente sopra individuata, ben può
richiamarsi nel caso di specie.
Nel rapporto
contrattuale intercorrente tra la prestazione resa dall’Ipab (ricovero e
assistenza del soggetto degente) e la controprestazione cui si obbliga il contraente
privato (pagamento della retta), quest’ultima viene unilateralmente determinata
dal soggetto (Ipab) predisponente il contratto, che può maggiorare la somma
inizialmente pattuita per l’erogazione del servizio.
Anche per questa via
ritengo pertanto che si possa concretamente censurare una regolamentazione
contrattuale come quella invalsa nella modulistica utilizzata dall’Ipab
convenuta nel giudizio conclusosi con la commentata ordinanza.
(1) Il
Comune di Torino ha esonerato i parenti degli anziani non autosufficienti dal
versamento di contributi economici, Prospettive
assistenziali, n. 133, 2001. Anche il Comune di Milano ha assunto analoga
iniziativa, Ibidem, n. 139, 2002.
(2) Il
testo integrale dell’ordinanza del giudice Giacomo Oberto del Tribunale di
Torino votata il 1° marzo 2001, è il seguente:
«Letto il ricorso depositato il 2 febbraio 2001
dalla Federconsumatori, in persona del suo Presidente, assegnato al Magistrato
designato il 5 febbraio 2001;
- Visti gli allegati documenti;
- Visto il proprio provvedimento emesso in
data 7 febbraio 2001;
- Letta la memoria difensiva della Ipab Opera
Pia Convalescenti alla Crocetta, depositata il 26 febbraio 2001 e visti gli
allegati documenti;
- Uditi i legali delle parti all’udienza del
28 febbraio 2001;
- Visti gli artt. 669-ter, 669-sexies,
669-septies c.p.c., 1469-sexies c.c.;
- Rilevato che, con il ricorso in esame, la
Federconsumatori ha chiesto inibirsi alla parte resistente, nell’utilizzazione
della modulistica in atti, la facoltà di applicare le clausole contenenti le
seguenti condizioni: “In caso di aumento della retta, il sottoscritto assume,
altresì l’impegno permanendo l’ospitalità del/la Sig…, Cod. Fisc…, presso l’Opera Pia di provvedere al
pagamento della retta nella maggiore somma stabilita. Il sottoscritto assume,
infine, l’obbligo del trasferimento del/la Sig…, qualora codesta
Amministrazione ritenesse di non poterlo/a più ospitare. Il trasferimento dovrà
avvenire entro giorni trenta dalla comunicazione dell’Opera Pia”, inserite nel
modulo predisposto dalla parte resistente fatto sottoscrivere ai terzi all’atto
del ricovero, per effetto del richiesto accertamento del carattere – secondo
parte ricorrente – vessatorio, con pubblicazione del provvedimento a spese
della resistente sui quotidiani a maggiore diffusione locale;
- Rilevato che, ex art. 1469-bis, primo comma,
c.c. possono ritenersi vessatorie solo quelle clausole che siano state inserite
“nel contratto concluso tra il consumatore e il professionista”;
- Rilevato che, ex art. 1469-bis cpv. c.c. “Il
professionista è la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel
quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il
contratto di cui al primo comma”;
- Ritenuto che, avuto riguardo alla natura
della parte resistente, Istituzione pubblica di assistenza e beneficenza
(secondo quanto ammesso dalla stessa parte ricorrente) senza scopo di lucro,
appaia impossibile – sulla base delle risultanze probatorie versate in atti –
riconoscere alla parte resistente la qualità di soggetto che eserciti
professionalmente un’attività economica (cioè avente scopo di lucro)
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (cfr.
art. 2082 c.c.);
- Ritenuta altresì l’impossibilità – sempre
sulla base delle risultanze probatorie versate in atti – di riconoscere nella
Ipab resistente la qualità di professionista (cfr. artt. 2229 ss. c.c.);
- Rilevato che, secondo la giurisprudenza di
merito, la legittimazione passiva di un ente pubblico in relazione alla domanda
cautelare ex art. 1469-sexies c.c. viene riconosciuta solo allorquando si
ritenga provato che il medesimo svolge attività avente scopo di lucro (cfr.
Trib. Roma, 31 luglio 1997, in Vita not.,
1997, p. 1345; Trib. Roma, 20 agosto 1997, in Vita notar., 1997, p. 1345, Trib. Roma, 22 agosto
1997, in Nuova giur. Civ. comm.,
1999, I, p. 247, in relazione all’ipotesi di attività di organizzazione di
concorsi pronostici);
- Rilevato, d’altro canto, che le conclusioni
di cui sopra sembrano ricevere conforto dalla giurisprudenza di legittimità,
che nega – di regola – alle Ipab la natura di comprenditore, facendo ricadere
la competenza in ordine alle relative controversie di lavoro sotto la
competenza del giudice amministrativo (in epoca, ovviamente, anteriore alla recente
attribuzione delle controversie del pubblico impiego al Giudice Ordinario):
cfr. Cass., Sez. Un., 6 aprile 1962, n. 728 (“un ente pubblico può qualificarsi
economico solo se esso, agendo nel campo economico, esplichi, come
imprenditore, un’attività che non solo si trovi o possa trovarsi in concorrenza
con l’analoga attività di altri imprenditori, ma che soprattutto rappresenti,
non un mezzo necessario per la diretta realizzazione di un fine pubblico,
sebbene un semplice mezzo per conseguire dei lucri partecipando alla vita degli
affari. Tali condizioni non si rinvengono negli enti comunali di assistenza
istituiti in ogni comune con legge n. 847 del 1937, in sostituzione delle
congregazioni di carità, e la cui attività risulta esclusivamente diretta, non
già al conseguimento di lucri, ma all’adempimento del compito di assistenza e
beneficenza, che è loro attribuito e che costituisce uno dei più importanti
fini sociali dello Stato. Ne consegue che le controversie relative al rapporto
d’impiego di un dipendente dei predetti enti rientra nella competenza del
giudice amministrativo”), Cass., Sez.
Un., 12 giugno 1979, n. 3300 (“La casa albergo per persone anziane di Albino,
la quale, derivando dalla pia casa di ricovero di Albino, configura un istituto
decentrato del locale ente comunale di assistenza, ha natura di ente pubblico
non economico, in quanto, con organizzazione non imprenditoriale e senza fini
di lucro, svolge attività di interesse generale nel campo dell’assistenza e
beneficenza. Pertanto le prestazioni lavorative subordinate, effettuate in
favore di detta casa con retribuzione predeterminata e continuità, ancorché a
tempo determinato, nonché in forza di atto di nomina ed in correlazione con gli
indicati scopi sociali della datrice di lavoro, integrano un rapporto di
pubblico impiego, con la conseguenza che le controversie ad esso inerenti sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”);
- Ritenuto pertanto, preliminarmente, il
difetto di legittimazione passiva in capo alla Ipab Opera Pia Convalescenti
alla Crocetta;
- Ritenuta, conseguentemente,
l’inammissibilità del ricorso cautelare;
Dichiara inammissibile
il ricorso;
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle
spese di lite nei riguardi della parte resistente; spese che liquida in
complessive Lire 12.000.000».
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