Prospettive assistenziali, n. 143, luglio-settembre
2003
Il Centro studi sui problemi
dell’età evolutiva “Hansel e Gretel” ha organizzato il 18 gennaio 2003 il
convegno “Processo agli adulti? Istituzioni, professioni, atteggiamenti della
comunità adulta di fronte ai bisogni e ai diritti dei bambini”.
Scopo del convegno era quello di collocare «dentro la raffigurazione
immaginaria di un processo, dentro il gioco dell’accusa e della difesa e della
giuria (…) interventi di riflessione sulle attuali problematiche delle
relazioni fra adulti e bambini» mettendo
a confronto, tra gli altri, alcune categorie di professionisti, quali i
giornalisti, gli assistenti sociali, gli psicologi, gli educatori, i giudici,
gli insegnanti, ecc.
Particolarmente interessanti gli interventi, nel ruolo di accusa, della
psicoterapeuta Gabriella Cappellaro e dell’assistente sociale Liliana Carollo,
entrambe esponenti dell’Associazione “Fiaba” di Vicenza.
Ve li proponiamo, come spunto di riflessione critica ma costruttiva,
rispetto al ruolo degli assistenti sociali e dei giudici minorili.
Segnaliamo, inoltre, che Frida Tonizzo, quale rappresentante dell’Anfaa,
Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, chiamata a far parte, a
conclusione dei lavori, della “giuria” di questi processi, nel suo intervento
ha voluto replicare agli operatori sociali che, nel corso del convegno, avevano
denunciato le difficili condizioni di lavoro di molti di loro, soffermandosi su
due punti.
Anzitutto gli operatori, prima ancora di essere assistenti sociali,
educatori, psicologi, ecc. sono cittadini e lavoratori che, come tali, possono
esercitare i loro diritti-doveri attivandosi presso i sindacati, le
associazioni per migliorare le loro condizioni di lavoro, intervenendo nei
confronti delle istituzioni da cui dipendono. Non possono continuare a delegare
ad altri l’incarico di risolvere i loro problemi lavorativi!
Inoltre, le carenze di intervento degli operatori (che spesso si sommano
alle insufficienze degli amministratori e dei giudici minorili) hanno
ripercussioni gravissime sugli utenti, i cui diritti fondamentali sono violati
e che, oltre alle mancanze educative e affettive dei loro genitori o parenti,
hanno subito gli abusi “istituzionali”, esemplificati dagli interventi di G.
Cappellaro e L. Carollo, nonché da altri operatori intervenuti.
Intervento di Gabriella Cappellaro
Sono trascorsi molti anni da
quell’episodio, ma l’interrogativo che ne è scaturito non smette di pungolarmi.
Mi trovavo come consulente ad
un’udienza che doveva stabilire la situazione di un bambino molto piccolo da tempo allontanato da una famiglia
naturale gravemente inadeguata. Il giudice mi invitò ad esporre brevemente la
situazione del bambino. Risposi: «È un
bambino che da più di un anno attende la definizione della sua posizione
giuridica».
Ne ricevetti un ammonimento
durissimo da parte del giudice: «Crede
forse che questo non sia nostra cura? Si
ricordi che con queste parole lei vanifica quanto ha da dire riguardo il
bambino. Ha capito?». Mi guardai
intorno: il giudice che aveva parlato aveva un atteggiamento di condanna
inappellabile, gli altri stavano immobili e impassibili. Mi costrinsi a dire: «Sissignore». Capivo che altrimenti non
avrei potuto andare avanti, ma sentivo anche che mi trovavo in una situazione
paradossale: il giudice aveva diritto di ammonirmi, le mie parole suonavano
come rimprovero ai giudici e non era mia facoltà assumere questa posizione. Ma
sentivo che non era giusto impedirmi di considerare e di far considerare la
sofferenza di quel bambino che da troppo tempo viveva in una condizione di
incertezza.
Questa oscillazione tra due
tensioni, il diritto da una parte e la giustizia dall’altra, continua ad
interrogarmi.
So bene che sono due tensioni
lungo la stessa linea: da una parte ci sono le norme che regolano i rapporti
sociali e dall’altra c’è il bambino con ciò che gli è dovuto per giustizia. So
che al centro, in posizione di equilibrio tra le due tensioni, si dovrebbe
poter porre l’argomento che ci sta a cuore, il rispetto del bambino nei suoi
diritti.
Ma sento che questa posizione è
difficile da raggiungere, perché sono ancora troppo attivi forti pregiudizi.
Troppo spesso, in ambito
giudiziario, si incontrano bambini gravati da un doppio pregiudizio: il primo
consiste nel pregiudizio come danno derivato al bambino da atti e comportamenti
da parte degli adulti che ne hanno la cura o che dovrebbero saper vivere la
distanza generazionale come spazio di responsabilità; il secondo consiste nel
pregiudizio come opinione preconcetta di molti adulti circa situazioni nodali
dei bambini: il legame familiare di
sangue come assolutamente prioritario, la capacità di attesa a tempo
indeterminato di una sua definizione giuridica da parte del bambino,
l’insignificanza dell’ascolto del bambino o della credibilità del bambino
testimone dei danni dallo stesso subiti, il diritto del bambino ad una adeguata
assistenza (per esempio come richiamato dalla legge 66/1996 articolo 609 decies
o attraverso l’appoggio di un curatore quando si trova al centro di un conflitto
di interesse) nel percorso giudiziario.
Questo secondo
ordine di pregiudizi, in tutte le sue manifestazioni, non fa altro che
rafforzare il primo, e si viene a creare per il bambino una situazione di grave
ingiustizia.
Documentiamo
brevemente ciascuno di questi punti:
1. Il pregiudizio del legame familiare di sangue come assolutamente
prioritario. Spesso
il bambino vittima di violenze in ambito familiare è costretto a restarvi o a
intrattenere rapporti con i familiari abusanti, con la motivazione che è pur sempre suo padre…è pur sempre sua
madre come se la genitorialità biologica sia comunque un diritto superiore
agli obblighi che vengono disattesi attraverso un maltrattamento, la cui
portata viene assolutamente sottovalutata.
D’altro canto, nella considerazione
del diritto del bambino alla famiglia, si assiste anche ad un andamento
esattamente opposto, a forbice, che si verifica quando il bambino, finalmente,
viene allontanato da famiglie gravemente inadeguate.
Il bambino è portatore del
diritto alla famiglia (vedi la Convenzione di New York e la legge 149/2001),
alla famiglia come precisa e garantita opportunità di crescita, alla famiglia
delle origini come condizione di partenza, ma anche ad una sostitutiva,
affidataria o adottiva, quando quella d’origine è inadeguata.
Crescita e famiglia, nei diritti
del bambino, rappresentano un binomio inscindibile.
L’obiettivo dell’affido
eterofamiliare o dell’adozione non è dunque facoltativo, non è una possibilità
a discrezione dell’operatore, è una direzione obbligatoria.
Perché allora nei decreti di
allontanamento del minore dalla famiglia inadeguata tanto spesso ancora i
giudici indicano la sistemazione del minore in adeguata struttura, e ciò in palese violazione dei diritti del bambino?
Inoltre, tale sistemazione può
essere intesa in duplice modo: o perché il bambino non si dimentichi della sua
famiglia d’origine o, all’opposto, perché il bambino possa fruire del
cosiddetto “spazio neutro”, dove si depuri affettivamente e possa coltivare un
bisogno così estremo e disperato di famiglia da dimostrarsi entusiasta poi
della famiglia adottiva. Ma gli operatori psicologi che seguono i bambini dopo
simili trattamenti “purgativi” sanno bene a quali giochi di terribili
proiezioni aggressive sia sottoposta la nuova famiglia, con esiti a volte
catastrofici, per i quali naturalmente viene imputato il bambino.
In assenza di qualità affettiva
ed emotiva nell’interazione con figure di accudimento significative, assenza di
cui possiamo essere certi fuori della famiglia, diversi aspetti dello sviluppo
affettivo e cognitivo risulteranno segnati, perché il rapporto con la realtà
sarà ostacolato e si svilupperà un perverso gioco di attaccamenti illusori o
idealizzato.
Il bambino, e non si
tratta solo di un’opinione degli psicologi infantili, deve essere riconosciuto
come titolare del diritto al soddisfacimento di bisogni affettivi in contesto
relazionale.
2. Il pregiudizio della capacità di attesa di una sua definizione giuridica
da parte del bambino. Le sofferenze patite dal bambino in famiglia o perché inadeguate o perché
vittima di violenze, vengono incredibilmente rafforzate dalle opinioni
preconcette riguardo i tempi lungo i quali il bambino è costretto a transitare
mentre si trova al centro del conflitto d’interesse.
Mentre, infatti, nella coscienza
individuale della dinamica interiore, il tempo è esperito e posseduto nello
spessore articolato di tre momenti: futuro come attesa, presente come
intuizione, passato come memoria, al contrario nei servizi giudiziari appare
come rigido contenitore dove si dispongono gli avvenimenti caratterizzati da
una immobilità massima. Quello dei tribunali, e specialmente quando la
questione riguarda i bambini, è un tempo profondamente disumano, senza quello
spessore tridimensionale che invece caratterizza l’esperienza della sofferenza
del bambino che proprio sul tempo non gestito situa la sua sofferenza, o per
l’incombenza di un passato non metabolizzato o per l’intrattabilità di un presente invivibile o per l’angoscia di un
futuro non immaginabile.
Nella vita di un bambino il tempo
e il rispetto del tempo sono elementi così importanti da diventare aspetti
sostanziali del benessere. Esiste una fondamentale differenza nella concezione
del tempo da parte di un bambino e da parte di un adulto. L’adulto il tempo
l’ha già visto scorrere, ha imparato a calcolarlo, a organizzarlo, si è
sforzato di impadronirsene, ha cercato di padroneggiarlo, l’ha fatto diventare
strumento di azione e non di rado di conflitto; il bambino ha un’idea molto
vaga del tempo, non sa calcolarlo, neppure gli interessa, subisce le
conseguenze dei calcoli del tempo che su di lui fanno gli adulti di
riferimento, eppure il tempo è una questione cruciale nella sua esistenza di
bambino, perché il tempo è pressoché inseparabile dall’esperienza, neppure un
goccio del suo tempo può andare perduto senza gravi conseguenze. A cominciare
dalla nascita: prima del tempo o fuori del tempo c’è grave rischio per la
salute del bambino; e poi via via nelle esperienze evolutive: che cosa gli sta
capitando se ad un anno non sa ancora gattonare, se a due anni non ha ancora
iniziato a parlare, se a quattro anni non sa tenere in mano un pennarello? Ogni
cosa che non si compie nel tempo dovuto della sua crescita fisica e psicologica
preoccupa, e giustamente. Il tempo della crescita è un tempo dove i
rallentamenti significano problemi a cascata. La cura del tempo è uno dei più
grossi impegni della genitorialità.
Ma improvvisamente
il bambino che viene catapultato in questioni giuridiche, deve assoggettarsi ad
un uso del tempo costruito artificiosamente sulle questioni che si muovono
attorno a lui. Non è ragionevole, è in palese contraddizione con quanto afferma
la Costituzione, art. 111 sul “giusto processo”, che per essere tale dovrebbe
svolgersi in tempi ragionevoli.
3. Il pregiudizio sull’insignificanza dell’ascolto del bambino o sulla
credibilità del bambino testimone in suo
proprio danno. Il pregiudizio, tanto spesso espresso, circa l’importanza dell’ascolto del
bambino, rappresenta una grave violazione di quanto affermato nella Convenzione
di New York che riconosce, articolo 12, al bambino capace di formarsi una
propria opinione, il diritto di esprimerla liberamente e in qualsiasi materia,
dovendosi dare alle opinioni del bambino il giusto peso relativamente alla sua
età e maturità. Perciò, in tutti i procedimenti giuridici o amministrativi che
coinvolgono un bambino, deve essere offerta occasione affinché venga ascoltato
direttamente o indirettamente. Chiaramente questa disposizione apre un’ampia
discrezionalità da parte del giudice (quand’è che un bambino è capace di
formarsi una propria opinione? quel bambino lì è bene ascoltarlo direttamente?,
ecc.) da cui consegue un trattamento spesso difforme a seconda
dell’interpretazione soggettiva del grado di maturità del bambino in relazione
all’età e delle capacità del giudice di comunicare con il bambino, con il
risultato di situazioni di grave ingiustizia.
Inoltre, non si
possono dimenticare quelle situazioni di ascolto del minore, da cui il bambino
esce gravemente traumatizzato o penalizzato. Il bambino si trova al centro di
un conflitto di interessi tra i genitori e magari il giudice gli ha posto le
domande in modo tale da farlo sentire colpevolmente responsabile delle scelte
espresse. Oppure il bambino deve testimoniare di aver subito un danno di abuso
e si trova catapultato nel groviglio pressoché inestricabile
dell’attendibilità, fatta di competenza (capacità di collegare i fatti,
memoria, ecc.) e di credibilità (attinenza alla realtà), con il risultato che
la sua competenza subisce devastanti attacchi svalutativi, mentre la
credibilità crolla sotto il peso dell’impensabilità annullando definitivamente
la competenza.
4. Il pregiudizio sul diritto del bambino ad adeguata assistenza (legge
66/1996 articolo 609 decies, o l’appoggio di
un curatore quando si trova al centro di un conflitto di interesse). Di fronte al conflitto
d’interesse tra minore e genitori, quando il minore è presunta vittima, il
giudice assume il ruolo di esclusivo interprete del superiore interesse del
bambino, finendo così per essere pericolosamente interprete non già della
volontà del bambino, ma di ciò che ritiene essere più opportuno rischiando di
esercitare un potere non sempre allineato con atti di giustizia.
Perché quasi mai viene posto in
rilievo e garantito quel diritto all’assistenza in giudizio che pure viene
espresso in molte parti (ad esempio l’articolo 609 decies della legge 66/1996,
l’articolo 5 della Convenzione di Strasburgo)? Perché non si procede sempre
alla nomina di un curatore assicurando così un giusto processo e la terzietà
del giudice?
Siamo pienamente d’accordo con
l’affermazione di un importante giurista (il prof. Dogliotti) sul fatto che il
diritto minorile è «il diritto dei diritti del minore» e cioè il diritto che
sottolinea e raccorda quell’insieme di diritti, che sono propri di ogni
cittadino, ma che divengono precipuamente importanti in relazione a quelle
persone, i bambini, che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità.
Il «diritto dei minori», in questa
prospettiva, non può non essere considerato «il
diritto per i minori», un diritto che tiene conto dei bambini non solo e
non tanto per dirigere, contenere o correggere il comportamento degli adulti,
ma soprattutto un diritto che tiene conto dei bisogni della personalità in
crescita.
Sul fatto che il «diritto dei minori» venga sempre tenuto
presente dai giudici minorili come «diritto
per i minori» abbiamo purtroppo molte prove contrarie, che evidenziano una
cultura largamente adultocentrica delle aule dei tribunali in cui hanno la
sfortuna di transitare i bambini.
In troppe occasioni i giudici
fanno un uso del diritto in chiave difensiva («non chiedetemi nulla, è la legge che lo dice»), negano quella discrezionalità a vantaggio
dell’età minore di cui qua e là c’è pure qualche opportunità, non si battono
perché le esigenze dei bambini vengano riconosciute, non ritengono che battersi
per i bambini sia un doveroso segno di adultità anche da parte degli operatori
giuridici, e finiscono così per fare un uso improprio di una discrezionalità
che risulta discrezionalità fine a se stessa, la discrezione di negare il
diritto del bambino ad un accompagnamento specifico e peculiare quando si trova
in una situazione di conflitto d’interesse.
Intervento di Liliana Carollo
1976: Lucia ha cinque anni: eredito il suo caso perché, essendo morta la
madre, il suo caso è diventato di
competenza dell’Enaoli dove io lavoro da alcuni anni. Lucia si trova da quando
aveva sei mesi presso un istituto di suore dove sono ricoverati un’altra
cinquantina di bambini. È stata allontanata da casa perché la madre le dava da
bere vino invece che latte. Il padre è un uomo anziano, con gravi limiti
intellettivi. Non esistono altri parenti. La collega assistente sociale del Comune aveva segnalato con sollecitudine
il caso e il giudice aveva disposto l’allontanamento.
Entrambi, assistente sociale e giudice, avevano provveduto tempestivamente
alla protezione di Lucia, ma poi l’avevano dimenticata in istituto o meglio,
non si erano neppure posti il problema di pensare ad un’alternativa
all’istituto.
Eppure dal 1967
c’era la legge sull’adozione speciale. Perché non si è progettata per Lucia
un’adozione?
1985: Paolo ha dodici anni: per un cambio nella zona comunale di competenza
eredito da una collega il caso di
Paolo. Paolo è in istituto da quando aveva due anni. È stato allontanato da
casa insieme alle due sorelle poco più grandi di lui a seguito della
segnalazione dell’assistente sociale che ha rilevato una gravissima inadeguatezza di entrambi i
genitori. I tre i fratelli rientrano a casa ogni due settimane. Nel frattempo
la madre ha abbandonato completamente il marito e i figli e il padre è sempre
ubriaco.
A distanza di dieci anni Paolo è ancora in istituto e nessuno ha mai
pensato né pensa ora ad una alternativa.
Eppure dal 1983 c’è
anche la legge 184 sull’affido eterofamiliare. Perché non è stato fatto per i
tre fratelli un progetto di adozione o di affido familiare?
1999: Donatella ha sedici anni: eredito il suo
caso poiché lavoro per un periodo presso un consultorio familiare di un’Asl. Da
quando aveva dieci anni Donatella vive in un istituto; è stata allontanata
dalla famiglia essendo emerso un
sospetto abuso sessuale da parte del padre. La situazione era comunque
già nota all’assistente sociale per la
grave incapacità genitoriale di entrambi i genitori. L’istituto che l’ha
ospitata per sei anni sta per chiudere e quindi è necessario trovare
un’alternativa. L’assistente sociale che l’ha seguita finora è in grande
difficoltà nel trovare una nuova sistemazione per l’età della ragazza e
soprattutto perché il Comune di residenza non è disponibile ad assumere una
retta troppo onerosa. Un rientro a casa è assolutamente da escludere.
L’assistente sociale prende allora in considerazione l’idea di un affido
eterofamiliare.
Eppure la legge 184/1983 poneva
con chiarezza una priorità come alternativa ad una famiglia non idonea:
l’affido ad una famiglia; ad un singolo, ad una comunità di tipo familiare; il
ricovero in istituto è consentito solo ove non possibili queste collocazioni.
Perché per Donatella l’assistente sociale pensa ad un affido eterofamiliare
solo quando non è più possibile una istituzionalizzazione? Perché lo utilizza come ultima possibilità anziché
come prima possibilità?
Tre storie di
bambini che hanno passato molti anni in istituto, tra le tante simili, che ho
incontrato nella mia storia di assistente sociale: gli anni sono passati, ma la
prassi dei servizi sociali è rimasta la stessa.
Formulo perciò nei
confronti degli assistenti sociali la seguente accusa: gli assistenti
sociali che si occupano di tutela dei
minori si fermano alla protezione e non fanno progetti di tutela: a quei
bambini che non possono contare su genitori adeguati, che sono stati vittime di
trascuratezze, abbandoni, rifiuti,
maltrattamenti e abusi in famiglia, gli
assistenti sociali riservano spesso una protezione consistente unicamente nella
sistemazione presso strutture socio-assistenziali senza poi attivarsi per la
costruzione di un progetto per il loro futuro. Di conseguenza migliaia di
bambini vedono negato il loro diritto alla famiglia: la propria, opportunamente
riabilitata a esercitare sufficienti funzioni genitoriali, una famiglia
temporanea con l’affido eterofamiliare, una famiglia sostitutiva con
l’adozione, e sono costretti a vivere un tempo vuoto di significati che, per
sopravvivere, riempiono con attese illusorie, spesso irrealistiche e continuamente deluse.
Eseguito
l’allontanamento dalla famiglia disposto dall’autorità giudiziaria al termine
di un procedimento che quasi sempre è stato attivato a seguito di una
segnalazione inoltrata dagli assistenti sociali, unica categoria, fra quelle
degli incaricati di un pubblico servizio,
ad avere sempre preso sul serio l’obbligo della segnalazione di situazioni di
pregiudizio e di abbandono, portato il
bambino presso una struttura al riparo da ulteriori eventi dannosi, la maggior
parte degli assistenti sociali ritiene concluso il loro compito. Questa
sistemazione, spesso reperita con urgenza, considerata all’inizio provvisoria e
come tale presentata anche ai protagonisti della vicenda, compresi i bambini
allontanati, diventa invece, silenziosamente, col passare del tempo, definitiva. Una conferma della frequente
mancanza di un progetto per i bambini istituzionalizzati viene anche da un
confronto tra il numero dei minori presenti nelle strutture e il numero dei
minori in affido eterofamiliare, considerato che l’affido eterofamiliare è uno
dei possibili interventi alternativi all’istituzionalizzazione ed è l’esito di un progetto, almeno quando
viene utilizzato correttamente.
Quanti sono i bambini ricoverati
in istituti e strutture varie?
I pochi dati disponibili sono
vecchi e alquanto discordanti, segno, questo, del disinteresse generale verso
il problema dell’istituzionalizzazione dei bambini:
- secondo l’Osservatorio
nazionale sull’infanzia e l’adolescenza di Firenze, i minori presenti nelle
strutture residenziali erano al 30
giugno 1998 n. 14.910;
- secondo l’Istat erano al 31 dicembre 1999 n. 28.148, cioè quasi il doppio;
- per quanto riguarda il numero
degli affidi eterofamiliari, una ricerca dell’Osservatorio nazionale rilevava
al 30 settembre 1999 n. 4.668 minori in affido eterofamiliare.
Questi dati
confermano che, dopo la protezione, gli assistenti sociali non si attivano per
la formulazione e attuazione di un progetto di tutela e che si verifica di
conseguenza una massiccia negazione del
diritto alla famiglia, in violazione dello spirito e delle norme stabilite
dalla legge 184/1983. Eppure sappiamo con certezza che la privazione di un
ambiente familiare che offra possibilità di relazioni di attaccamento stabili e
sicure, produce danno, tanto più grave quanto più la privazione è precoce e
prolungata nel tempo. Se il danno sul piano psicologico era già stato
ampiamente documentato nei decenni scorsi, oggi le nuove scienze
neurobiologiche scoprono che i traumi causati da carenze relazionali e da legami di attaccamento inadeguati o
patologici con gli adulti di riferimento provocano danni anche di tipo
neurochimico e ormonale perché causano alterazioni al funzionamento della parte
più profonda del cervello.
Di fronte ad una prassi dei
servizi sociali che continua nonostante ciò a privilegiare per i bambini
maltrattati allontanati dalla famiglia l’istituzionalizzazione prolungata, non
si può non porsi alcune domande:
a) come mai, nonostante la legge e
la scienza, si continua a istituzionalizzare per anni i bambini, perfino i
neonati e i bambini piccolissimi?
b)
come mai al bisogno di famiglia dei bambini, gli assistenti sociali (e i
giudici) rispondono offrendo qualcosa
di così profondamente diverso da una famiglia, come una struttura?
c) perché gli assistenti sociali non si
attivano per garantire il rispetto dei diritto ad una famiglia per quegli
stessi bambini maltrattati che prima hanno contribuito in modo determinante a
proteggere?
«Io non credo nell’affido»: è la giustificazione spesso
portata da molti operatori per la mancata utilizzazione dell’affido
eterofamiliare come alternativa all’istituzionalizzazione. Talvolta capita di
sentire un’identica dichiarazione di mancanza di fede anche riguardo l’istituto dell’adozione. Non capita mai invece
di sentir dire «io non credo
nell’assistenza domiciliare» o «nel
centro diurno», ecc. Questa mancanza
di fede che viene riservata, tra i vari interventi di sostegno e di cura di un
bambino, solo all’affido eterofamiliare, è rivelatrice: si nega l’affido
eterofamiliare ad un bambino, e quindi gli si nega il diritto alla famiglia,
per motivazioni che poco hanno a che fare con una valutazione professionale, ma che hanno molto a che fare
con una credenza, cioè con conoscenze
pre-concette e con pre-giudizi (spesso condivisi da psicologi, neuropsichiatri,
giudici, ecc.) che gli assistenti sociali
si portano dietro e dentro nello svolgimento dell’attività
professionale della tutela dei minori.
Che le vicende che riguardano il maltrattamento dei bambini e la separazione
dalla famiglia attivino negli operatori che vengono a contatto con esse
emozioni e vissuti che sono il frutto
sia di esperienze personali che di quanto la cultura dominante pensa riguardo a
questi argomenti, è inevitabile, ma la professionalità dovrebbe consistere
anche nel saper riconoscere e gestire le proprie emozioni e i propri vissuti e
nel saper riconoscere e superare i propri pregiudizi affinché l’operato
professionale non ne venga influenzato in modo tale da ostacolare risposte appropriate ai bisogni degli
utenti. Come possono, altrimenti, gli assistenti sociali, essere operatori di sensibilizzazione ai
bisogni, di promozione dei diritti, di difesa dei diritti dei più deboli?
Qualsiasi intervento di aiuto sociale non dovrebbe
quindi rispondere ad una fede degli
operatori, ma dovrebbe essere scelto e progettato sulla base della previsione
della sua potenziale efficacia a risolvere i problemi degli utenti. Purtroppo
molti assistenti sociali non sembrano
consapevoli dei propri pregiudizi: del resto essi appartengono ad una categoria
di operatori scarsamente abituata alla
riflessione su di sé e sulla propria attività per vari motivi fra i quali la
cronica mancanza di tempo e i settori di attività diversificati in cui spesso
operano contemporaneamente (ancora oggi presso i Comuni di piccole
dimensioni le loro competenze vanno
“dalla culla alla tomba”), ma anche perché, in fondo, agli assistenti sociali
gli enti di appartenenza hanno sempre richiesto di “accogliere” e di “ascoltare”, non di risolvere i problemi.
Comunque, se queste possono costituire delle attenuanti, tuttavia da operatori
incaricati di proteggere e tutelare i bambini sarebbe legittimo aspettarsi
posizioni culturalmente più avanzate, una professionalità più affinata, e
una maggiore capacità di proposta e di
intervento nella politica sociale e nell’organizzazione dei servizi al fine di
rimuovere gli ostacoli ad una più efficace operatività.
Perché dopo un
allontanamento spesso non si procede a formulare un progetto per il minore e la
sua famiglia e si preferisce l’istituzionalizzazione prolungata alla
costruzione di una valida alternativa?
Per fare un progetto è necessario capire: servono diagnosi approfondite sui
vari soggetti e sulla qualità delle loro relazioni, quantificazioni dei danni e
individuazione di modi e tempi per la loro riparazione, valutazioni della funzione genitoriale e prognosi per il recupero. Ma
far emergere le violenze familiari, rilevare i comportamenti maltrattanti o
gravemente inadeguati dei genitori, misurare i danni da essi compiuti sui
propri figli, esprimere un giudizio sulla capacità genitoriale, tutto ciò viene
sentito come eccessivamente intrusivo della privatezza di una famiglia che
si riconosce ancora come custode del legame del sangue e del
mito dei buoni genitori, titolare di un
potere assoluto sui figli.
Ho sentito molte volte colleghi
esprimere varie preoccupazioni di fronte ad una ipotesi di affido
eterofamiliare quale progetto di tutela per un bambino allontanato dalla
famiglia per i possibili tempi lunghi dell’affido, per l’idoneità affettiva ed
educativa degli affidatari, per eventuali aspirazioni adottive mascherate da
parte della famiglia affidataria, per la capacità della famiglia affidataria di
affrontare i problemi posti dal bambino, per la sua disponibilità a
relazionarsi correttamente con la famiglia di origine, ecc.
Non ho mai sentito esprimere
preoccupazioni simili riguardo
l’inserimento di un minore in una struttura per un possibile protrarsi della
permanenza, per l’idoneità educativa della struttura e dei singoli
educatori (dei quali in genere non si conosce nulla, né della loro
storia personale né della preparazione e competenza professionale, per cui si
ignora se possiedano quei requisiti specifici di tipo
affettivo-relazionale e di formazione
che sono considerati così importanti quando si tratta di affidatari), per
i problemi e i bisogni presentati dagli
altri minori ricoverati e per l’impatto reciproco che possono avere storie
dolorose e traumatiche. Spesso non ci si assicura neppure che la struttura
abbia l’autorizzazione al funzionamento (per esempio, nell’anagrafe delle
strutture di accoglienza della Regione del Veneto di qualche anno fa
risultavano molto numerose quelle che non erano in possesso della prevista
autorizzazione al funzionamento, eppure da molti anni venivano loro affidati i
minori da parte del servizio sociale degli enti locali), né vengono assunte
informazioni sugli esiti della periodica vigilanza che dovrebbe essere attuata
da parte degli enti locali e dei giudici competenti.
Insomma, quando si
tratta di sistemare un bambino in una struttura, si colloca il minore dove c’è
un posto disponibile e dove viene praticata una retta non troppo onerosa (in
considerazione delle esigenze dell’ente pagatore), delegando completamente, col
passare del tempo, al personale della
struttura che chissà perché si dà per scontato che sia adeguato, la crescita
del minore, compresa la gestione dei suoi rapporti con la famiglia e con la
scuola.
Le motivazioni della scelta
frequente di prolungare a tempo indefinito la collocazione in struttura
privando i bambini di un futuro vivibile
vanno dunque cercate nella cultura adultocentrica di cui sono portatori,
spesso inconsapevoli (ma non incolpevoli) gli stessi operatori incaricati della
tutela dei minori, cultura che, essendo imbevuta delle esigenze degli adulti,
finisce per porre in secondo piano i bisogni, anche quelli vitali, come il
bisogno di famiglia, dei bambini.
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