Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre
2003
L’ATTORE
LINO BANFI DENIGRA L’ADOZIONE
Un gruppo
consistente di genitori adottivi e di altre persone ha inviato al Ministro
Prestigiacomo una lettera aperta per rispondere all’intervista rilasciata
dall’attore Lino Banfi al Corriere della
Sera del 9 ottobre 2003.
Il signor Banfi è stato
ambasciatore dell’Unicef ed è testimonial della campagna pubblicitaria sulle
adozioni patrocinata dal Ministero per le pari opportunità. Inoltre, sarà
protagonista di un film televisivo in due puntate che tratterà dell’adozione di
una bambina in Ucraina.
L’intervista pubblicata sul Corriere
della Sera
Roma - Una villa
abbandonata sull’Aurelia, all’estrema periferia di Roma: una costruzione
fatiscente, tetra, inquietante. Nella finzione filmica, rappresenta un
orfanotrofio ucraino: un luogo desolato, dove una trentina di bambini aspetta
di trovare una famiglia. È il set di “Raccontami una storia”, miniserie in due
puntate prodotta da Carlo Bixio della Publipei per Raifiction, di cui è
protagonista Lino Banfi, con la regia di Riccardo Donna e la sceneggiatura di
Ivan Cotroneo.
Una vicenda di
adozioni difficili: il colonnello in congedo Salvatore Sansone (Banfi) combatte
una battaglia legale per l’affidamento di una bimba, Mariuska, di 6 anni, che
sua figlia Laura (Aisha Cerami) e suo genero Marco, scomparsi drammaticamente
in un incidente d’auto, avevano adottato in un orfanotrofio sulle sponde del
mar Nero.
La fiction, girata
anche a Kiev, Peschiera del Garda e Gardaland, andrà in onda su Raiuno nel
prossimo febbraio. Stavolta, il famoso nonno Libero di “Un medico in famiglia”,
che a Natale pubblicherà la sua autobiografia (“Una parola è troppa e due sono
poche”), impersona un nonno adottivo.
Curiosa coincidenza:
proprio in questi giorni, l’attore pugliese, già ambasciatore dell’Unicef, è
testimonial, per il ministero per
le pari opportunità, di uno spot sulle adozioni. Perché? «Cerchiamo di dare una famiglia a tutti, anche se un papà e una mamma
adottivi non sono la stessa cosa di quelli veri. Io li ho visti i bambini
adottati e alcuni di loro, russi, moldavi, ucraini, fanno parte del cast del
film: anche se si trovano bene nelle nuove famiglie, anche se sono felici, se
hanno giocattoli e vestiti firmati, non sorridono, i loro occhi sono sempre
appannati da un velo di tristezza».
D. È stato difficile
entrare in sintonia con la piccola protagonista che la affianca nella storia?
R. «Patricia per fortuna ha i suoi genitori,
ma avendo davvero sei anni ed essendo straniera all’inizio era chiusa e
piuttosto restia a comunicare. L’ho dovuta conquistare a poco a poco e meno
male che, con i bambini sul set, ho una certa dimestichezza. Così, come ho
fatto con Annuncia per “Un medico in famiglia”, ho instaurato con Patricia un
rapporto di fiducia e d’affetto: un rapporto costruito giorno per giorno,
proprio come avviene nella storia del film. Sì, perché il colonnello Sansone
all’inizio non ha nessuna intenzione di fare il nonno».
D. Non vuole
responsabilità?
R. «Rivendica la sua libertà e la sua
autonomia. Sogna di andare in pensione, per potersi finalmente godere la vita
con i suoi vecchi amici. E quando la figlia, che non riesce a diventare mamma,
gli manifesta il desiderio di adottare un bambino, il vigoroso colonnello
ribatte: “Non è che poi mi piazzate a casa col nipotino... io mi voglio
divertire”. Tant’è, ma entrando in contatto col mondo degli orfanotrofi,
comincerà a sentirsi sempre più coinvolto. Finché, si ritroverà da solo con
Mariuska e, per tenerla con sé, si lancerà in spericolate avventure. Il
personaggio che interpreto mi piace proprio perché cambia e si evolve nel corso
della storia».
D. Non teme di
essere etichettato, artisticamente, come il “nonno d’Italia”?
R. «Non credo che i personaggi ti possano
incastrare in formule fisse: tutto dipende da come li interpreti. Quando ho
vestito i panni del frate in “Un posto tranquillo”, c’era gente che mi fermava
per strada salutandomi come fra’ Raniero. E poi, io sono nonno veramente: la
mia scuola sono i miei nipotini Virginia di 10 anni e Pietro di 5. Amo i
bambini e, lavorare con loro, mi ha insegnato molte cose: sono anime pulite,
schiette e, se non sei sincero con loro, te lo dicono in faccia e ti
rifiutano».
D. Nella realtà, lei
avrebbe adottato dei bambini?
R. «Ho avuto la fortuna di avere figli miei,
altrimenti certo che li avrei adottati. È che non ho più l’età, ma mi
piacerebbe tanto dare una famiglia ai bimbi di colore abbandonati. Come
ambasciatore dell’Unicef, ho girato molti paesi africani e le assicuro che
spesso mi sarei portato via qualcuna di quelle creature tristi e solitarie:
forse loro hanno più bisogno d’affetto degli altri».
D. Intanto però sta
scrivendo la sua autobiografia. Sentiva il bisogno di un bilancio esistenziale?
R. «Non vuole essere un vero bilancio, ma una riflessione a cuore aperto
sulla mia storia privata e su quella artistica. Il confronto è infatti tra
Zagaria, il mio vero cognome, e Banfi, lo pseudonimo d’arte. L’ho intitolata
“Una parola è troppa e due sono poche”, usando la frase che ripeto spesso in
“Un medico in famiglia” e che mi ha portato fortuna».
Testo della lettera
di risposta a Banfi
«Una madre è una sorgente di montagna, che nutre l’albero
alla radice. Una donna che diventa madre di un bambino nato da un’altra donna è
come acqua che evapora e si fa nube e vola in cielo per portare acqua ad un
albero nel deserto, solo».
Nel Talmud, da cui è
stato tratto questo brano, è molto chiaro cosa significhi la maternità per
adozione.
Si è madri di figli
che riconosciamo nostri per una nottata passata in bianco accanto a loro
febbricitanti, per un naso soffiato, per un sorriso impastato di sonno, per una
caramella succhiata, per un pianto e un bacio, per un capriccio e un abbraccio.
Figlio proprio. Figlio dell’amore, del desiderio e del combattimento. Figlio di
un parto sofferto e goduto tra sangue e dolore e gioia. Figlio di un parto
avvenuto nell’istituto di una terra lontana, prendendo una mano che si tende,
varcando la soglia di un futuro nuovo. Sono tutti figli. Egualmente propri.
Intensamente amati.
È per questo che
come genitori adottivi ci siamo sentiti profondamente offesi dalle parole di
Lino Banfi, ambasciatore Unicef e testimonial di uno spot su adozione ed affido
voluto dal Ministero delle pari opportunità, come riportate dal Corriere della Sera del 9 ottobre 2003:
«Cerchiamo di dare una famiglia a tutti, anche se un papà
e una mamma adottivi non sono la stessa cosa di quelli veri. Io li ho visti i
bambini adottati e alcuni di loro, russi, moldavi, ucraini, fanno parte del
cast del film: anche se si trovano bene nelle nuove famiglie, anche se sono
felici, se hanno giocattoli e vestiti firmati, non sorridono, i loro occhi sono
sempre appannati da un velo di tristezza».
I nostri figli,
ucraini, russi, moldavi, brasiliani, burkinabe’... e sempre e comunque
italiani, non corpo estraneo di questa società ma parte integrante del suo
futuro, sorridono con tutta l’anima.
E non certo per i
giocattoli o i vestiti firmati... Sanno bene che i loro genitori, i verissimi
genitori che li accompagnano adesso, sono con loro per sempre. Pronti ad
accompagnarli in capo al mondo per il loro bene, pronti ad essere la loro
memoria, a far tesoro del loro passato, a guidare il loro presente, a star loro
accanto nel futuro, ovunque essi vogliano andare, qualsiasi domanda vogliano
porre.
I nostri figli si
lanciano nella vita a capofitto, forti di noi e delle loro storie. I loro occhi
non sono velati, le loro anime non sono tristi.
Non esistono
genitori falsi, come non esistono figli per finta. Sono veri i genitori che li
hanno concepiti e siamo veri noi che li abbiamo adottati. Non esistono genitori
di serie A e serie B.
Non esiste l’amore
surrogato o di rimpiazzo. Esiste solo l’amore, quello forte, duro, quello che
fa stringere i denti, quello che fa sentire in paradiso, quello che rende
forti. L’amore tra genitori e figli. Non esiste un «per fortuna ho avuto figli miei». Perché i figli sono sempre
propri.
Per parlare di
adozione bisogna sapere bene in che mondo si sta navigando. Non basta sentire
pietà e compassione per un bambino visto o incontrato e... lasciato lì.
Anzi, la compassione
non c’entra proprio per nulla col primordiale desiderio che porta ad
incontrarsi madri, padri e figli. La compassione non c’entra nulla nemmeno coi
ricordi che tanti di noi si portano dentro. Ricordi di istituti, non tutti
tetri e miserevoli, ricordi di bambini rimasti ad aspettare, ricordi di
sguardi, di necessità. Ricordi di vita vera e non di finzione cinematografica o
televisiva.
Per queste sue
parole, ci chiediamo se la fiction annunciata per febbraio 2004 sulla realtà
delle adozioni in Ucraina possa davvero essere portatrice di una cultura
dell’adozione.
Temiamo invece che
possa essere dannosa propagando pregiudizi e preconcetti. Pregiudizi e
preconcetti che possono ritorcersi sui nostri figli... i nostri figli che
molti, magari influenzati dalla fama pubblica di un attore testimonial
dell’Unicef, immagineranno come esseri spenti dal destino, bambini da
compiangere e commiserare, bambini provenienti da realtà tetre e fatiscenti,
accolti in famiglie surrogate per un’opera buona o per impossibilità ad avere
“figli propri”, e quindi soprattutto per egoismo.
È per questo che siamo pronti a
boicottare il programma aspettando di sentire parole che rettifichino quelle
già dette e che facciano opera vera di cultura sulla genitorialità adottiva.
Comunicato stampa dell’Anfaa
Nel comunicato
stampa del 20 ottobre 2003, l’Anfaa dopo aver precisato di non ritenere
sufficienti le scuse di Lino Banfi riportate sul Corriere della sera del
16 ottobre 2003, segnala di aver chiesto al Presidente, al Direttore generale e
al Segretariato sociale della Rai di poter visionare la cassetta dello spot
sull’adozione promosso dal Ministero delle pari opportunità onde poter proporre
le eventuali opportune modifiche prima della sua andata in onda.
Infatti, troppe volte –
puntualizza l’Anfaa – abbiamo visto trattare in televisione il tema
dell’adozione in modo scorretto e fuorviante, con inevitabili negative
ripercussioni sulla serenità dei nostri figli e pertanto vorremmo portare il
nostro contributo allo scopo di evitare gli errori del passato e favorire la
costruzione di un messaggio positivo e rispondente alla realtà.
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