Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre
2003
LA RISORSA FAMIGLIA NEI PROGETTI EDUCATIVI
DEI SOGGETTI CON HANDICAP GRAVISSIMO
Riportiamo la relazione di Maria Grazia Breda al
convegno “La gestione multidisciplinare e multiprofessionale della gravissima
disabilità” (Torino, 2-3 ottobre 2003), organizzato dall’Asl 3 - Torino,
dall’Unità operativa “Medicina fisica e riabilitazione”.
1. La
famiglia può essere risorsa, se le istituzioni sono al suo fianco
Per
parlare di progetto educativo familiare è necessario porre la famiglia in condizione
di poterlo programmare e attuare. La nostra esperienza conferma una cosa assai
ovvia: la famiglia è il luogo migliore per crescere, anche per chi ha una
situazione di gravità notevole, ma a precise condizioni. La famiglia deve
sentirsi accettata e sostenuta dalla comunità in cui vive e non deve far
fronte, da sola, a impegni che sono più che mai gravosi, richiedono dedizione
personale, grandi sacrifici, oneri economici considerevoli che si protraggono
per molto tempo al punto che oggi ci troviamo per la prima volta a dover
affrontare il problema dell’invecchiamento dei figli “gravissimi” con genitori
già a loro volta molto anziani.
A
questo riguardo osservo che nel libro bianco sul welfare predisposto dal
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, uno degli obiettivi di fondo
indicati riguarda proprio il sostegno alla famiglia. Infatti, viene giustamente
affermato che «la famiglia è stata e
continua ad essere un potente ammortizzatore sociale, agendo da sistema di
protezione dei propri componenti nei passaggi cruciali delle fasi del ciclo di
vita e in occasione di particolari eventi critici (nascita di figli,
disoccupazione, malattia, ecc.)» e che «la
solidarietà e lo scambio reciproco di aiuti tra genitori e figli è fondamentale
e svolge un ruolo centrale nelle reti di aiuto informale».
Tuttavia,
non vorremmo che detto supporto fosse meramente strumentale e finalizzato a
limitare il campo degli interventi garantiti dal settore pubblico. Nel libro
bianco, infatti, non sono previste le risorse economiche necessarie per
sostenerne i relativi oneri. Già nelle leggi 104/1992, 162/1998 e 328/2000
viene solo ribadita la validità degli interventi domiciliari in alternativa al
ricovero in istituto, ma alle affermazioni di principio non sono seguiti i finanziamenti
necessari a rendere esigibili i diritti
per i soggetti interessati e le loro famiglie. Continuiamo ad avere “diritti di
carta”, perché tutti i servizi alternativi al ricovero (assistenza domiciliare,
servizio di aiuto personale, centri diurni) sono erogati compatibilmente con le
risorse disponibili. Le istituzioni non hanno obblighi e, quindi, non è
possibile esigere questi servizi, neppure quando si è in presenza di soggetti in situazione di gravità.
In
questo momento, i soli diritti esigibili sono quelli limitati al ricovero.
Per
quanto concerne i Comuni l’obbligo ad intervenire si evince chiaramente
dall’ancora vigente regio decreto n. 773 del 18 giugno 1931, che recita: «Le persone riconosciute dall’autorità di
pubblica sicurezza inabili a qualsiasi lavoro proficuo e che non abbiano mezzi
di assistenza né parenti tenuti agli alimenti ed in condizioni di poterli
prestare, sono proposte (…) per il ricovero in un istituto di assistenza e
beneficenza del luogo o di altro Comune (…)». Si tenga presente che spetta
al soggetto interessato o, se interdetto, al suo tutore, la facoltà (non
l’obbligo) di avanzare la richiesta degli alimenti.
In
ambito sanitario le norme in vigore a partire dal 1955 fino a quelle più
recenti, sanciscono in modo inequivocabile il diritto alle cure sanitarie senza
limiti di durata per tutti i malati, compresi quelli affetti da patologie
invalidanti. Anche in questo ambito, però, il solo diritto esigibile oggi è
quello che riguarda la possibilità di ricovero in strutture sanitarie. Nulla
invece è previsto neppure per le Asl - in termini cogenti - per quanto concerne
il diritto degli utenti ai servizi di cura domiciliari e/o ai centri diurni. Inoltre, non è contemplato
il rimborso per le notevoli spese che devono sostenere le famiglie, che
continuano ad occuparsi dei propri congiunti affetti da malattie croniche e
invalidanti.
Sarebbe
dunque indispensabile che, oltre a riconoscere il ruolo importante svolto dalla
famiglia nell’accoglienza di un suo congiunto in situazione di gravità, lo
Stato e, quindi, il Governo attuale, le Regioni, le Asl e gli Enti locali
stabilissero finalmente il diritto per il cittadino che ne ha i requisiti ad
esigere i Lea (Livelli essenziali di assistenza) dal Servizio sanitario
nazionale e regionale e i Liveas (Livelli essenziali di assistenza sociale) dal
settore socio-assistenziale.
2. La
metodologia adottata dal Csa per sostenere la famiglia di un soggetto
“gravissimo”
La mia
relazione si avvale dell’esperienza maturata dalle ventidue associazioni che
aderiscono al Csa - Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base
in oltre trent’anni di volontariato a difesa dell’affermazione del diritto alle
prestazioni sociali e assistenziali delle persone che, a causa della gravità
delle loro condizioni fisiche e/o intellettive, non sono in grado di difendersi
autonomamente.
Inoltre
considererò anche quanto maturato nell’ambito della tutela del diritto alle
cure sanitarie per chi è affetto da malattie croniche invalidanti e non
autosufficienza, comprese quelle di natura psichiatrica. Alcuni di questi
soggetti possono manifestare anche insufficienza mentale o altre menomazioni di
natura sensoriale.
In
entrambi i casi le persone coinvolte spesso vengono definite con lo stesso
termine di “disabile gravissimo”, ma dall’esperienza abbiamo imparato che per
aiutare correttamente la famiglia di un soggetto in situazione di gravità a
ottenere l’aiuto di cui necessita per continuare ad occuparsi del proprio
congiunto, la prima azione da perseguire è stabilire la causa che crea il
bisogno per individuare qual è l’ente tenuto a intervenire in base alle leggi
vigenti.
Per il
Csa aiutare l’interessato o il familiare a costruire un progetto educativo
significa, infatti, anche sostenerlo nella richiesta dei servizi di cui
necessita per mantenere il più a lungo possibile la persona in situazione di
gravità nell’ambito del proprio ambiente familiare e sociale.
È
quindi inderogabile capire innanzitutto se dobbiamo rivolgerci al Servizio
sanitario nazionale, perché la persona è affetta da malattie gravi che causano
anche la non autosufficienza; oppure se dobbiamo rivolgere le nostre richieste
al Comune singolo o associato, per cui le sue esigenze sanitarie sono analoghe
a quelle dei cittadini cosiddetti normali.
In
questo caso è nostra premura verificare con l’interessato, se ne ha le capacità
e/o con la sua famiglia, se ha usufruito e usufruisce di tutti gli interventi
sociali a cui ha diritto come ogni altro cittadino: scuola, formazione
professionale, lavoro, casa e trasporti accessibili, prestazioni sanitarie
adeguate…
La
richiesta di assistenza, infatti, dovrebbe essere inoltrata solo nel caso in cui tutti gli interventi di
cui sopra, pur erogati, non sono comunque sufficienti a soddisfare le esigenze
della persona.
Preciso
infine che non utilizzerò la definizione “disabili gravissimi”, ma:
–
soggetti con handicap fisici, intellettivi e/o sensoriali in situazione di
gravità, con limitata o nulla autonomia, quando siamo in presenza di persone
con una menomazione;
–
soggetti affetti da malattie invalidanti e non autosufficienza, quando la causa
che determina la loro condizione di non autosufficienza è la malattia.
Le
ragioni sono le seguenti:
a) handicap è un termine che preferiamo
per riferirci alle persone che hanno subito una menomazione. Si tratta di una
espressione utilizzata nel campo ippico per indicare il percorso più lungo che
i cavalli migliori devono affrontare in modo da rendere più equilibrata la
competizione. Per analogia la persona handicappata è quindi l’individuo che,
nel corso della sua vita, deve affrontare più difficoltà, più handicap degli
altri, per arrivare alla meta che è l’autonomia, un lavoro, un buon grado di
soddisfazione personale e di considerazione sociale. Una definizione in
positivo che mette in primo piano il ruolo attivo della persona;
b) disabile è un termine che non ci
soddisfa perché è in contrasto con il fatto ampiamente dimostrato che la
stragrande maggioranza delle persone sono in grado di svolgere una attività
lavorativa, anche se in alcuni casi ridotta, come i soggetti con handicap
intellettivo o con sindrome di Down; il termine “disabile” non è idoneo neppure
per indicare chi è affetto da malattie croniche invalidanti. Infatti, finora si
è dimostrato un modo per non riconoscere il loro status di malati e, quindi, in
pratica si è negato il loro diritto alle cure sanitarie. Volutamente in molte
situazioni si è presa in considerazione solo la “disabilità” conseguente alla
malattia, come la perdita dell’utilizzo della capacità di deambulare,
trascurando la causa determinata dalla malattia. In tal modo non solo è stata
negata ogni forma di prevenzione alla cronicità, ma anche la cura della
malattia stessa, che può alternare momenti di stabilità ad altri di acuzie;
c) diversamente abile non è
una proposta soddisfacente, perché a nostro avviso può forse soddisfare una
parte di soggetti, soprattutto con handicap fisici e/o sensoriali, ma non tiene
conto della realtà di quei molti che, nonostante tutti gli interventi che si
possono assicurare loro, continuano ad essere così gravi da non permettere in
alcun modo l’espressione di una loro diversa abilità.
3. Per
costruire un progetto educativo valido è necessario fare chiarezza sulla causa che
determina la condizione di “gravissimo”
Il
termine “gravissimo” non aiuta a comprendere quali sono i bisogni della
persona, che sono profondamente diversi a seconda se siamo in presenza di un
soggetto che ha una menomazione che limita la sua autonomia in parte o in modo
totale, oppure se siamo in presenza di una gravità che è conseguenza ad una
malattia cronica invalidante.
Si
tratta di due situazioni che presentano bisogni profondamente diversi e, fatto
per noi importantissimo, regolamentate da norme di legge differenti, che
implicano la responsabilità dei Comuni o del Servizio sanitario nazionale, a
seconda se si rientra in una condizione piuttosto che nell’altra.
Ritengo
che un aiuto alla ricerca di chiarezza in tal senso sia giunto dalla nuova
classificazione dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), laddove si
precisa che «malattia e disabilità sono
costrutti distinti che possono essere considerati indipendentemente» (pag.
10, Icidh-2 Classificazione internazionale del funzionamento e delle
disabilità, Erickson, Trento 2000) e che «la
menomazione fa parte di una condizione di salute, ma non indica necessariamente
la presenza di una malattia o che l’individuo dovrebbe essere considerato
malato» (pag. 14, Ibidem).
Questa
affermazione è particolarmente importante perché:
a) in primo luogo si contrasta
una vecchia concezione che considera la persona handicappata sempre come una
persona malata. Questo modo di pensare
per molto tempo ha significato la condanna a percorsi assistenziali a
vita per migliaia di persone che avrebbero potuto essere formate e inserite
positivamente al lavoro e nella vita sociale in forma autonoma. Con questa
nuova analisi l’Oms si sforza in particolar modo di far comprendere una volta
per tutte come la menomazione non impedisca di per sé alla persona di essere
attiva e di partecipare positivamente alla vita della società. Certamente molto
dipende dall’ambiente in cui è inserita e da come questo saprà aiutarla a
superare le difficoltà oggettive che la menomazione comporta. Tuttavia, non
bisogna dimenticare che comunque vi saranno sempre delle persone che, a causa
della gravità della loro menomazione, pur aiutate, continueranno a non
raggiungere una autonomia sufficiente e avranno necessità di essere assistite.
Quando
si è in presenza di una menomazione fisica, intellettiva o sensoriale si può
concludere che una persona può essere considerata “gravissima” o meglio “in
situazione di gravità” (per assumere la definizione entrata ormai in uso e
introdotta dall’art. 3 della legge 104/1992, legge quadro sull’handicap) quando
la menomazione limita in modo totale la sua autonomia al punto da richiedere
prestazioni continue di sostegno;
b) in secondo luogo l’Oms
sottolinea che la disabilità è altro dalla malattia cronica invalidante, da cui
può anche discendere una menomazione, ma questa è sempre e solo conseguente
alla malattia e come tale va considerata.
In
questo caso la condizione di “gravissimo” è determinata dalla malattia cronico
invalidante, da cui consegue uno stato di non autosufficienza nell’espletamento
delle attività quotidiane fondamentali per la vita: mangiare, lavarsi,
assolvere i bisogni fisiologici, assumere farmaci indispensabili, ecc. così
come inteso in ambito sanitario. Pertanto possiamo concludere che molte persone
cosiddette “disabili gravissimi” sono in realtà soggetti affetti da gravi
patologie che necessitano di cure sanitarie costanti e continue, senza le quali
è a rischio stesso la loro vita.
Tra
queste troviamo sia soggetti adulti, ancora pienamente in grado di agire
autonomamente per molti anni della loro vita, nonostante la grave malattia,
come ad esempio chi è affetto da sclerosi multipla, sia soggetti affetti da
gravi patologie a cui si associa anche
insufficienza mentale. In questa tipologia, a nostro avviso, rientrano
anche tutti quei soggetti che sono affetti da malattie rare a cui sovente è
associata insufficienza mentale, come la sindrome di Prader Willy, o i casi di
persone affette da gravi forme di psicosi e insufficienza mentale.
4. La famiglia deve sapere qual è l’ente che deve intervenire e a cui può rivolgersi per realizzare il progetto educativo più idoneo a soddisfare le esigenze del figlio gravissimo
L’importanza
di fare chiarezza sulla causa che determina la condizione di “gravissimo”
deriva dalla necessità di assicurare diritti certi ed esigibili all’interessato
e alla sua famiglia. In particolar modo tale esigenza è sentita in questo
momento di grandi mutamenti normativi, a seguito dell’introduzione dei livelli
essenziali di assistenza in materia sanitaria, per effetto dell’art. 54 della
legge 289/2002, che ha reso legge il Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri) 29.11.2001.
Per
quanto enunciato al punto 2, l’ente responsabile e titolare della prestazione,
in base alle norme di legge vigenti, va individuato ad avviso del Csa come
segue:
–
l’Asl nel caso si tratti di un soggetto affetto da patologie croniche
invalidanti, in quanto è prevalente l’elemento malattia (1);
– il
Comune (singolo o associato) nel caso si tratti di una persona con handicap
fisici, sensoriali o intellettivi, con limitata o nulla autonomia e priva dei
mezzi necessari per vivere. Anche queste persone possono avere esigenze di
natura sanitaria, ma queste sono tali da essere soddisfatte attraverso le
prestazioni normalmente erogate dal Servizio sanitario nazionale e regionale
come per ogni altro cittadino.
5. La
famiglia deve essere protagonista, con la commissione di valutazione, del
progetto educativo
A
questo proposito è necessario un mutamento profondo di atteggiamento nei
confronti della famiglia da parte degli enti preposti alla valutazione del
soggetto “gravissimo”. Ancora troppo di frequente la famiglia è esclusa dalle
decisioni di insegnanti, operatori sanitari e/o sociali. Spesso, purtroppo, il
progetto educativo viene usato come pretesto per non rispettare i diritti degli
interessati, ridurre l’intervento delle istituzioni e scaricare sulle spalle
della famiglia responsabilità e costi che sono e devono essere a carico della
collettività.
Da
tempo chiediamo una revisione delle attuali commissioni di Uvh (Unità di
valutazione dell’handicap), dove operano congiuntamente operatori delle Asl e
degli Enti locali. Mi riferisco in particolare alla situazione che si presenta
alla famiglia che chiede aiuto per proseguire il progetto educativo al termine
del percorso realizzato nella scuola dell’obbligo.
È
accaduto, purtroppo, che allo scopo di ridurre le spese dell’Asl e/o del
Comune, si siano ridotti gli interventi assistenziali a prescindere dalle
reali esigenze della persona
handicappata in situazione di gravità e
senza alcuna considerazione delle richieste della famiglia (2) o, peggio, siano
stati negati interventi sanitari, non tenendo conto della condizione di
malattia del soggetto.
È il
caso, frequente, di soggetti con gravi forme di psicosi e insufficienza
mentale, impropriamente collocati in centri diurni assistenziali o comunità
alloggio per handicappati intellettivi, perché
le Asl non vogliono programmare interventi residenziali e
semiresidenziali idonei a soddisfare le esigenze di questa tipologia di soggetti.
Vi sono state anche conseguenze pesanti in alcune realtà: aggressioni ad
esempio da parte di questi soggetti nei confronti degli altri utenti, con la
messa a rischio dell’incolumità degli uni e degli altri (3).
In
tutti questi casi è la malattia a creare la condizione di gravità e la
conseguente non autosufficienza. Il nostro ente di riferimento per chiedere
sostegno ed aiuto per la persona e per la sua famiglia non può che essere il
Servizio sanitario nazionale, al quale da tempo chiediamo di reimpostare i suoi
servizi domiciliari e residenziali in modo da diversificare le risposte tenendo
conto delle esigenze dei malati cronici non autosufficienti.
Inoltre,
l’aumentata possibilità di sopravvivenza sia dei neonati con gravi menomazioni
e malattie, sia delle persone che hanno subito incidenti e/o malattie
invalidanti, a nostro avviso costringe inevitabilmente il settore sanitario a
dover incrementare le risorse e gli interventi.
Mancano
le risorse?
Credo
che siamo ormai giunti ad un bivio in cui non possiamo continuare a raccontarci
delle storie. Se da un lato la sanità e la ricerca si adopera per aumentare le
probabilità di vita in senso generale, dall’altro bisognerà in ugual misura
adoperarsi perché questa vita in più sia qualitativamente valida, anche se ci
ritroviamo in condizioni gravissime e dipendiamo in tutto e per tutto
dall’aiuto di altri.
Credo
che sia quanto mai opportuno inviare messaggi significativi a chi governa, affinché sia finalmente aumentata
la percentuale del prodotto interno lordo (Pil), destinata dal nostro Paese
alla spesa sanitaria, tenuto contro che tra l’altro è ormai stato riconosciuto
da tutte le parti che si tratta di una percentuale tra le più basse, nonostante
in Italia si muoia in proporzione meno che negli altri Stati europei e anche in
confronto agli Usa.
Nulla
esclude che – se non si vogliono imporre tagli in altri settori meno
fondamentali – si debba pagare qualche cosa di più. Unica condizione richiesta
è che le risorse incamerate siano
effettivamente impiegate allo scopo, come è stato fatto per l’anno 2003 dalla
Regione Piemonte che ha aumentato di una piccola percentuale l’Irpef, per far
fronte all’emergenza dei posti letto di ricovero in Rsa-Raf per gli anziani
cronici non autosufficienti.
Per
tranquillizzare chi teme che i cittadini protestino, rinvio alla ricerca che è
stata effettuata dall’Associazione nuovo welfare (4), intervistando un campione
di 20 mila persone. Dai dati raccolti emerge che «non è vero che in cima ai desideri degli italiani ci sia il taglio
delle tasse». Anzi «le tasse possono anche aumentare purché
allo stesso tempo migliorino e si sviluppino i servizi» (5). Dal rapporto risulta che «il 64% degli utenti (quasi due su tre) è
disposto a fare il sacrificio, mentre solo il 22 pensa che sia meglio pagare di
meno per avere meno servizi». Ancora più alta (80%) è la percentuale degli
italiani convinti che «il Servizio
sanitario debba restare fondamentalmente pubblico e gestito dalle Regioni».
Bisogna
prendere atto che l’aumentata possibilità di sopravvivenza sia dei neonati con
gravi menomazioni e malattie, sia delle persone che hanno subito incidenti e/o
malattie invalidanti, costringe il settore sanitario a reimpostare i propri
servizi domiciliari e residenziali in modo da diversificare la risposta tenendo
conto delle effettive esigenze delle persone malate coinvolte.
Per
tornare al ruolo dell’Uvh, spero che sia davvero rivista l’attuale
impostazione, meramente amministrativa, perché è invece necessario un momento
di valutazione oggettiva, finalizzato a mettere la famiglia del soggetto gravissimo in condizione di individuare
il servizio più idoneo (e non quello che è presente nel territorio ma non
adeguato a quella persona). Il progetto educativo deve proseguire anche dopo la
scuola dell’obbligo e la commissione Uvh può davvero svolgere un ruolo
importante per capire le reali autonomie possedute o che si potrebbero
sviluppare con adeguati percorsi o aiutare la famiglia ad accettare la
condizione di gravità offrendo servizi
assistenziali e/o sanitari in suo aiuto.
Quindi
il compito dell’Uvh dovrebbe essere quello di valutare mediante visita e non
solo limitatamente alla visione dei documenti se:
– il
soggetto presenta una minorazione conseguente ad una malattia cronico
invalidante e, quindi, le sue esigenze devono trovare una risposta adeguata
nell’ambito dei servizi sanitari regionali;
– il
soggetto presenta una menomazione fisica, sensoriale e/o intellettiva e,
quindi, dovrà essere accertato se vi sono potenzialità lavorative per
indirizzarlo ai competenti servizi per il lavoro, oppure, se ci troviamo in
presenza di un handicap in situazione di gravità con limitatissima o nulla
autonomia si tratta di assicurare il diritto all’accesso ai servizi
socio-assistenziali, concordando con la famiglia la prestazione più idonea. In
questo caso, che è il tema del giorno, valutare le esigenze dell’interessato
significa considerare anche le necessità della famiglia che, anche se si rende
disponibile a continuare ad essere “il luogo di vita” per il figlio maggiorenne
in situazione di gravità, non per questo deve essere costretta a rinunciare - se non per propria scelta - ai
propri impegni lavorativi e sociali.
La
decisione in merito alla frequenza del centro diurno a tempo pieno (otto ore al
giorno per cinque giorni alla settimana) piuttosto che a tempo parziale,
l’intervento domiciliare di supporto aggiuntivo al centro diurno o alternativo al centro diurno stesso, sono
scelte che devono essere decise con la famiglia per metterla sul serio in
condizione di provvedere adeguatamente alle esigenze del figlio. In ogni caso
dovrebbe essere prevista la possibilità per la
famiglia di ricorrere contro il parere della commissione Uvh,
analogamente a quanto previsto in ogni altro tipo di valutazione. Anche per
l’esame da parte dell’Uvh dovrebbe essere riconosciuto sia all’interessato che
alla sua famiglia il diritto di potersi fare assistere da persone di sua
fiducia.
Chiediamo
inoltre che sia prevista alle associazioni di volontariato la possibilità di intervenire a tutela degli
interessi degli utenti che non sono in grado di difendersi autonomamente e/o
nel caso in cui i familiari e/o i tutori chiedono il loro appoggio.
6. Le istituzioni possono essere responsabili del fallimento del progetto
educativo familiare
A mio avviso
un ruolo determinante e prioritario dovrebbe essere svolto dalle istituzioni
per prevenire situazioni anche tragiche. Proviamo a capire che cosa può
comportare per una famiglia decidere di accogliere, anche in età adulta, un
figlio in situazione di gravità con limitatatissima autonomia o affetto da
patologie croniche invalidanti e non autosufficienza.
Il caso di Anna, handicappata con limitata o nulla autonomia a causa della
gravità della menomazione
Anna ha 16
anni ed è affetta da una tetraparesi spastica dalla nascita. Non parla,
non può stare in posizione eretta, passa dal letto alla carrozzina. Deve essere
imboccata, alzata, mobilizzata, cambiata perché incontinente. La sua
menomazione l’ha resa totalmente priva di autonomia, ma non le ha impedito di
frequentare l’asilo nido, la scuola materna e la scuola dell’obbligo, perché
comunque riesce a comunicare empaticamente con chi si mette in relazione con
lei. Anna è una persona che, a causa della gravità della menomazione, non potrà
essere avviata al lavoro. I problemi, per la famiglia di Anna, si presentano al
termine del percorso scolastico-formativo. Entrambi i genitori di Anna lavorano
e hanno anche un altro bambino. Non pensano minimamente a ricoverare Anna, ma
si rendono conto che hanno bisogno di un servizio che garantisca loro la
copertura di una parte della giornata, per poter continuare a svolgere la loro
attività lavorativa. Inoltre pensano che la figlia debba poter continuare ad
avere occasioni di incontro con realtà esterne all’ambiente famigliare. Anna è
una persona “gravissima”, un soggetto handicappato in situazione di gravità,
con una autonomia limitatissima, che potrà restare a casa propria, pur
presentando una grave menomazione, se i suoi bisogni (e quelli della sua
famiglia) troveranno una risposta corretta nei servizi sociali e assistenziali
del proprio Comune.
Il caso di Daniela, affetta da malattie cronico invalidanti e non
autosufficienza
Daniela ha 34 anni e vive in famiglia. Anche lei ha
bisogno di essere lavata, nutrita, vestita a causa di una grave forma di
malattia che le impedisce di assumere anche solo la posizione eretta nella
carrozzina. I genitori hanno fatto costruire una speciale sedia a sdraio per
alternare il letto e portarla fuori, anche se con molta fatica. Daniela ha
inoltre gravi problemi respiratori ed è soggetta a facili infiammazioni delle
vie aree, con rischio di broncopolmoniti nel periodo invernale. Inoltre ha una
grave forma di epilessia e necessita di clisteri evacuativi, che vengono
praticati da un’infermiera privata. Daniela è una persona “gravissima”, ma la
causa della sua gravità ha origine nelle pluripatologie di cui soffre e che
causano la sua non autosufficienza. È riuscita a frequentare - anche se non con
regolarità - la scuola media. Adesso Daniela si è ulteriormente aggravata.
Oltre alla madre e alle prestazioni dell’infermiera, è necessario anche
l’intervento di una terza persona che si alterna con lei di giorno e di notte.
Daniela ha bisogno di essere girata ogni due-tre ore, non può mai essere
lasciata da sola. La famiglia si è rivolta alla nostra associazione perché se
non verrà aiutata in qualche modo, si vedrà costretta a chiedere il ricovero
della figlia. Questo fatto addolora profondamente la madre, che è combattuta
tra il desiderio di continuare ad occuparsi della figlia e il bisogno di
salvare il matrimonio, visto che il padre di Daniela ormai ha fatto capire di
non reggere più la situazione. C’è anche un problema economico non
indifferente. La famiglia è benestante, ma ormai, visti i lunghi anni di
assistenza assicurati a Daniela parte del patrimonio è sfumato, anche perché la
madre ha dovuto abbandonare il lavoro. Per aiutare la famiglia di Daniela, che
è un soggetto affetto da malattie croniche invalidanti e non autosufficienza, è
indispensabile il sostegno dell’Asl che dovrebbe assicurare le prestazioni
domiciliari di cui necessita e/o un centro diurno dove Daniela possa essere
seguita da personale idoneo in modo da alleviare la famiglia per una parte
della giornata.
Di
fronte a queste situazioni la famiglia può reagire in molti modi, non sempre
purtroppo positivi per sé e per il figlio.
Sappiamo
che vi sono famiglie che si chiudono in
se stesse di fronte al grande dolore che comporta la nascita di un bambino così
diverso da come lo si era atteso e immaginato. Resistono fin che possono con le
loro forze, ma si possono verificare pesanti conseguenze: rottura di un
matrimonio, ricovero anticipato del figlio e nella maggioranza dei casi
riduzione della capacità economica, perché quasi sempre un coniuge
(generalmente la madre) abbandona l’attività lavorativa.
Nel
documento dell’ottobre 2000 della Presidenza del Consiglio dei Ministri si
legge che ben due milioni di famiglie italiane sono scese sotto la soglia di
povertà, nel 1999, per aver dovuto sostenere da sole l’assistenza di un proprio
congiunto affetto da una malattia cronica.
Non
mancano poi, purtroppo ogni anno, i casi di omicidi-suicidi che coinvolgono
genitori ormai disperati, che vedono nella morte del figlio e di se stessi
l’unica soluzione ai loro problemi. Come possiamo parlare di progetto educativo
familiare, se la famiglia ha dovuto impiegare energie e risorse personali ed
economiche così grandi che ad un certo punto è diventato persino faticoso solo
vivere?
In
questi casi il fallimento è provocato dalle istituzioni, che non hanno saputo
aiutare concretamente i loro membri più deboli.
7. Come le istituzioni dovrebbero aiutare la famiglia di chi è in
situazione di gravità per costruire un progetto educativo
Va capovolta la mentalità che punta a caricare la famiglia di obblighi che
sono anche della società di cui fa parte. Se la famiglia accetta e riconosce il
minore handicappato, tanto più se grave, bisogna che sia sostenuta
nell’accoglienza anche nei passaggi successivi. È dalla presa in carico
iniziale, che possiamo assicurare anche al bambino handicappato in situazione
di gravità i percorsi più corretti e idonei a sviluppare le sue potenzialità,
quando ci sono, o per permettere alla famiglia di continuare ad occuparsi delle
sue esigenze, anche se tra mille difficoltà, ma con la certezza di poter
contare sull’appoggio di servizi presenti al momento del bisogno.
Pertanto chiediamo:
Sostegno alle gestanti e madri nubili
Ancora
frequenti sono i casi in cui il bambino handicappato viene rifiutato alla
nascita o, peggio, abbandonato anche nei cassonetti. In questi casi è mancata
una corretta azione di prevenzione e di informazione capillare. Non si è stati
capaci di comunicare alla gestante che non sarebbe stata sola con il suo bambino
e che avrebbe potuto contare su servizi sociali certi; non si è saputo
trasmettere la conoscenza sulla possibilità di non riconoscere il neonato e di
essere rassicurati sul fatto che per lui si può aprire la possibilità di
un’adozione e/o di un affidamento familiare. Le famiglie disponibili, anche di
fronte a situazione di gravità, ci sono, ma le istituzioni devono saperle
coltivare e sostenere anche successivamente.
Sostegno
alle famiglie adottive e affidatarie
In una
lettera aperta ai giornali a proposito della vicenda del bambino Down non
riconosciuto alla nascita, l’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive e
affidatarie, che aderisce al Csa, aveva evidenziato che, per quanto riguarda i
genitori aspiranti adottivi di un bambino handicappato anche con gravi
difficoltà e/o limitazioni personali, le adozioni difficili sono più frequenti
di quanto si pensi. Tuttavia non mancava di sottolineare che «importante sarebbe che a questa crescente e
responsabile disponibilità delle coppie facesse riscontro un adeguato sostegno
da parte delle istituzioni (Regioni, Enti locali, magistratura minorile) e dei
servizi sociali».
Consulenza
educativa alla nascita
L’istituzione
di un servizio di “consulenza educativa domiciliare rivolto alla primissima
infanzia colpita da handicap” è stato chiesto dal Csa all’Assessorato
all’istruzione e sistema educativo per l’infanzia (e non all’assistenza) del
Comune di Torino, perché rientra appunto nell’ambito di un percorso formativo.
Come
precisa Enza Cavagna, che oggi è la responsabile del suddetto servizio (6) «il servizio di consulenza educativa
domiciliare ha l’obiettivo di accrescere le capacità della famiglia ad
accogliere, accettare ed aiutare il proprio bambino afflitto da handicap,
offrire un appoggio educativo che lo stimoli, ne faciliti lo sviluppo, ne
agevoli l’inserimento in una struttura educativa e scolastica adeguata. Più è
precoce il contatto con la famiglia, che vive il dramma della nascita di un
bambino affetto da patologie, più diventa possibile superare quei momenti di
sfiducia, di rifiuto, di impotenza che si impadroniscono della famiglia
accompagnandola in un percorso di maturazione e crescita psicologica e
aiutandola a superare il disorientamento nell’individuazione dei servizi
pubblici sanitari, educativi, assistenziali cui fare riferimento per far fronte
ai bisogni del bambino».
Il
progetto educativo familiare passa quindi in primo luogo dalla rivalutazione
del ruolo della famiglia stessa come protagonista attiva di un percorso di
crescita, ma supportata passo passo dalle istituzioni che di volta in volta le
sono necessarie.
Diritto
alla frequenza prescolastica e scolastica, anche se in situazione di gravità
Dobbiamo
garantire il diritto alla frequenza all’asilo nido, alla scuola materna, alla
scuola dell’obbligo come previsto dalle leggi vigenti, ma con l’impegno di
porre fine ai mille ostacoli con cui quotidianamente viene messa in crisi
l’integrazione scolastica di quegli allievi che hanno necessità di assistenza e
tutela sanitaria a causa della gravità delle loro condizioni. I tagli al
personale, l’insufficienza delle figure professionali specialistiche delle Asl
a supporto degli insegnanti, per non parlare del trasporto che viene assicurato
ma tra mille difficoltà, e degli insegnanti di sostegno che non sono quasi mai
assegnati all’inizio dell’anno scolastico e in misura sufficiente al bisogno
dell’alunno.
Con
quale serenità d’animo può la famiglia permettersi di dedicare del tempo a
mettere a punto un progetto educativo con il figlio, la scuola, i servizi
dell’Asl e/o quelli socio-assistenziali, se non è sicura di ottenere ciò cui ha
diritto e che dovrebbe essere garantito dalle istituzioni?
È
indegno che ultimamente, sempre allo scopo di risparmiare sulla pelle di chi è
più debole e a scapito delle esigenze degli handicappati con gravi limitazioni
personali, si sia suggerito - e in alcuni casi anche già introdotto - il
ricorso al volontariato per supplire alle carenze di personale di assistenza. I
volontari non devono mai sostituire il personale titolare di un servizio. Il
loro è un ruolo importantissimo, ad esempio, nel tempo libero, a fianco della
famiglia.
Diritto all’assistenza educativa domiciliare,
quando è necessario supportare la famiglia oltre la scuola dell’obbligo.
Diritto alle cure domiciliari da parte del Servizio sanitario regionale (e
non una astratta possibilità di ottenere il servizio come è previsto
attualmente) nel
caso di soggetti affetti da malattie croniche invalidanti, unitamente a ogni
altro intervento sanitario necessario per favorire la permanenza a domicilio
della persona.
Diritto al centro diurno assistenziale al
termine dell’obbligo scolastico e formativo, assicurando alla famiglia il
diritto di chiedere la frequenza per cinque giorni alla settimana e per almeno
otto ore al giorno, per chi a causa della menomazione non può essere avviato in
attività formative finalizzate ad un suo inserimento lavorativo proficuo.
Per i soggetti affetti da malattie croniche invalidanti con o senza insufficienza
mentale o per gli ultradiciottenni affetti da psicosi e insufficienza mentale o
con gravi problemi relazionali, la realizzazione del centro diurno dovrebbe
essere a carico del Servizio sanitario nazionale con la messa a disposizione
di risorse e personale idoneo.
Il
progetto educativo svolto nell’ambito delle attività diurne dovrebbe continuare
per quanto possibile anche a casa o, perlomeno, dovrebbero essere previsti
momenti di confronto con la famiglia al fine di puntare al raggiungimento di
obiettivi comuni e al mantenimento dei livelli massimi di autonomia.
Riconoscimento del volontariato intra-familiare sull’esempio positivo della
delibera approvata il 16 gennaio 2001 dal Cisap, Consorzio dei servizi alla
persona fra i Comuni di Collegno e Grugliasco, a sostegno finalmente del riconoscimento del ruolo sociale svolto
dalle famiglie, che era stato promosso
da Prospettive assistenziali (7), già
dal 1998.
Nella
delibera citata si afferma infatti che al soggetto in situazione di gravità «deve essere assicurato in primo luogo, in
analogia con quanto previsto a tutela dei minori, il diritto di essere educato
nell’ambito della propria famiglia» (8).
Inoltre, si prende atto che un gran numero di soggetti, riconosciuti
invalidi al 100 per cento dalle apposite commissioni mediche, nonostante la gravità
delle loro condizioni fisiche ed intellettive, continua a essere accolto dai
propri congiunti anche dopo il raggiungimento della maggiore età.
È riconosciuto, inoltre, che l’attività di supporto svolta dai congiunti
dei soggetti handicappati in situazione di gravità ultradiciottenni è assai
importante per la qualità della vita di queste persone e consente inoltre di
realizzare economie di spesa agli enti istituzionalmente preposti a garantire
la collocazione residenziale ai disabili gravi privi del sostegno familiare.
Come risulta dal provvedimento del Cisap, la spesa annua per il ricovero in
strutture residenziali di 13 soggetti
con handicap intellettivo grave ammonta a 1 miliardo e 186 milioni di vecchie
lire, mentre per la sperimentazione del volontariato intrafamiliare dello
stesso numero di utenti, la spesa prevista è di 90 milioni a cui vanno aggiunti
422 milioni concernenti il costo per la frequenza del centro diurno.
Per tali ragioni viene riconosciuto alla famiglia un contributo economico –
aggiuntivo alle prestazioni assistenziali erogate, come ad esempio la frequenza
del centro diurno – affinché «possa
avvalersi di un supporto quotidiano che le consenta momenti di tregua nei quali
recuperare le forze e provvedere alle questioni personali ed agli impegni
familiari e sociali».
Il
volontariato intrafamiliare non solo assicura una migliore qualità della vita
alle persone con handicap intellettivo grave, ma consente anche forti risparmi
da parte delle istituzioni, per cui auspichiamo che analoghe delibere siano
presto adottate da tutti i Comuni singoli e associati per promuovere la
permanenza a domicilio dei loro cittadini maggiorenni in situazione di gravità.
Analoga delibera dovrebbe essere assunta dalle Asl per
riconoscere il volontariato intrafamiliare svolto dalle famiglie che accolgono
soggetti maggiorenni affetti da malattie cronico invalidanti.
Diritto
ad una piccola comunità alloggio quando la famiglia non è più in grado di
accogliere il figlio in situazione di gravità e non sono attuabili forme di
affidamento familiare
In considerazione dei gravi sacrifici della famiglia, da sempre la nostra
richiesta alle istituzioni è quella di
programmare per tempo la realizzazione di piccole comunità alloggio in contesti
abitativi che siano inserite in un tessuto sociale nor-male.
Chiediamo, inoltre, che possano accogliere non più di otto soggetti in
situazione di gravità, con al massimo due posti previsti per offrire un momento
di sollievo alle famiglie che continuano ad accogliere i propri figli gravissimi
a casa, ad esempio anche solo per i fine settimana, come si sta sperimentando
nel Comune di Torino o per casi di pronto intervento.
La
comunità, per poter riproporre un ambiente familiare, deve ricostruire il clima
familiare e favorire il più possibile l’integrazione con la realtà sociale in
cui è collocata. Per questo non può essere collocata in un edificio in cui vi
siano altre tipologie di soggetti assistiti (anziani autosufficienti e non,
malati psichiatrici), né può essere realizzata in zone isolate, dove sia
difficile per la famiglia continuare a seguire il proprio figlio. È chiaro che
in questo caso non possiamo parlare di progetto educativo, ma la relazione
affettiva tra genitori e figli continua e va coltivata. Entrambi hanno il
diritto di potersi incontrare e frequentare e, per i genitori che diventano
anche molto anziani, vi è anche il diritto a non dover affrontare lunghi viaggi
per poter vedere il proprio figlio.
Piccole comunità a carattere familiare dovrebbero essere attivate dalle Asl, sull’esempio della Rsa dell’Asl 3, ma con non più di 10 pazienti affetti da
malattie cronico invalidanti (o soggetti con psicosi con o senza insufficienza
mentale). Anche in questo caso è l’Asl che dovrebbe mettere a disposizione
proprie risorse e personale idoneo alla cura di questi malati secondo quanto
stabilito dalle norme vigenti richiamate alla nota 1.
Non
tartassare economicamente la famiglia di un soggetto in situazione di gravità
Ai soggetti riconosciuti in situazione di gravità ai sensi dell’art. 3
della legge 104/1992 e/o frequentanti un centro diurno assistenziale o
ricoverati in strutture residenziali vanno applicate le disposizioni di cui
all’art. 25 della legge 328/200 e dei rispettivi decreti legislativi 109/1998 e
130/2000. Pertanto l’interessato deve contribuire al pagamento della quota
alberghiera in base alla propria situazione economica. Ogni richiesta alla
famiglia è illegale e contraria ad ogni principio etico.
A questo riguardo credo che sia quanto mai calzante l’affermazione «errare humanum est, perseverare diabolicum»
utilizzata dal magistrato Massimo Dogliotti in un articolo scritto per Prospettive assistenziali (9) a proposito delle rette di ricovero a carico
dei parenti e dell’ostinazione con la quale gli enti pubblici perseverano, per
l’appunto, nel non rispettare le leggi dello Stato.
Infatti, l’obbligo di assistenza di una persona maggiorenne inabile e
sprovvista dei mezzi necessari per vivere, ai sensi del primo comma dell’art.
38 della Costituzione, è posto in capo ai Comuni e non alla famiglia.
Anche
le leggi in materia sanitaria sono molto chiare al riguardo, per cui il diritto
alla cura è soggettivo e può essere avanzato semplicemente con la richiesta
dell’interessato o del suo tutore al Servizio sanitario nazionale.
(1) In base alle normative nazionali vigenti il Servizio
sanitario nazionale e regionale ha l’obbligo di intervenire per la prevenzione
e la cura di tutti i cittadini malati, compresi i “disabili” siano essi
autosufficienti o non autosufficienti, guaribili o inguaribili, giovani o
anziani; i Comuni devono intervenire nei confronti dei soggetti in difficoltà
(con o senza handicap) in base al 1° comma dell’art. 38 della Costituzione che
afferma: «Ogni cittadino inabile al
lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale». Nei punti 4, 5 e 6 dell’art. 3 septies del decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni e integrazioni
si precisa che:
«4. Le prestazioni
sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono caratterizzate da
particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria e
attengono prevalentemente alle aree materno infantile, anziani, handicap,
patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcool e farmaci, patologie per
infezioni da Hiv e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità
conseguenti a patologie cronico-degenerative.
«5. Le prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria sono assicurate dalle aziende sanitarie e comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria, secondo le modalità individuate dalla vigente normativa e dai piani nazionali e regionali, nonché dai progetti-obiettivo nazionali e regionali.
«6. Le prestazioni
sociali a rilevanza sanitaria sono di competenza dei Comuni, che provvedono al
loro finanziamento negli ambiti previsti dalla legge regionale ai sensi
dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112. La Regione
determina sulla base dei criteri posti dall’atto di indirizzo e coordinamento
di cui al comma 3 il finanziamento per le prestazioni sanitarie a rilevanza
sociale, sulla base di quote capitarie correlate ai livelli essenziali di
assistenza».
(2) Cfr. La lettera inviata dalla sig.ra M.P.
all’Assessorato ai servizi sociali del Comune di Torino e la risposta del
Dirigente del settore handicap del Comune, in Controcittà, n. 9/10, 2002.
(3) Cfr. La lettera aperta al Direttore sanitario
dell’Asl 6 distribuita dalle associazioni Grh e Prader Willy di Venaria-Druento
(To) e Oltre il Ponte di Lanzo (To), pubblicata in Nonsolocontro, febbraio 2003.
(4) Cfr. La Stampa
del 14 agosto 2003.
(5) Cfr. la
Repubblica del 25 giugno 2003.
(6) Enza Cavagna, “Consulenza educativa domiciliare: un
servizio per la primissima infanzia colpita da handicap”, Prospettive assistenziali, n. 142, 2003.
(7) Cfr. “Proposta di delibera sul volontariato
intrafamiliare”, Prospettive
assistenziali, n. 123, 1998 e “Seconda proposta di delibera sul
volontariato intrafamiliare rivolto ai congiunti colpiti da malattie invalidati
e da non autosufficienza”, Ibidem,
n., 124, 1998.
(8) Cfr. “Approvata la prima delibera sul volontariato
intrafamiliare”, Ibidem, n. 133,
2001.
(9) Cfr. Massimo Dogliotti, “Ancora sul pagamento delle
rette di ricovero a carico dei parenti: errare humanum est, perseverare
diabolicum”, in Prospettive assistenziali,
n. 138, aprile-giugno 2002.
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