Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre
2003
ATTUALITÀ
DELLA PACEM IN TERRIS
CLAUDIO CIANCIO (*)
È un’impressione
contraddittoria quella prodotta dalla rilettura della Pacem in terris quarant’anni dopo. I contenuti dell’enciclica sono
per certi aspetti ovvi e scontati e per certi altri talmente disattesi e
trascurati da apparire quasi sorprendenti. Sul piano pastorale l’enciclica,
uscita durante il Concilio, apriva la Chiesa a un grande impegno di dialogo con
il mondo superando pregiudizi, timori e tradizionali steccati. Si ricordino la
famosa distinzione fra errore ed errante e l’invito alla collaborazione anche
con persone e movimenti di ispirazione ideologica atea. E si ricordi
l’attenzione ai cosiddetti segni dei tempi, a cui il Papa guardava con
attenzione e favore: dalla crescita del ruolo sociale della donna,
all’affermazione dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali in generale,
alla richiesta di dignità e di uguaglianza per i popoli in via di sviluppo, al
ruolo importante che l’Onu sembrava poter assumere.
Sul piano dottrinale
non vi erano a ben vedere vere e proprie novità. Forse l’unica era una certa
correzione, sia pure espressa in forma indiretta, della tradizionale dottrina
della guerra giusta. Nel § 67 si diceva infatti: «Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le
eventuali controversie tra i popoli non possono essere risolte con il ricorso
alle armi, ma invece attraverso il negoziato», persuasione fondata sugli
effetti devastanti di un’eventuale guerra atomica, «per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la
guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Quel “quasi” è
un residuo omaggio reso alla dottrina tradizionale, che del resto viene
abbandonata solo a partire da condizioni pratiche e non da un vero e proprio
mutamento di principi; in ogni caso si trattava di un segnale importante.
Ma al di là di ciò
il valore dell’enciclica sta nell’individuare e nell’approfondire i presupposti
e le condizioni della pace. Quattro sono per Giovanni XXIII i pilastri su cui
edificare la pace, e cioè la verità, la giustizia, l’amore e la libertà. In
questo modo si va alla radice del problema e si dà alla pace un respiro ben più
ampio di quello strettamente politico. Lo spazio maggiore dell’enciclica è
infatti dedicato alla difesa di quei diritti e doveri e di quelle strutture e
azioni sociali che costituiscono non solo la condizione ma anche la sostanza
della pace. Un significativo passo ulteriore su questo piano sarà compiuto solo
da Giovanni Paolo II, che a quelle quattro condizioni aggiungerà il perdono
inteso anche nella sua valenza giuridica e politica come necessario complemento
alla giustizia.
Un ampio sviluppo è
dato ai temi della libertà di coscienza e dei diritti sociali, economici e
culturali. La formulazione di questi diritti è molto spesso netta e
circostanziata e va al di là dell’enunciazione dei fondamentali diritti di
libertà. Vale la pena rileggere a questo proposito il § 6: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica,
ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita,
specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione,
il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; ed ha quindi il
diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di
vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di
sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà». È un paragrafo
che delinea uno stato sociale integrale, di cui possiamo vedere solo
realizzazioni molto imperfette, ed è notevole in esso il fatto che venga posta
sul piano dei diritti una serie di interventi che tanto il pensiero cattolico
quanto quello liberale avevano confinato (e in molti casi continuano a
confinare) sul piano della beneficenza e del volontariato.
Si aggiungano poi i
diritti riguardanti i valori morali e culturali (§ 7), tra i quali è
interessante notare «il diritto
all’obiettività nell’informazione» e quello «di accedere ai gradi superiori dell’istruzione sulla base del merito;
cosicché gli esseri umani, nei limiti del possibile, nella vita sociale coprano
posti e assumano responsabilità conformi alle loro attitudini naturali e alle
loro capacità acquisite». La distanza che ci separa da queste
rivendicazioni di diritti è misurata dal fatto che oggi non sono più nemmeno
avvertiti come diritti, ma tutt’al più come generici e vacui auspici. Nella
società dell’informazione onnipotente e manipolata l’obiettività non si
capisce nemmeno che senso abbia; lo stesso vale per la pretesa di accedere ai
posti di responsabilità sulla base dei propri meriti.
Per quanto riguarda
i diritti economici gli aspetti più rilevanti e anche oggi per nulla scontati
sono l’attenzione alle condizioni di lavoro e soprattutto «il diritto di svolgere le attività economiche in attitudine di
responsabilità». È chiaro come questo diritto limiti «il diritto di libera iniziativa in campo economico» e quello «di proprietà privata sui beni anche
produttivi»; come pure li limita il principio per cui «al diritto di proprietà privata è intrinsecamente inerente una
funzione sociale» (§ 10). Certo si tratta di contenuti non sempre
chiaramente determinabili e che, più di altri, traggono alimento da una
sensibilità culturale e politica, che oggi sembra quasi totalmente assente, dal
momento che il dogma del mercato appare dominante e inattaccabile. La lettura
dell’enciclica dà invece l’impressione di considerare il mercato soltanto una,
e neanche la principale, delle condizioni dell’attività economica.
In molti casi, come
in quelli citati, l’enciclica apparentemente non introduce novità rilevanti
nell’enunciazione dei diritti, e tuttavia presenta svolgimenti e accentuazioni
che ne arricchiscono e concretizzano il contenuto. Ciò vale anche per la
ripresa di un’importante affermazione della Mater
et magistra, secondo la quale «la
creazione di una ricca gamma di associazioni o corpi intermedi [...] si rivela
un elemento necessario e insostituibile perché sia assicurata alla persona
umana una sfera sufficiente di libertà e di responsabilità»
(§ 11).
È un richiamo in
apparenza scontato; in realtà significa che una società e uno stato in cui non
siano sviluppati i corpi intermedi di partecipazione e di mediazione sociale e
politica (partiti, sindacati, movimenti, associazioni) e prevalga invece il rapporto
diretto e passivo della base verso i capi sono una società e uno stato in cui
non è assicurata alla persona libertà e responsabilità. Non ci vuole molto per
applicare al presente questa considerazione. Anche qui però non si tratta
soltanto di istituti giuridici manchevoli o mancanti, ma anzitutto di
orientamenti culturali e politici, senza i quali le enunciazioni di principio
si svuotano di contenuto.
È quel che la stessa
enciclica ricorda quando all’enunciazione dei diritti fa seguire quella dei doveri
(individuali e sociali) e, ricordando che il riconoscimento dei diritti non è
sufficiente, chiede che «ognuno porti
generosamente il suo contributo alla creazione di ambienti umani, in cui
diritti e doveri siano sostanziati da contenuti sempre più ricchi» (§ 16) e
ammonisce che «una convivenza fondata
soltanto su rapporti di forza non è umana» (§ 17). Facilmente discorsi come
questi vengono marchiati oggi con la stupida accusa di “buonismo”. E certo c’è
il rischio (e la Chiesa l’ha corso e continua a correrlo) di affidare
all’esortazione e alla buona volontà ciò che invece andrebbe codificato e
realizzato come diritto. Ma non possiamo dimenticare come l’enunciazione dei
diritti e gli stessi istituti deputati alla loro realizzazione facilmente si
svuotino e si snaturino quando manchi l’attenzione, la sensibilità culturale e
la volontà politica di dare sostanza a quei diritti.
Notevole è anche il
rilievo dato nell’enciclica a diritti e doveri oggi particolarmente importanti
e largamente disattesi. Così il diritto di emigrazione (§ 12) o «il principio che tutte le comunità
politiche sono uguali per dignità di natura; per cui ognuna di esse ha il
diritto all’esistenza, al proprio sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo, ad
essere la prima responsabile nell’attuazione del medesimo; e ha pure il diritto
alla buona reputazione e ai dovuti onori» (§ 49); o ancora il dovere da
parte delle nazioni più sviluppate di sostenere le più deboli rispettandone «i valori morali e le peculiarità etniche»
e agendo «senza propositi di predominio
politico» (§ 66). E infine va ricordata l’importanza decisiva che viene
assegnata alla costruzione di «poteri
pubblici aventi autorità sul piano mondiale e dotati di mezzi idonei a
perseguire efficacemente gli obbiettivi che costituiscono i contenuti concreti
del bene comune universale» (§ 72). Sono enunciazioni che nel contesto
internazionale odierno ricevono più smentite che conferme.
Quando uscì,
l’enciclica ebbe una forte risonanza e contribuì a creare un clima più
favorevole al disarmo e alla pace. Un clima di ottimismo che traeva alimento
anche da altre aspettative non prive di qualche ingenuità. Penso in particolare
a una certa euforia un po’ acritica per i risultati della scienza e della
tecnica, dalla quale anche l’enciclica si lasciava contagiare: «I progressi della scienze e le invenzioni
della tecnica attestano come negli esseri e nelle forze che compongono
l’universo regni un ordine stupendo; e attestano pure la grandezza dell’uomo
che scopre tale ordine e crea gli strumenti idonei per impadronirsi di quelle
forze e volgerle al suo servizio» (§ 18).
L’efficacia del
messaggio dell’enciclica era fondata anche su questo ottimismo capace di
mobilitare energie morali e di diffondere un clima di fiducia non privo di
ricadute politiche. Ora la situazione è cambiata non solo riguardo alle
potenzialità positive della scienza e della tecnica, ma soprattutto riguardo
alle convinzioni morali che in ultima istanza, come sosteneva l’enciclica, sono
i veri sostegni di un programma di pace. O più precisamente è il nesso fra
principi etici e culturali, da una parte, e realizzazione degli istituti di
pace, dall’altra, ciò che viene trascurato, facendo di essa una questione quasi
esclusivamente giuridica e politica e così rendendola infondata e inconsistente.
Per questo, come dicevo, i diritti e i doveri richiamati dall’enciclica come
pilastri della pace restano in molti casi sulla carta e prevale nei loro
confronti un atteggiamento di cinismo, che dietro il paravento di un formale
ossequio ne fa oggetto di malcelato disprezzo e di conseguente aperta
violazione.
La Pacem in terris ci ricorda che la pace è
un fatto estremamente complesso a cui concorrono molteplici fattori e che
proprio per questo non può essere affidata a operazioni di ingegneria giuridica
e politica. Anzi credo che si debba riconoscere che la pace eccede la politica:
essa è e deve restare il fine della politica, ma, da un lato, le sue condizioni
sono di ordine culturale e morale e, dall’altro, se la pensiamo più
radicalmente – come l’enciclica invita a fare – conduce al di là della
politica, alla sua fine. Almeno nel senso che la politica non può fare del
tutto a meno della lotta, non può fare a meno di adottare strumenti e
atteggiamenti non del tutto coerenti con il fine della pace, e perciò questa,
intesa come integrale e feconda comunione degli uomini al di là dei conflitti,
resta in certo modo un ideale utopico, una stella polare dell’azione politica,
che questa non può mai pretendere di realizzare compiutamente, ma senza la quale
essa non può che degenerare.
Uno dei lasciti
importanti dell’enciclica, considerata nel duplice volto sopra ricordato di
messaggio allo stesso tempo accolto (nei suoi principi) e rifiutato (nella loro
esecuzione), potrebbe allora essere proprio il riconoscimento del ruolo del
cosiddetto prepolitico (e aggiungerei: del postpolitico) e cioè delle
condizioni non ancora o non più politiche per cui principi e progetti politici,
fondati su un sostegno convinto, diventano efficaci e consistenti.
In un momento storico
come questo, in cui non solo i progetti di pace vanno in frantumi, ma i
fondamenti della convivenza sociale e dell’ordine politico si vanno
dissolvendo, forse l’impegno maggiore va rivolto, prima ancora che ai programmi
politici e sociali, alla ricostruzione culturale e morale del tessuto civile. E
su questo terreno la Pacem in terris
offre ancora uno stimolo e un contributo importante.
(*)
Professore ordinario di filosofia teoretica, Università del Piemonte orientale.
www.fondazionepromozionesociale.it