Prospettive assistenziali, n. 144, ottobre-dicembre 2003

 

sicurezza delle strutture sanitarie e qualità delle prestazioni

pierantonio Visentin (*), Silvano Battaglio (*), Luciana paradisi (**)

 

 

 

Recentemente l’Ispesl (Istituto superiore prevenzione e sicurezza del lavoro) e la Regione Piemonte hanno fornito le statistiche sugli incidenti e sul rischio di infezioni presenti nelle strutture sanitarie. Si tratta di un numero di eventi ragguardevole, cui sono potenzialmente esposti, ogni giorno, moltissime persone che devono frequentare luoghi di cura in qualità di utenti, visitatori, volontari, lavoratori, studenti. Le ripercussioni possono essere particolarmente rilevanti per due categorie: le persone più fragili (cioè i malati, soprattutto i più gravi e quelli con minor grado di protezione sociale) e i soggetti esposti ai rischi per tempi più lunghi (cioè i lungodegenti e i lavoratori, e, fra i lavoratori, in particolar modo quelli precari).

Tuttavia il problema è ancora poco conosciuto. La scarsa diffusione di una cultura della prevenzione e della sicurezza è un elemento che contraddistingue l’Italia fra i Paesi comunitari, al punto che più volte la Corte di giustizia europea ha dovuto sanzionare il nostro Paese per inadempienza o erroneo recepimento delle direttive comunitarie in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Purtroppo negli ultimi anni si è fatta più grave la carenza di dibattito politico e sociale sul tema, che è spesso abbandonato al silenzio o in preda alla disinformazione e ai luoghi comuni.

In contrasto con ciò, esistono strumenti normativi ed esperienze realizzate che hanno permesso interventi efficaci di tutela. Il ripercorrere alcune fasi di queste attività, partendo dalle situazioni di rischio e arrivando all’identificazione delle strategie di prevenzione, può essere un utile mezzo per sottolineare che la necessità di proteggere tutti è affiancata dal dovere di tutelare maggiormente i più deboli.

 

Le condizioni strutturali dei luoghi di cura in Italia

 

Dopo il rogo dell’ospedale Galeazzi di Milano sono aumentate le attenzioni dei cittadini per le condizioni in cui versano gli ospedali italiani. Un rapporto del Tribunale per i diritti del malato, pubblicato nel 1999 dopo un’indagine condotta in 40 ospedali nazionali, riportava molti dati preoccupanti: fili elettrici scoperti (44% delle osservazioni), colature o chiazze d’acqua (65%), presenza di barelle o letti aggiuntivi (42%), mancata conoscenza del piano di evacuazione (70%, ma nel 38% dei casi il piano non esisteva), vie di fuga ostruite (25%), presenza di topi e scarafaggi (20%), mancanza di lavabo in stanza (60%).

Il 12 ottobre 2000 tutti i quotidiani riportavano, riprendendola per più giorni, una dichiarazione del Ministro della sanità, prof. Umberto Veronesi, che affermava che la metà degli ospedali italiani era così fatiscente da meritare la chiusura. Peraltro quelle dichiarazioni non avevano elementi che consentissero di distinguere fra le varie situazioni e, soprattutto, erano prive di contenuti proget­tuali.

La situazione non è migliore nelle comunità che ospitano disabili ed anziani, talvolta oggetto di attenzioni da parte degli organi ispettivi, anche su sollecitazione delle associazioni degli utenti. Un’indagine del “Laboratorio di scienze della cittadinanza”, svolta nel 1997 su 55 residenze sanitarie assistenziali italiane, documentava l’assenza di bagni attrezzati per disabili nel 38.2% dei casi, la mancanza di locali per la riabilitazione (30% circa), l’assenza di una portineria (33.6%), segni di fatiscenza (16.7%). È sorprendente il dato sull’assenza di macchine lavapadelle (45.5%), considerando l’elevata presenza di incontinenti. Nelle case di riposo, i problemi sono aggravati dal fatto che la legge sull’assistenza ha assegnato ai Comuni molte competenze e le amministrazioni che si occupano di assistenza sociale, oltre ad essere meno competenti per i problemi di igiene nei luoghi di cura, lamentano problemi economici non meno rilevanti delle amministrazioni sanitarie.

A fronte di una situazione così preoccupante, si osserva un atteggiamento fatalistico, che ricorre artatamente ad alcuni luoghi comuni (“la struttura non è a norma”, “se viene la vigilanza la chiudono subito”, ecc.), come se non esistesse nulla di intermedio tra la perfezione e il degrado, come se non si potesse fare nulla per migliorare. Un atteggiamento di questo tipo può essere spiegato solo con il tentativo di rinviare le decisioni e di attribuire ad altri le responsabilità, contribuendo, di fatto, alla stagnazione dei problemi. È questo un atteggiamento un po’ maldestro, che minimizza l’importanza dell’impiego ottimale delle risorse presenti (umane e materiali), enfatizzando la carenza di risorse economiche. È pur vero che esistono importanti vincoli di spesa, ma è anche vero che nella pubblica amministrazione molti costi sono considerati solo come voci al passivo, non come investimenti che consentono ricadute positive e veri e propri risparmi sia per la riorganizzazione delle attività, sia per la riduzione di eventi indesiderati e di incidenti, i cui costi sociali sono davvero ragguardevoli. Eppure esiste una legge (n. 67, del 1988!) che all’articolo 20 prevede finanziamenti statali per i lavori di adeguamento strutturale degli ospedali italiani. Incredibilmente quei fondi sono sempre rimasti poco o nulla utilizzati, con un continuo rimbalzo di responsabilità tra gli organismi regionali e il governo centrale!

 

I pericoli e le conseguenze per la salute

Una commissione della Regione Piemonte, istituita per fronteggiare i problemi delle infezioni ospedaliere, ha recentemente stimato che in Piemonte una persona su dieci va incontro ad un’infezione durante un ricovero. Le infezioni ospedaliere aumentano la mortalità, prolungano la degenza, creano nuove disabilità, aumentano i costi sociali. Molti di questi eventi sarebbero prevenibili. Si tratta di circa 65 mila complicazioni all’anno, riguardanti principalmente le infezioni polmonari, del sangue, delle vie urinarie, delle
ferite.

Le cause sono molteplici: condizioni di promiscuità (con scarsa possibilità di effettuare un corretto isolamento degli infetti), mancanza o carenza di procedure (o vincoli che non ne permettono la corretta adozione), incuria, errore umano (facilitato dalla carenza di personale e di formazione), presenza di cantieri senza adeguato isolamento delle polveri, sovrapposizione dei percorsi puliti e sporchi (specie nelle aree chirurgiche), carenze delle strutture e della strumentazione. Alcuni germi resistenti agli antibiotici (es. stafilococco aureo) sono diventati pressoché ubiquitari negli ospedali e nelle case di riposo, eppure sono poco applicati i rimedi e vi è scarsa offerta di alternative (es. politiche di rafforzamento delle cure domiciliari).

Non meno preoccupanti sono le conseguenze cui è esposto il personale sanitario. L’Ispesl ha documentato che i medici e gli infermieri sono tra i lavoratori maggiormente colpiti da infortuni, poiché gli ospedali sono luoghi di lavoro pieni di insidie: agenti biologici, sostanze chimiche, radiazioni, attrezzature sofisticate. Per fronteggiare i rischi l’Istituto ha elaborato sei linee-guida sul rischio biologico, sui farmaci antitumorali, sulle sale operatorie, sulle camere iperbariche, sul pronto soccorso, sullo spostamento dei pazienti.

L’allarme per gli incidenti negli ambienti sanitari è stato lanciato anche da un documento programmatico della Comunità europea (Salute e sicurezza: la strategia Ue 2002-2006), che sottolinea la necessità di approfondire e fronteggiare le complesse aggregazioni di rischi cui sono esposti i lavoratori nei luoghi di cura. Infatti, le interazioni fra i rischi chimici, fisici e biologici sono ancora poco conosciute e necessitano di approfondimenti, perché possono essere responsabili di gravi conseguenze sulla salute.

Le statistiche nazionali sulla mortalità e sulla disabilità nei dipendenti del pubblico impiego confermano queste preoccupazioni: nei lavoratori della sanità sono stati osservati un eccesso di morti per patologie neoplastiche del fegato e delle vie urinarie, una maggiore vulnerabilità per le affezioni virali cronicizzanti e per le malattie cardiovascolari, elevate condizioni di stress, un più alto numero di ricoveri per patologie croniche.

 

Le funzioni di controllo e di vigilanza

Il cittadino ha scarsi strumenti per essere tutelato mediante la scelta espressa con il voto elettorale. Le amministrazioni di governo si avvalgono spesso di commissioni di indagine, con funzioni ispettive, formate ad hoc per ottenere valutazioni sul grado di osservanza delle normative vigenti, e per avere elementi in grado di orientare le scelte future. È però noto a tutti che, sia a livello parlamentare che di enti locali, queste commissioni risentono di un forte condizionamento politico, che può limitare l’espletamento dei compiti
tecnici.

Ciò risulta evidente quando non vengono resi noti i risultati conclusivi dei lavori, oppure quando la lettura dei risultati fornisce informazioni insufficienti o inadeguate ai fini della programmazione. Rimanendo vicini a uno dei temi più cari ai lettori di questa rivista, può essere utile sapere che con deliberazione della Giunta regionale del Piemonte n. 32-7909 (Bollettino ufficiale della Regione Piemonte n. 51, 19 dicembre 2002) è stato istituito un gruppo di lavoro per il monitoraggio e l’analisi delle condizioni di vita delle persone ospitate nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali. Questa può essere una valida occasione per smentire i timori di inutilità di queste commissioni.

Il livello gerarchicamente superiore di tutela è quello svolto dall’attività repressiva della magistratura. Tale funzione è esercitata in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, e quindi tende a colpire tutte le situazioni che emergono all’attenzione dei magistrati (esposti, articoli di giornale, ecc.). Pertanto, tali azioni comprendono le condizioni più svariate, con diverso livello di rilevanza penale, di gravità individuale e di pericolosità sociale. Si tratta azioni che rappresentano un forte deterrente, ma non possono surrogare le attività di prevenzione.

Alcune Procure hanno competenze specialistiche così sviluppate da rappresentare un riferimento quasi paragonabile alle sentenze della Corte di Cassazione, ma l’attività di prevenzione è un’altra cosa, perché parte da un’analisi sistematica dei rischi per stabilire delle priorità di intervento, considerando i vincoli presenti e la possibilità di raccogliere il consenso di tutte le forze coinvolte nei complessi meccanismi del cambiamento. Ovviamente, non può essere questo il compito della magistratura.

Le funzioni ispettive possono essere esercitate (oltre che dalle Forze dell’Ordine attivate da Tribunali, Ministeri e Amministrazioni locali), dalle Direzioni regionali e provinciali del lavoro (con finalità prevalentemente autorizzative e di verifica) e dagli Ufficiali di polizia giudiziaria delle Asl (i cui servizi di prevenzione assumono varie denominazioni e sigle nelle diverse regioni). Sarebbero proprio i servizi delle Asl che dovrebbero svolgere l’opera di vigilanza, ma questo è uno dei nodi irrisolti della prevenzione in tutti i Paesi europei, perché non esistono norme comunitarie che stabiliscano i livelli minimi di vigilanza che devono essere assicurati negli Stati membri.

Il problema coinvolge i lavoratori e il sindacato, perché i servizi di prevenzione delle Asl possono essere interpellati anche dai Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, nell’ambito del noto decreto legislativo n. 626 del 1994.

In molti Paesi le organizzazioni sindacali sono in posizione di forte critica rispetto alle condizioni di insufficienza in cui vengono lasciati gli organici di tali servizi. A Torino, l’attività di vigilanza su oltre 40 mila imprese è affidata ad una dozzina di ispettori!

Nonostante queste condizioni di precarietà (probabilmente non casuali) in cui vengono tenuti gli organi di vigilanza, sono numerosi gli interventi che hanno sanato situazioni di rischio in ambienti di lavoro. Quando intervengono, gli ispettori verbalizzano le infrazioni e comminano le relative prescrizioni; nei termini prescritti, il datore di lavoro deve ottemperare alla prescrizione (eventualmente avanzando istanza di proroga) e quindi, dopo la verifica dell’adempimento, egli viene ammesso al pagamento in sede amministrativa di un quarto dell’ammenda prevista per ogni contravvenzione rilevata.

Se il datore di lavoro (il Direttore generale nel caso dell’ospedale) aveva preventivamente valutato i rischi segnalandoli alla propria amministrazione, la sanzione viene pagata dalla pubblica amministrazione stessa, e il pagamento estingue la contravvenzione. Ovviamente, il datore di lavoro e la pubblica amministrazione hanno tutto l’interesse ad ottemperare alle prescrizioni per evitare il procedimento penale.

Ecco alcuni esempi di situazioni ospedaliere sanate con prescrizioni degli organi di vigilanza: attività cliniche svolte in seminterrati privi di adeguata aerazione, carenze di sale operatorie, insufficiente controllo nell’erogazione dei gas anestetici, laboratori di analisi fatiscenti, mancanza di impianti di ventilazione forzata in locali in cui vengono usate sostanze cancerogene volatili.

Altri esempi di migliorie nelle case di riposo: adeguamento degli impianti elettrici, formazione del personale, cooperazione fra enti assistenziali diversi. Di per sé, questi interventi si accompagnano anche ad un miglioramento degli standard assistenziali. Frequentemente, la qualità dell’assistenza risulta ulteriormente migliorata per una ricaduta più generale di benefici indotta dalle prescrizioni, che innescano miglioramenti anche su aspetti strutturali e organizzativi non interessati dai provvedimenti sanzionatori.

 

Contributo partecipativo alle attività di tutela della salute

 

L’impianto normativo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, basato sul citato decreto “626/1994”, è stato concepito proprio per avviare efficaci politiche aziendali di prevenzione, evitando (o limitando) la nascita di conflitti che incoraggino il ricorso alle forme di controllo repressive. Tale normativa si ispira al principio della partecipazione alle attività di prevenzione, che prevede che il datore di lavoro, i tecnici della prevenzione e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (Rls) concorrano all’attuazione delle direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute durante il lavoro. Purtroppo il modello partecipativo previsto dal “626” risulta largamente inapplicato proprio nei luoghi di cura, il cui compito istituzionale primario è la tutela della salute.

Questa situazione è stata ribadita al convegno nazionale “Il Ruolo dei Rls negli enti pubblici”, organizzato da Rls dell’università e della sanità e svoltosi a Torino dal 22 al 24 ottobre 2002, nell’ambito della Settimana europea 2002 per la salute e la sicurezza sul lavoro.

L’iniziativa, patrocinata dal Ministero del lavoro e dalle amministrazioni locali, ha avuto 560 partecipanti e si è aperta con il messaggio augurale inviato dal Capo dello Stato (il programma e alcuni interventi possono essere reperiti sul sito http://hal9000.cisi.unito.it/RLS).

Il convegno ha sottolineato che esiste un crescente consenso per le iniziative di tutela, e che il compito dei rappresentanti per la sicurezza è di cogliere il disagio lavorativo e il malessere dei lavoratori, di farlo emergere per aumentare la coscienza collettiva verso i problemi, di sorvegliare che venga sempre fornita l’informazione sui rischi e di promuovere interventi migliorativi nelle situazioni carenti.

Le attività delle rappresentanze devono armonizzarsi con quelle della parte datoriale e di tutti i soggetti previsti dal “626”, per superare la dicotomia tra gli interventi strutturali e quelli organizzativi, i quali non devono essere oggetto di singola preferenza delle parti, ma devono essere entrambi perseguiti parallelamente.

Va detto che tra le finalità partecipative del decreto non è previsto il coinvolgimento dell’utenza. Questo può essere un punto critico, ma è superabile se le aziende adottano politiche prevenzionali trasparenti. Analogamente ai lavoratori, gli utenti, e tutti coloro che frequentano un luogo di cura senza essere vincolati dal rapporto di lavoro, devono ricevere quella parte di informazione che li riguarda: informazioni sui rischi presenti, sull’accessibilità o meno dei locali, sulle norme di buon comportamento e di buona tecnica (attraverso l’informazione diretta, la distribuzione di foglietti e opuscoli, l’uso corretto della cartellonistica).

L’informazione deve comprendere anche i comportamenti da mettere in atto in caso di guasti o incidenti, le alternative possibili alle cure e ai servizi offerti, i nominativi delle persone alle quali rivolgersi in caso di necessità, nonché i programmi che l’amministrazione ha in atto per aumentare i livelli di sicurezza. La trasmissione di queste conoscenze, codificate, impegna tutti a limitare gli effetti dannosi dei pericoli, che sono comunque presenti e quasi mai riducibili allo zero. L’informazione è una buona salvaguardia del diritto a non subire ulteriori danni causati dal cattivo funzionamento delle strutture e dei servizi.

 

Contrastare il silenzio e l’allarmismo con l’informazione

 

Si parla poco dei problemi di sicurezza nei luoghi di cura. Quando se ne parla, spesso lo si fa in tono allarmistico o scandalistico. Si tratta di rischi e pericoli che influenzano notevolmente la qualità dei servizi e la salute delle persone, ma si tratta comunque di rischi e problemi controllabili con l’informazione e l’adozione di appropriate procedure. La materia è complessa e diversificata, ma ognuno è chiamato a fare la propria parte, nel rispetto dei diversi ruoli, competenze e responsabilità. Alcune semplici raccomandazioni possono accomunare tutti i soggetti, istituzionali e non.

– È necessario educare le giovani generazioni alla conoscenza e al controllo dei rischi nei luoghi di vita e di lavoro, per favorire una maturazione civica sulla tutela della salute, coerente con l’evoluzione della normativa, delle conoscenze scientifiche e delle aspettative dei cittadini, degli utenti e dei lavoratori.

– La pressione dell’opinione pubblica non deve portare a demandare completamente agli organi di vigilanza e di repressione la risoluzione dei problemi, ma deve favorire la corretta applicazione delle normative attraverso una maggiore partecipazione di tutti alla prevenzione.

– Deve essere spiegato che il degrado ambientale e le carenze organizzative delle strutture sanitarie e assistenziali determinano effetti dannosi sulla salute e diminuiscono la qualità dell’assistenza.

– Solo con una corretta informazione sui rischi e sulle procedure è possibile fare un’efficace prevenzione e fornire una buona assistenza, rispettosa di tutte le persone, in particolar modo di quelle più fragili dal punto di vista sanitario e sociale.

 

 

 

(*) Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza - Ospedale Molinette di Torino.

(**) Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza - Università di Torino.

 

 

 

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