Prospettive assistenziali, n. 145, gennaio-marzo
2004
COMPORTAMENTI CONTRADDITTORI DELLA
REGIONE PIEMONTE E DEL COMUNE DI BOLOGNA IN MATERIA DI CONTRIBUZIONI ECONOMICHE
DI NATURA ASSISTENZIALE
Le scuse addotte dalle
istituzioni per motivare la violazione delle leggi in materia di contribuzioni
economiche riguardano anche la carenza delle risorse
economiche disponibili (1) e la presunta iniquità dell’erogazione di
prestazioni sociali a coloro che hanno congiunti in grado di sostenere in tutto
o in parte il costo degli interventi.
Se la presenza di familiari (in
genere il riferimento è ai parenti tenuti agli alimenti) aventi mezzi economici
per sostenere in tutto o in parte il costo dei servizi non versato dall’utente,
fosse una motivazione concretamente sostenibile sul piano etico-sociale
(e non solo sotto il profilo moralistico-individuale),
occorrerebbe estendere la relativa normativa a tutti gli altri settori (sanità,
previdenza, casa, ecc.).
In realtà, i contributi vengono imposti dai Comuni (2) solamente nei casi in cui i servizi sono
forniti ai soggetti incapaci di autodifendersi, il
che la dice lunga sul comportamento etico delle istituzioni coinvolte, dei loro
funzionari e operatori.
A sostegno della nostra tesi,
segnaliamo a titolo esemplificativo i comportamenti contraddittori della
Regione Piemonte e del Comune di Bologna, comportamenti che – come i lettori
possono verificare – sono praticati da tutte le istituzioni che continuano ad
avere una concezione ottocentesca delle attività dell’assistenza sociale (3).
La valida
iniziativa dell’Assessorato al lavoro della Regione Piemonte
Nel mese di novembre 2003, la
Regione Piemonte, agenzia
Piemonte lavoro, ha emanato un
bando pienamente condivisibile concernente “Interventi monetari integrativi al
reddito” in cui è disposta l’assegnazione di «sussidi a favore di persone che a causa della interruzione
temporanea o definitiva del lavoro svolto alle dipendenze
altrui, anche sotto forma di collaborazione coordinata e continuativa, abbiano
un indicatore di situazione economica per l’anno 2002 non superiore a euro
16.000,00».
Il provvedimento dell’Agenzia per
il lavoro prevede che le erogazioni economiche sono disposte secondo le
seguenti modalità: «Per i soggetti con
valore Isee fino a euro
11.000,00 sussidio lordo di euro 2.000,00; con Isee
da euro 11.000 a euro 16.000,00 sussidio lordo di euro 1.600,00».
Per le suddette prestazioni, che
pur essendo pienamente valide hanno una connotazione indubbiamente assistenziale, le disposizioni della Regione Piemonte –
giustamente lo ripetiamo – non fanno alcun riferimento ai parenti dei
beneficiari, compresi quelli tenuti agli alimenti.
Da notare che, in questo caso, la
Regione Piemonte considera come soggetti bisognosi coloro che hanno un reddito
annuo ammontante a euro 16 mila e ad essi concede un
sussidio di 1.600 euro. Ritiene, dunque, che occorrano 17.600 euro all’anno perché una persona possa avere un tenore
accettabile di vita.
Il comportamento dei servizi
sarebbe molto diverso se lo stesso soggetto che, grazie all’intervento assistenziale descritto in precedenza dispone di un reddito
annuo di 17.600 euro, avesse un congiunto colpito da handicap grave o un
parente ultrasessantacinquenne non autosufficiente.
In questi casi vi sono Comuni del
Piemonte e delle altre Regioni che l’obbligherebbero a
versare anche più di 10 mila euro, considerando gli uffici dell’assistenza la
somma di 6 mila euro annui come l’importo corrispondente al minimo vitale che
può essere trattenuto dal soggetto per soddisfare le proprie esigenze
fondamentali di vita.
In sintesi, mentre l’Assessorato
al lavoro della Regione Piemonte ritiene insufficiente
un reddito personale annuo di 16 mila euro e ne eroga 1.600, l’Assessorato
all’assistenza della stessa Regione finora nulla ha fatto, nemmeno a livello
informativo, per evitare che vi siano Comuni (circa 600 su 1209) che
costringono i congiunti di soggetti con handicap grave o di ultrasessantacinquenni
non autosufficienti a dover fare i salti mortali per sopravvivere con 6.000
euro all’anno, essendo stati obbligati a versare l’importo eccedente dei loro
redditi, nonostante si tratti di una illegalità, come ha rilevato più volte il
Difensore civico della stessa Regione Piemonte.
Dunque, in Piemonte e nelle altre
Regioni vi sono Comuni che non operano per favorire l’autonomia (e quindi la
libertà almeno sotto il profilo economico) delle persone e dei nuclei
familiari, ma per imporre condizioni di vera e propria povertà (che spesso è la
principale causa dell’emarginazione sociale).
Purtroppo, sono ancora numerosi
gli amministratori, i funzionari e gli operatori che ritengono sia un atto di equità sociale l’imposizione anche illegale di contributi
economici ai congiunti degli assistiti (ma inspiegabilmente non agli utenti
degli altri servizi pubblici: casa, sanità, previdenza, ecc.) (4).
I due pesi e le due
misure del Comune di Bologna
Come risulta
dal n. 5 maggio 2003, della rivista Forum,
nel regolamento approvato il 17 maggio 2001 (tuttora in vigore) riguardante
l’erogazione di «sussidi economici a
madri o padri soli con figli minori o a donne sole in gravidanza (…) nonché a
famiglie con minori in disagiate condizioni socio-economiche» non viene
fatto – giustamente anche in questa circostanza – alcun riferimento ai parenti
tenuti agli alimenti.
Inoltre – correttamente pure in
questo caso – non viene preso in considerazione l’art.
148 del codice civile, il quale stabilisce che, qualora i genitori non
dispongano di risorse economiche sufficienti (5) per mantenere, istruire ed
educare la prole «gli altri ascendenti
legittimi o naturali in ordine di prossimità sono tenuti a fornire ai genitori
i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei
figli» (6).
Analogo comportamento è attuato
dal Comune di Bologna e da altri enti locali italiani per quanto concerne la
frequenza degli asili nido e delle scuole materne.
Non soltanto i nonni sono
esentati dall’intervenire sul piano economico quando i
genitori non hanno le risorse per il pagamento dell’intera retta, ma l’importo
a carico dei padri e delle madri, compresi quelli aventi redditi e beni di
rilevante importo, non è mai conteggiato in base al costo sostenuto dall’ente
pubblico, ma secondo tariffe ridotte.
Ad esempio, mentre i Comuni
spendono più di 1.000 euro al mese per ciascun bambino
che frequenta l’asilo nido, la tariffa massima è calcolata in genere in 300-350
euro: una agevolazione, da noi condivisa, che non ha finora sollevato le
proteste di coloro che sostengono l’equità dei contributi economici imposti ai
parenti degli assistiti.
Inoltre, ricordiamo, che i Comuni
mai hanno agito per chiedere l’intervento dei parenti tenuti agli alimenti nei
casi in cui gli utenti dei soggiorni di vacanza o delle altre attività di tempo
libero non disponessero dei mezzi economici per
corrispondere le quote a loro carico.
Su basi del tutto diverse da
quelle sopracitate, opera il
Comune di Bologna per quanto concerne i congiunti non conviventi con gli
assistiti ed i parenti dei soggetti con handicap grave e degli ultrasessantacinquenni non autosufficienti.
Ai suddetti familiari il Comune
di Bologna impone di fatto il versamento di contributi
– lo ripetiamo vietati dalle leggi vigenti – nei casi in cui la persona
interessata non disponga delle possibilità economiche per il pagamento delle
quote a suo carico.
Come risulta
dalla nota sottoscritta in data 24 aprile 2003 dalla direttrice del settore
preposto al coordinamento dei servizi sociali, il sistema escogitato dal Comune
di Bologna è il seguente:
«il nucleo familiare di riferimento è individuato dall’art. 433 del codice
civile, che individua come parenti tenuti per legge agli alimenti, quelli di
primo grado, oltre al genero e alla nuora e ai suoceri» (…);
«se i redditi del nucleo richiedente così
definito, superano la quota rappresentata dalla retta mensile della struttura,
il Comune è legittimato nel non intervenire»;
«nel caso in cui, invece, la retta mensile fosse
superiore, il Comune integra attraverso un contributo, che versa direttamente
alla struttura».
Singolare è la motivazione
addotta dal sopraindicato funzionario. Afferma infatti
che «il dovere pubblico di assistenza di
per sé non esonera né l’utente né i suoi familiari, in relazione alle loro
possibilità, dal concorrere alle relative spese, con eventuali integrazioni da
parte dei Comuni per le persone o famiglie non abbienti. Né
dal dettato costituzionale, né dalle successive normative si evince che i
relativi oneri siano interamente a carico della finanza pubblica, che ha
l’obbligo di “fare” non quello di “sostenere interamente gli oneri”» (7).
Premesso che è ovvio che
l’assistito sia obbligato a concorrere alle spese in base alle proprie risorse
economiche (dovere finora mai contestato da alcuno) è inquietante che il
dirigente dei servizi sociali non tenga conto né dell’art. 438 del codice
civile in base al quale, lo ripetiamo per l’ennesima volta, «gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio
mantenimento», né del 6° comma dell’art. 2 del testo unificato dei decreti
legislativi 109/1998 e 130/2000 il quale ribadisce in modo
non suscettibile di alcuna diversa interpretazione che «le disposizioni del presente decreto non modificano la disciplina
relativa ai soggetti tenuti agli alimenti ai sensi dell’art. 433 del codice
civile e non possono essere interpretate nel senso della facoltà di cui
all’art. 438, primo comma, del codice civile nei confronti dei componenti il
nucleo familiare del richiedente le prestazioni sociali agevolate».
Si osservi che rientrano fra le
prestazioni sociali agevolate non soltanto quelle assistenziali,
ma, come precisa il vigente regolamento del Comune di Bologna (art. 1, comma
3), anche gli interventi in precedenza citati, relativi ai sussidi economici a
madri e padri soli, alle donne sole in gravidanza, nonché alle famiglie con
minori in disagiate condizioni economiche.
Dunque, per le rette di ricovero di anziani, compresi quelli non autosufficienti e di
soggetti con handicap, il Comune di Bologna impone di fatto ai congiunti degli
assistiti di intervenire sul piano finanziario, qualora dispongano dei mezzi
occorrenti, per la parte economica non coperta dall’utente.
Invece, se si tratta dei genitori
con minori aventi difficoltà economiche, non solo non vengono
mai coinvolti i loro ascendenti e le altre persone “tenute agli alimenti”, ma
sono considerati indigenti anche i soggetti che dispongono di una proprietà
immobiliare avente un valore catastale inferiore ai 30 milioni delle ex lire,
nonché di beni mobiliari (depositi bancari, titoli, ecc.) non superiori ai 4
milioni di lire. Inoltre, il Comune di Bologna non tiene conto, in questi casi,
nemmeno del possesso dei «beni di uso comune» (art. 7, comma 8 del regolamento).
La direttrice del settore
preposto al coordinamento dei servizi sociali asserisce, inoltre, che i decreti
legislativi 109/1998 e 130/2000 concederebbero ai Comuni margini per ridefinire
il nucleo anagrafico di riferimento degli assistiti e per «prevedere criteri differenziati in base alle
condizioni economiche e alla composizione della famiglia».
Orbene, i sopra citati decreti
legislativi stabiliscono invece all’articolo 3 che:
«gli enti erogatori, ai quali compete la fissazione dei requisiti per
fruire di ciascuna prestazione, possono prevedere (…)
accanto all’indicatore della situazione economica equivalente come calcolato ai
sensi dell’art. 2 del presente decreto, criteri ulteriori di selezione dei
beneficiari»;
«per particolari prestazioni gli enti erogatori possono (…) assumere come
unità di riferimento una composizione del nucleo familiare estratta nell’ambito dei soggetti indicati nell’art.
2, comma 2 e 3, del presente decreto».
Pertanto, i “criteri ulteriori” riguardano i “beneficiari” delle prestazioni e non i
loro parenti; inoltre la diversa composizione del nucleo familiare stabilita
dagli enti erogatori non può essere estesa ad altri congiunti, ma deve essere “estratta” da quella indicata dall’art.
2 il quale precisa che «ai fini del
presente decreto, ciascun soggetto può appartenere ad un solo nucleo
familiare».
Da notare che la valutazione
dell’importo da versare da parte dei congiunti non è stabilito
dal giudice ai sensi dell’art. 441 del codice civile, ma dal Comune di Bologna,
al quale (come a tutti gli altri Comuni italiani) le leggi vigenti non hanno
attribuito questo compito. Si osservi, altresì, che, qualora anche una sola
persona fra quelle incluse fra i parenti tenuti agli
alimenti non fornisse i dati relativi alla sua situazione economica, il Comune
di Bologna rifiuta la concessione della cosiddetta “integrazione economica”.
Ricordiamo, infine, che in base
alla legge sulla riservatezza, agli enti pubblici è vietata la richiesta ai
cittadini di informazioni, comprese quelle inerenti le
loro condizioni economiche, non occorrenti per l’espletamento delle attività di
competenza istituzionale. Pertanto, il Comune di Bologna e gli altri enti
locali non possono assumere dati concernenti la situazione economica dei
congiunti non conviventi con gli assistiti e con i familiari, anche se
conviventi degli ultrasessantacinquenni non
autosufficienti e dei soggetti con handicap in situazione di gravità.
Contraddizioni vistose e ingiustificate
A nostro avviso, l’evidentissima
contraddittoria applicazione delle leggi vigenti da parte della Regione
Piemonte e del Comune di Bologna dipende essenzialmente dal fatto che gli
assistiti siano o non siano in grado di autodifendersi e, quindi, di poter esprimere le loro
richieste, di avanzare critiche, di essere in grado di manifestare
pubblicamente le loro opinioni, di votare: un comportamento che la dice lunga
sui principi etico-giuridici applicati ai forti e ai
deboli.
(1) A nostro avviso la mancanza di risorse può essere
giustificata solamente nei casi in cui l’ente pubblico non può incrementare le
proprie entrate, ad esempio perseguendo gli evasori (cfr.
A. Paschero, “L’esperienza del Comune di Rivoli:
scovare gli evasori e ridurre le tasse”, Prospettive
assistenziali, n. 116, 1996) oppure aumentando le
imposte, ad esempio l’Ici (Imposta comunale sugli
immobili).
(2) Allo stesso modo si comportano le Asl
alle quali i Comuni hanno affidato la gestione dei servizi socio-assistenziali.
(3) Detta concezione non è incentrata sulla promozione
dell’autonomia delle singole persone e dei nuclei familiari, ma sul massimo
scarico possibile ai congiunti (conviventi e non) degli interventi riguardanti
i soggetti deboli e dei costi relativi.
(4) Come è stato riferito nell’editoriale “Sussidiarietà e diritti: l’inquietante interpretazione del
Consorzio Monviso solidale”, Prospettive
assistenziali, n. 136, 2001, il suddetto Consorzio ha approvato un provvedimento
in base al quale il signor D.D.M., ricoverato in una Rsa perché colpito dalla malattia di Alzheimer, doveva
versare 36 mila lire al giorno per la propria degenza; pertanto, la moglie,
priva di altre risorse, aveva a disposizione solamente 800 mila lire mensili,
di cui 480 mila per l’affitto dell’alloggio e 270 mila per il rimborso del
mutuo stipulato per l’acquisto di un’auto: dunque il Consorzio le aveva
lasciato solamente 50 mila lire al mese per vivere.
(5) Si tenga presente che dalla concessione dei sussidi, il
Comune di Bologna esclude (art. 7 del regolamento) solamente «i possessori di beni immobili con un valore
catastale superiore ai 30 milioni di lire», nonché «i possessori di beni mobili (depositi bancari, titoli, ecc.) di
importo superiore ai 4 milioni di lire complessivi, con esclusione dal computo
i beni di uso comune». A nostro avviso, occorrerebbe invece che, nel caso
di possesso di beni immobili o mobili registrati, i Comuni provvedessero alla erogazione di prestiti senza interessi, da rimborsare
superata la condizione di bisogno o da rivendicare all’apertura della
successione.
(6) Qualora i nonni dei minori in difficoltà non provvedano
di loro iniziativa pur avendone i mezzi, riteniamo che debba intervenire il
Comune, salvo l’esercizio della rivalsa in merito alle somme spese. Infatti, la
tempestività delle prestazioni è una condizione essenziale per evitare il
ripetersi delle ripercussioni negative a discapito dei fanciulli.
(7) Opposto è il parere del Difensore civico della Regione
Piemonte, riportato nella rubrica “Specchio nero”.
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