Prospettive assistenziali, n. 145, gennaio-marzo 2004

 

DAL COTTOLENGO A CASA MIA

Roberto Tarditi

 

 

Sono già trascorsi 20 anni dalla conquista dell’indipendenza, da quando il cancello della Piccola Casa della Divina Provvidenza - il celeberrimo Cottolengo di Torino - si è spalancato per lasciarci finalmente libera la strada verso casa nostra. Ricordo come questa scelta nacque a mo’ di scommessa, osteggiata all’interno dell’istituto e vista con scetticismo anche da molti conoscenti; solo pochi amici colsero l’importanza della sfida e ci aiutarono concretamente a superare le difficoltà morali e materiali che si sarebbero presentate quotidianamente alle prime due persone affette da disabilità fisica grave in Torino che fortemente rivendicavano e lottavano per ottenere la propria individualità, la propria vita e - ciò che solo può garantirle - la propria casa.

Proprio per la lunga esperienza vissuta all’interno di un istituto, dopo anni di svariate lotte, abbiamo deciso di costituire l’Associazione “Mai più istituti d’assistenza” che nasce insieme alla preparazione del libro Anni senza vita al Cottolengo; l’Associazione è scaturita dall’incontro di persone che, sotto diversi punti di vista e modalità, si sono confrontati con la realtà del ricovero in istituti, e si batte dunque contro ogni forma di emarginazione e contro i ricoveri che nascono dalla diversità o dalla debolezza, sia dipendente da un handicap che da una difficoltà legata alla minore età.

Tra i soci fondatori dell’Associazione ci siamo io e Piero Defilippi, che abbiamo scelto di raccontare la nostra esperienza di ricoverati al Cottolengo e della nostra riconquistata libertà nella società, nel libro-testimonianza intitolato Anni senza vita al Cottolengo scritto da Emilia De Rienzo e Claudia De Figueiredo ed edito dalla Rosenberg & Sellier, Torino 2000.

Il libro nasce anche grazie all’incontro con l’Ulces (Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale) ed alla disponibilità che Piero ed io abbiamo deciso di dare per raccontare le disavventure subite in istituto, non per una qualche forma di narcisismo o di autocommiserazione, ma poiché riteniamo che la realizzazione di servizi di domiciliarità e di aiuto alla persona siano imprescindibili per favorire la piena autonomia di ogni individuo e che il concetto d’assistenza non può in alcun modo essere collegato ad un’idea di segregazione, di privazione della libertà e della dignità umana come accade all’interno delle istituzioni totali.

Uno degli scopi che ci proponiamo è l’abolizione degli istituti di assistenza e quindi la richiesta - con forza - alle Regioni e ai Comuni della realizzazione di servizi sul territorio quali: l’assistenza economica e domiciliare che garantisca la possibilità alle persone disabili e alle persone anziane di vivere autonomamente nella propria casa; l’inserimento di persone handicappate adulte in famiglie affidatarie o in comunità alloggio, a seconda delle minorazioni o situazioni; il potenziamento sia quantitativo sia qualitativo delle comunità alloggio - da otto/dieci posti - per persone che, per la loro grave disabilità, non possono vivere autonomamente in casa propria; l’istituzione di servizi diurni per le persone disabili intellettive; mini appartamenti per le convivenze guidate per coloro che non hanno sufficiente autonomia; l’assegnazione di alloggi per le persone disabili fisiche che scelgono di vivere in modo autonomo; la previsione di piccole strutture residenziali con valenza sanitaria per persone disabili o anziane in stato di non autosufficienza e che necessitano di cure sanitarie.

Lo scopo più importante che l’Associazione intende sostenere con forza è però l’istituzione di un servizio diretto a richiedere, per tutte le persone ricoverate durante la loro minore età, il risarcimento dei danni morali e materiali.

A tale proposito la rivista Prospettive assistenziali ha chiesto il parere di Massimo Dogliotti, magistrato di Corte d’appello e docente di diritto presso l’università di Genova;  questi, facendo leva sullo schema generale stabilito per la responsabilità civile sul cosiddetto danno esistenziale e sul fatto che ci troviamo dinnanzi a violazioni di interessi e diritti garantiti come fondamentali dalla Costituzione, ritiene possibile richiedere il risarcimento dei danni: alle Regioni per la carenza nella programmazione, ai Comuni per l’assenza di prestazioni alternative al ricovero e, nei casi più gravi, anche all’istituto e al suo personale.

La richiesta del risarcimento danni è dunque un obiettivo che ci siamo prefissati per indurre le istituzioni a modificare la recente legge n. 149/2001 di riforma sull’affidamento e sull’adozione, affinché siano garantiti i diritti esigibili ai nuclei familiari d’origine, ai minori che necessitano di essere affidati a scopo educativo e tutelare, e affinché siano individuate nuove tutele per chi accoglie adolescenti o handicappati in situazione di abbandono.

Probabilmente il più grosso limite di questa legge è che la realizzazione delle prestazioni assistenziali previste dalla legge possono essere fornite dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali solamente “nei limiti delle risorse finanziarie disponibili”. E purtroppo anche la legge n. 328/2000 ha lo stesso difetto. Si può immaginare cosa potrà succedere in quelle Regioni in cui non esiste una “cultura” anti-istituzionale: la data della chiusura degli istituti rischia di andare ben al di là del 2006!

Credo davvero che sia particolarmente importante denunciare queste contraddizioni poiché non è più accettabile che - come risulta dall’ultima precisa ricerca risalente al giugno 1998 - circa 15.000 minori siano reclusi in istituto, per molti anni e spesso facendo la spola da uno all’altro, e che molti di essi frequentino addirittura le scuole interne.

In opposizione a ciò “Mai più istituti d’assistenza” rivendica il diritto di tutti i bambini di crescere in una famiglia - anzitutto quella d’origine - assicurando ad essa i necessari servizi sociali ed assistenziali; quando non sarà possibile i bambini dovranno essere inseriti in famiglie affidatarie in caso di inidoneità temporanea, in famiglie adottive nei casi di privazione di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti, previo accurato accertamento che i nuclei famigliari di destinazione siano realmente in grado di rispondere alle esigenze fisiche e psicologiche individuali del minore. In ultima istanza, e come ultima alternativa, si potrà arrivare alla creazione di piccole comunità alloggio che - cosa non precisata dall’ultima legge di riforma sull’affidamento e l’assistenza che, come detto, prevede la chiusura degli istituti entro fine 2006 - devono essere inserite in un normale contesto abitativo, e soprattutto non dovranno essere accorpate, perché bisogna assolutamente evitare il rischio di arrivare a strutture ospitanti fino a 200 persone, suddivise in gruppi appartamento per comunità di tipo famigliare. Sarebbe infatti un escamotage per ritrovare in forma diversa le vecchie strutture, mentre bisogna essere chiari nel pretendere che le comunità non dovranno accogliere più di 6-8 individui.

 

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