Prospettive assistenziali, n. 145, gennaio-marzo
2004
Giuseppe D’Angelo -
Francesco Santanera
Un detto latino recita: “Tali pater, tali filius”,
ovvero i pregi ed i difetti del padre, spesso, si ritrovano
nel figlio… E ancora una volta pare essere stato rispettato. Menzione a parte,
stiamo parlando della legge regionale dell’Emilia Romagna n. 2 del 12 marzo
2003 che reca il titolo: “Norme per la promozione della
cittadinanza sociale e per la realizzazione del sistema integrato di interventi
e servizi sociali”, pubblicata sul Bollettino ufficiale n. 32 del 13 marzo 2003.
Si tratta, in buona sostanza, del
recepimento della legge di riforma dell’assistenza e
dei servizi sociali, la cosiddetta “legge Turco” (1), già commentata – tutte le
volte negativamente – su Prospettive assistenziali (2). La legge n. 2/2003,
varata dalla Regione Emilia Romagna, a nostro parere, ha ereditato dalla
succitata norma nazionale, la legge 328/2000, tutte le caratteristiche negative
che l’hanno contraddistinta.
Le carenze della legge dell’Emilia Romagna
Le principali carenze
della legge regionale n. 2/2003, a nostro avviso, sono le seguenti:
- l’assenza di
diritti esigibili per la fascia più debole della popolazione;
- la presenza di
enunciazioni ambigue e di disposizioni di mera facciata. Da una lettura
non approfondita delle norme, il cittadino non esperto in materia giuridica può
essere facilmente tratto in inganno credendo erroneamente di essere in presenza di una legge con norme azionabili;
- altalenanti disposizioni in
materia finanziaria. Infatti, non viene data ai Comuni
la possibilità di programmare opportunamente gli interventi previsti poiché i
criteri di assegnazione dei fondi sono stabiliti di anno in anno dalla Giunta
regionale;
- riferimenti specifici alle
famiglie e non ai nuclei familiari. Si vogliono forse trattare diversamente le
varie unioni solo perché non regolate da vincoli matrimoniali?;
- nessun riferimento agli
articoli 154 e
155 del regio decreto n. 773 del 1931, nonché alla legge n. 2838 del 1928, in
cui sono previsti gli attuali (a parte le disposizioni in materia di pensioni)
unici diritti esigibili in materia di assistenza;
- nessuna
disposizione in merito al diritto delle donne nubili o coniugate al segreto del
parto e al riconoscimento dei propri nati;
- mancata attuazione delle norme
della legge 328/2000 (art. 25) e dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000
sulle contribuzioni economiche.
Assenza di diritti esigibili
Fondamentalmente i difetti
principali della legge regionale n. 2/2003 sono costituiti dall’assenza di
nuovi diritti esigibili e dalla limitazione delle prestazioni sociali in
relazione delle risorse messe in campo. L’assenza di diritti riguarda tutte le
persone in gravi difficoltà socio-economiche, comprese
quelle che, se non ricevono le indispensabili prestazioni socio-assistenziali,
muoiono (ad esempio i bambini abbandonati nei cassonetti, i soggetti con nulla
autonomia privi di sostegno da parte dei congiunti). In proposito, non è vera
l’affermazione dell’Assessore alle politiche sociali della Regione Emilia
Romagna, Gianluca Borghi (3), secondo cui le norme della legge n. 2/2003
stabilirebbero «il diritto alla
prestazione a prescindere dalla condizione economica del cittadino» e garantirebbero «un reale diritto di scelta ai cittadini,
all’interno del vincolo della sostenibilità economica» (4).
Al riguardo non è corretto
considerare come a se stante l’articolo 4, che al comma 1 stabilisce quanto
segue: «Hanno diritto ad accedere alle prestazioni ed ai servizi del sistema
integrato, sulla base della valutazione del bisogno personale e familiare,
indipendentemente dalle condizioni economiche: a) i cittadini italiani; b) i
cittadini dell’Unione europea, nel rispetto degli accordi internazionali
vigenti; c) gli stranieri, i minori stranieri ed i soggetti di cui agli
articoli 18 e 41 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico
delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero), nonché gli apolidi». Difatti, non si tratta di
un diritto effettivo in quanto le prestazioni sono condizionate dalla
disponibilità delle risorse economiche, come risulta
dalle seguenti norme:
- articolo 6,
comma 2 «La definizione dei
livelli (essenziali delle prestazioni sociali) avviene sulla base dei bisogni rilevati, nel rispetto dei criteri di equità, efficacia ed appropriatezza,
tenuto conto delle risorse del Fondo sociale regionale»;
- articolo 29,
comma 1, punto a, il Piano di zona «può
integrare, nel rispetto della compatibilità delle risorse, i livelli essenziali
delle prestazioni sociali indicati dal Piano regionale»;
- articolo 29 comma 1, punto d,
il Piano di zona «indica gli obiettivi e
le priorità di intervento, inclusi gli interventi
sociosanitari, gli strumenti e le risorse necessarie alla loro realizzazione,
tenendo conto delle risorse finanziarie disponibili».
Inoltre, l’articolo 45, che
disciplina il finanziamento dei servizi previsti dalla legge della Regione
Emilia Romagna in oggetto, non vincola alcuna risorsa (né per le spese di investimento né per quelle di gestione) ad attività
specifiche o a definite priorità. Dunque, i mezzi
economici possono essere utilizzati per qualsiasi attività. Si ricorda che gli
utenti dei servizi possono essere tutti i cittadini, siano
essi ricchi o poveri.
I livelli essenziali di assistenza sociale
La questione, di fondamentale
importanza, soprattutto per coloro che non hanno i
mezzi indispensabili per vivere, dei livelli essenziali di assistenza sociale (Liveas) è semplicemente rinviata.
Infatti, l’articolo 6 stabilisce che «le caratteristiche quantitative e
qualitative dei servizi e degli interventi, che costituiscono i livelli
essenziali delle prestazioni sociali da garantire, tenuto conto dei livelli
essenziali e uniformi delle prestazioni individuati dallo Stato» sono
definite dal Piano regionale. Inoltre, poiché la validità del Piano (cfr. l’articolo 27, comma 2) è di
tre anni, i livelli regionali, aggiuntivi o integrativi rispetto a quelli che verranno definiti a livello
nazionale (se e quando ciò si verificherà), possono essere modificati o
cancellati dal Consiglio regionale dell’Emilia Romagna ogni triennio!
Ancora, per la definizione dei
livelli essenziali previsti dalla legge 328/2000, si fa riferimento alle
risorse del Fondo sociale regionale, che è purtroppo, come visto, svincolato
dalle condizioni di bisogno dei cittadini, in particolare quelli più deboli.
Affinché i diritti siano effettivi e cioè esigibili,
non è ovviamente sufficiente che essi vengano dichiarati, come sostiene
ripetutamente la legge dell’Emilia Romagna (5).
Due gravissime omissioni
La legge
regionale dell’Emilia Romagna non solo non riconosce nessun nuovo diritto esigibile, ma
omette – fatto molto grave – di tener conto di quelli ancora vigenti. Sorge il
sospetto che detta omissione abbia lo scopo di
trasmettere ai cittadini la falsa informazione circa l’inesistenza di diritti
esigibili non solo nella legge 328/2000, ma anche nelle disposizioni prefasciste e fasciste.
In primo luogo, la legge
regionale 2/2003 “dimentica” (al pari della legge 328/2000) che i Comuni, ai
sensi degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931
(Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) sono obbligati ad assistere
(purtroppo solamente mediante ricovero in istituto) i soggetti inabili a
qualsiasi lavoro proficuo e quindi i minori, i soggetti con handicap e gli
anziani in difficoltà che non hanno i mezzi di sussistenza sufficienti per
vivere (6).
Si tratta di disposizioni
normative importantissime e per giunta ancora in vigore, come ci ha confermato
il Servizio per i testi normativi della Camera dei Deputati con la
comunicazione del 6 ottobre 2003. Si tenga presente
che i menzionati articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 contenevano le stesse norme approvate più di 110 anni fa con
il regio decreto 6535 del 1889! Un’altra allarmante
omissione riguarda la legge 6 dicembre 1928, n. 2838, concernente l’assistenza
alle gestanti, alle madri nubili e coniugate in diffi-
coltà (7).
È positivo
che la legge regionale dell’Emilia Romagna stabilisca all’articolo 15, comma 5,
punto b), il trasferimento ai Comuni delle funzioni assistenziali già di
competenza delle Province. In questo modo è messa la parola fine, anche se
purtroppo solo nell’ambito del territorio emiliano-romagnolo
(8), all’attuale odiosa discriminazione fra l’assistenza ai nati nel matrimonio
(di competenza dei Comuni) e quelli nati fuori dal
matrimonio (la cui assistenza era attribuita alle Province). È posta, altresì,
termine all’assurda differenziazione per l’assistenza ai “ciechi e sordi poveri rieducabili” (così definiti dal regio decreto 383/1934) nei cui confronti era
obbligatorio l’intervento delle Province, e quelli che non sono in situazione
di povertà (assistibili dai Comuni).
Inoltre, la legge della Regione
Emilia Romagna, prevede allo stesso articolo 15, comma 5, punto b, il
trasferimento ai Comuni delle norme in merito alle gestanti e alle madri nubili
e coniugate (9). Infatti, ricordiamo che, in base alle norme vigenti, anch’esse
non richiamate nel testo in esame, le donne hanno
diritto: ad essere adeguatamente informate se riconoscere o meno il proprio
nato; alla segretezza del parto; a
ricevere le necessarie prestazioni sia nel caso di riconoscimento sia nell’eventualità
che decida altrimenti.
Queste disposizioni sono
importanti sia per la gestante sia per il neonato, al fine di evitare che,
qualora la donna non voglia tenere con sé il nascituro, partorisca
in luogo non idoneo e con un’assistenza inadeguata, mettendo a repentaglio sia
la propria incolumità sia la salute del bambino, o arrivi per disperazione ad
abbandonare il neonato in un cassonetto o ad ucciderlo.
La possibilità di non riconoscere
da parte della madre è volta dunque principalmente a salvaguardare i piccoli.
Altresì, la segretezza del parto e le necessarie prestazioni rivolte alla madre
sono finalizzate a garantirle la possibilità concreta di decidere a favore del
bambino.
Inoltre, la facoltà di non
riconoscere il proprio nato è una valida misura volta ad evitare gli aborti da
parte delle donne contrarie a questa pratica e, nello stesso tempo, decise a
non accogliere il bambino. Ora, poiché la legge della Regione Emilia Romagna si
limita solo a trasferire le competenze dalle Province ai Comuni, risulta evidente l’assoluta impossibilità della stragrande
maggioranza dei Comuni di provvedere ad assicurare gli interventi di cui sopra
(10) che richiedono la presenza di servizi estremamente complessi, dotati di
personale altamente specializzato e con idonee strutture (11). Inoltre, di per
sé i Comuni piccoli non possono assolutamente garantire la segretezza del parto
e dunque il diritto della donna a non essere individuata.
Ricordiamo che nella legge della
Regione Piemonte n. 1/2004 “Norme per la realizzazione
del sistema regionale integrato di interventi e
servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento” è stato inserito,
su iniziativa del Csa (Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base di Torino), il seguente comma dell’articolo
58: «La Giunta regionale, sentita la
competente commissione consiliare, adotta, entro centottanta giorni
dall’entrata in vigore della presente legge, linee guida per gli enti gestori
istituzionali per l’esercizio delle competenze relative agli
interventi socio-assistenziali nei confronti delle gestanti e delle madri in
condizione di disagio individuale, familiare e sociale, compresi quelli volti a
garantire il segreto del parto alle donne che non intendono riconoscere i
figli, e gli interventi a favore dei neonati nei primi sessanta giorni di vita,
di cui alla lettera c) del comma 2 dell’articolo 6».
Condizioni affinché i diritti siano esigibili
Com’è noto, il diritto si
concretizza solo quando un interesse viene garantito
dalla legge (12). «Caratteristica
immancabile di ogni diritto è la sua esigibilità, cioè
la possibilità di ottenere una tutela anche coattiva in caso di inadempimento
da parte di chi deve realizzarla» (13). Se non c’è
una norma che riconosca un determinato interesse, non si può parlare di
diritto.
È pertanto indispensabile
valutare correttamente una disposizione normativa, verificare se è valida, se
tutela un diritto o meno. Ciò è altresì importante per evitare di farsi
raggirare dalle norme con contenuto meramente declamatorio, come quelle
previste dalla legge regionale 2/2003 in oggetto.
Ricordiamo che per la valutazione
di una norma gli aspetti da analizzare sono i seguenti (14). Occorre, innanzitutto, che siano evidenziati in modo chiaro gli
aventi diritto e cioè i soggetti che possono pretendere le prestazioni
stabilite dalla legge. È necessario, poi, individuare l’organismo preposto
all’erogazione dei servizi e verificare se è obbligato a provvedervi o ne ha
soltanto la facoltà. Aspetto fondamentale è, inoltre, la definizione puntuale
dei contenuti degli interventi, che dovrebbe essere la più esatta possibile. Anche l’organizzazione dei servizi è importante; in
particolare occorre che siano precisate le condizioni previste per l’accesso
degli utenti alle prestazioni.
Altresì, i provvedimenti validi
dovrebbero non solo stabilire il termine entro cui il servizio deve essere
fornito, ma pure precisare entro quanti giorni
l’amministrazione pubblica deve dare una risposta positiva o negativa alle
istanze presentate dai cittadini. In ultimo, è indispensabile prevedere la
copertura dei costi dei servizi (sia per le spese di investimento,
sia per quelle relative alla gestione); i provvedimenti dovrebbero inoltre
precisare gli eventuali oneri a carico dell’utente.
Gli aspetti presi in considerazione
sono indissolubilmente intrecciati fra di loro al
punto che se anche uno di essi non è previsto, il provvedimento può rivelarsi
concretamente inattuabile.
Le Regioni possono scostarsi dal vacuo impianto della legge 328/2000
Tornando alla
citazione iniziale, “Tali pater, tali filius”, e alla similitudine che essa richiamava, se un
figlio può fare ben poco per modificare i caratteri ereditari e quelli
educativi ricevuti dai genitori, alla Regione Emilia Romagna nessuno vietava di
migliorare, per quanto riguarda i propri confini territoriali, la normativa
sull’assistenza.
Mauro Perino,
direttore del Cisap (Consorzio intercomunale di Collegno e Grugliasco per i
servizi alla persona) ci ricorda che «elemento
di grande novità è rappresentato dal nuovo testo
dell’art. 117 della Costituzione che parifica la potestà legislativa statale e
quella regionale – non più sovraordinate l’una
all’altra ma distinte tra loro solamente per i diversi ambiti di competenza –
assoggettando entrambi i soggetti al rispetto della Costituzione,
dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali (…). In buona
sostanza sono le Regioni e i legislatori regionali a
essere titolari della competenza generale prima assegnata alla legge statale»
(15).
Pertanto, la Regione Emilia
Romagna avrebbe potuto scostarsi dall’impianto della legge
328/2000 nel rispetto del dettato costituzionale di cui all’articolo 38
citato, garantendo il diritto soggettivo e fornendo i mezzi necessari per
rendere esigibile e adeguata l’assistenza per i soggetti impossibilitati a
vivere con i propri mezzi. Ricorda Livio Pepino: «In attesa che lo Stato – avvalendosi della
competenza legislativa esclusiva – determini livelli essenziali delle
prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale, più definiti e
cogenti di quelli genericamente elencati all’articolo 22 della legge 328/2000,
è auspicabile che il legislatore regionale svolga i propri compiti nel pieno
rispetto del dettato dell’articolo 38 della Costituzione. Alle Regioni si
richiede in sostanza di assicurare – nel proprio ambito territoriale – il
diritto soggettivo “al mantenimento e all’assistenza sociale” di “ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”
ricordando che “un diritto subordinato alle risorse è semplicemente un non
diritto” ed inoltre che “il diritto soggettivo si differenzia dal semplice
interesse o dalla semplice aspettativa per il fatto di
essere esigibile, cioè per l’esistenza nell’ordinamento di mezzi che ne
garantiscano l’attuazione”» (16).
L’assistenza – facoltativa – per tutti, anche per chi ne ha bisogno
Affinché nel settore
socio-assistenziale una legge nazionale o regionale possa essere considerata
valida, riteniamo che gli interventi debbano essere garantiti – ovvero essere
obbligatori – per quei cittadini in condizione di grave disagio, incapaci di
tutelare i propri interessi o addirittura non in grado di richiedere le
necessarie prestazioni assistenziali, e soprattutto
per coloro che, se non ricevono le prestazioni assistenziali, non possono
vivere o sono inevitabilmente condannati all’emarginazione sociale. Ricordiamo
che l’articolo 38 della Costituzione al primo comma (17) prevede giustamente il
diritto al mantenimento e all’assistenza per le persone inabili al lavoro e
sprovviste dei necessari mezzi per vivere che, nella presente legge regionale, oltreché nella legge 328/2000,
come abbiamo più volte ripetuto, non è garantito. Anche
solo per motivi semplicemente umanitari, i servizi indispensabili per la
sopravvivenza di detti cittadini dovrebbero essere resi obbligatori, definendo
anche l’importo delle relative risorse economiche.
Diversamente, per tutti gli altri
cittadini che possono trovarsi in condizione di difficoltà, anche solo
temporanea, ma che sono in grado di difendere i propri interessi e di
intervenire, occorre definire l’opportunità all’accesso agli interventi e
servizi sociali. Invece, la legge regionale dell’Emilia
Romagna 2/2003 attua l’allargamento dell’insieme degli “interventi e dei
servizi sociali” a tutta la popolazione, senza garanzie per chi effettivamente
ne ha davvero bisogno. C’è dunque il pericolo reale che una parte anche
consistente dei fondi venga destinata ai cittadini che
non hanno esigenze impellenti. Al riguardo, ricordiamo che i Comuni, pur
continuamente affermando la carenza di risorse per
assistere i più deboli, dispongono poi di mezzi economici per iniziative
evidentemente clientelari come, per esempio, i soggiorni per minori e per
anziani, le svariate attività falsamente
ricreative, i contributi concessi alle associazioni per finalità chiaramente
non sociali, le manifestazioni pseudo culturali, ecc.
Contributi richiesti illegalmente ai congiunti degli assistiti
Ai sensi dell’articolo 49 della
legge n. 2/2003 dell’Emilia Romagna «il
Consiglio regionale, con propria direttiva, definisce i criteri per la
determinazione del concorso da parte degli utenti al costo delle
prestazioni del sistema integrato, sulla base del principio di progressività in
ragione della capacità economica dei soggetti e nel rispetto dei principi di
cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109».
La questione dei contributi è estremamente importante se si tiene conto che, come ha
precisato Graziano Giorgi, coordinatore della Regione
Emilia Romagna per le politiche sociali e familiari, «oggi le famiglie pagano per un ricovero in casa protetta o residenza
sanitaria assistita cifre che sono dell’ordine di 3.500.000 di vecchie lire al
mese» (18). Orbene, il Consiglio regionale, invece di approvare una
disposizione che – finalmente – dia attuazione all’art. 25 della legge 328/2000
(19) ed ai decreti 109/1998 e 130/2000, ne ritarda, senza alcuna
giustificazione logica, l’applicazione che doveva aver luogo
a partire dal 1° gennaio 2001. Mediante il suddetto espediente, il Consiglio regionale
consente ai Comuni di continuare a non rendere operative le leggi approvate dal
Parlamento ed a spillare denaro ai cittadini. Nella lettera
inviata al Prefetto di Piacenza in data 4 luglio 2002, prot.
ASS/ASF/02/28796, Gianluca Borghi, Assessore alle politiche sociali della
Regione Emilia Romagna, ha sostenuto che fino all’entrata in vigore della legge
regionale quadro sull’assistenza era confermata «la validità e l’efficacia della legge
regionale 2/1985». Da notare che detta legge (cfr. l’art. 8) coinvolge
nel pagamento delle prestazioni socio-assistenziali «le persone tenute agli alimenti», disposizione che era stata
considerata contrastante con le leggi vigenti dal Ministero dell’interno con
nota n. 12287/70 del 27 dicembre 1993. L’illegittimità della chiamata in causa
dei parenti tenuti agli alimenti da parte degli enti pubblici è sancita,
inoltre, dal 6° comma dell’articolo 2 del testo unificato dei
decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 (20).
Purtroppo, nel caso in esame, non
si può far altro che ricordare il detto: “Contro
la forza ragion non vale”, che potrebbe essere modificato, per renderlo più
adeguato alla situazione “Contro la forza la legge non vale”. La richiesta illegale di
contributi ai congiunti degli anziani malati cronici non autosufficienti la
dice lunga sull’orientamento politico della Regione Emilia Romagna nei
confronti dei soggetti incapaci di autodifendersi
e dei loro congiunti.
Altri aspetti negativi
Segnaliamo, altresì, i seguenti:
1. –
l’istituzione da parte della Regione del Fondo sociale per la non
autosufficienza (cfr. l’articolo
50). Il Fondo (che si finanzia attraverso il Fondo sociale regionale, il Fondo
sanitario regionale, le risorse statali finalizzate, le ulteriori
risorse regionali provenienti dalla fiscalità generale ed eventuali risorse di
altri soggetti), sovvenziona le prestazioni ed i servizi ai sensi dell’articolo
2 del Dpcm (decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri) 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di
prestazioni socio-sanitarie), rivolti a persone non autosufficienti, in
particolare gli anziani malati cronici non autosufficienti ed i soggetti
colpiti dal morbo di Alzheimer. Lo scopo vero del Fondo è la conferma
dell’espulsione dei suddetti malati dalla piena competenza del Servizio
sanitario nazionale. Tenuto conto dei gravosi oneri economici attualmente imposti alle famiglie (come abbiamo già rilevato
si tratta in media di 3,5 milioni di vecchie lire al mese), il Fondo consentirà
di ridurre i sacrifici ad esse ingiustamente imposti. Si tratta, inoltre, di un
fondo a carattere assistenziale che va a coprire
necessità che, invece, dovrebbero essere soddisfatte dal Servizio sanitario
attingendo da risorse specifiche di questo campo. Ricordiamo, inoltre, che la
Sanità è un settore dove il cittadino può contare su tutta una serie di
prestazioni esigibili, mentre l’assistenza (come dimostra anche questa legge
regionale) garantisce ancora ben poco;
2. – il riferimento sempre e solo
alla famiglia (21). Poiché nel nostro ordinamento giuridico per famiglia
s’intende solo quella fondata sul matrimonio, non si comprende come verranno considerati i nuclei familiari non costituitisi a
seguito di nozze civili o religiose;
3. – la sottrazione ai Comuni di
competenze su questioni anche molto importanti. Per esempio, in base
all’articolo 7, comma 5, della legge 2/2003, la Giunta regionale “definisce con proprio atto l’organizzazione
degli sportelli sociali, gli strumenti tecnici di valutazione e controllo dei
programmi assistenziali e le modalità di
individuazione del responsabile del caso”;
4. – la messa a disposizione
dell’ingente patrimonio delle Ipab ed i relativi
redditi, per fronteggiare i più svariati bisogni (anche quelli non strettamente
essenziali) di tutti i cittadini, pure quelli che dispongono
di risorse sufficienti per una vita accettabile (22).
Confermata l’inefficacia della legge 328/2000
Possiamo in conclusione affermare
che la legge n. 2/2003 dell’Emilia Romagna è anche un’altra testimonianza dell’inefficacia della legge 328/2000 che non ha previsto
nessuna norma a tutela effettiva dei diritti delle fasce più indifese, a
dispetto dell’articolo 38, primo comma, della Costituzione; in particolare, ha
voluto semplicemente rimandare alle Regioni la facoltà di prevedere eventuali
diritti esigibili. La Regione Emilia Romagna con la legge 2/2003 non ha colto
tale possibilità. Anzi, in proposito, non ha fatto altro che ripassare la palla
ai Comuni (singoli o associati), i quali attraverso
gli strumenti del Piano di zona – ovvero la concretizzazione a livello
cittadino del Piano nazionale per le politiche sociali dal quale discende
quello regionale e poi quello comunale – e della Carta dei servizi, dovrebbero
garantire i livelli essenziali delle prestazioni. È appena il caso di accennare
che il Piano di zona e la Carta dei servizi sono meri strumenti di tipo
programmatico/gestionale, che non possono, stante la
loro definizione, avere efficacia in termini di diritti se non al massimo
riconoscere quelli che oggi apostrofiamo come “diritti di carta” (23).
Conclusioni
Per quelle Regioni che devono
ancora recepire la normativa nazionale
sull’assistenza, auspichiamo che intervengano al fine di introdurre cambiamenti
sostanziali, per quanto riguarda i loro confini territoriali, le disposizioni
della legge 328/2000.
Per quanto concerne i Comuni,
bisogna evitare che, soprattutto in assenza di diritti esigibili riconosciuti
al relativo livello regionale, il su richiamato Piano di zona sia e rimanga un
impianto privo di efficacia. Allo scopo occorre che
esso poggi su una delibera comunale o consortile che stabilisca diritti reali.
I cittadini più deboli devono poter contare, e non possono
fare altrimenti, su diritti e servizi esigibili. È compito di tutti, delle
organizzazioni di rappresentanza, di quelle sindacali, delle associazioni di
volontariato, ecc., agire affinché le istituzioni,
centrali e locali, prevedano servizi con la garanzia di diritti effettivi per
la fascia più debole della popolazione (24).
(1) Legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali” (cfr.
Prospettive assistenziali,
n. 130, 2000).
(2) Cfr. “La riforma
dell’assistenza all’esame della Camera dei Deputati: una proposta di legge
gravemente immorale”, Prospettive assistenziali n. 127, 1999; “Il testo di legge sui
servizi sociali calpesta le esigenze dei più deboli ed ignora la prevenzione
dell’emarginazione”, Ibidem n. 128,
1999; “Cinico no della Camera dei Deputati e del Governo al riconoscimento del
diritto esigibile alle prestazioni di assistenza sociale indispensabili per le
persone più deboli”, Ibidem n. 129,
2000; “Scandalosamente iniquo il testo di legge sui servizi sociali approvato
dalla Camera dei Deputai: tolti ai più deboli diritti e risorse. Un appello ai Senatori, al Governo e al volontariato”, Ibidem n. 130, 2000; “Abbondano le
notizie false sul testo di legge dell’assistenza e dei servizi sociali”, Ibidem n. 131, 2000; “La legge 328/2000
sui servizi sociali è iniqua e truffaldina”, Ibidem n. 132, 2000. Inoltre, si veda il volume di M. G. Breda, D. Micucci, F. Santanera,
La riforma dell’assistenza e dei servizi
sociali - Analisi della legge 328/2000 e proposte attuative,
Utet Libreria, Torino, 2001.
(3) Cfr. Prospettive sociali e sanitarie, n. 6, 1° aprile 2003.
(4) Come ha anche affermato Livio
Pepino nella relazione intitolata “L’esigibilità dei diritti sociali” ad un
convegno a Torino del 20 settembre 2002 «un
diritto “subordinato alle risorse” è semplicemente un non diritto».
(5) A conferma riportiamo le seguenti enunciazioni:
- articolo 1, comma 1: «La presente legge
(…) detta norme per la promozione della cittadinanza
sociale, dei diritti e delle garanzie ad essa correlati»;
- articolo 2, comma 1: «La Regione e gli
Enti locali (…) garantiscono l’insieme dei diritti e delle opportunità volte
allo sviluppo ed al benessere dei singoli e delle comunità»;
- articolo 2, comma 3: «Il sistema
integrato (…) opera per assicurare il pieno rispetto dei diritti ed il sostegno
della responsabilità delle persone, delle famiglie e delle formazioni sociali
- articolo 3, comma 3: «Il sistema
integrato garantisce sul territorio regionale i livelli essenziali ed uniformi
delle prestazioni»;
- articolo 4, comma 2: «L’assistenza
ai soggetti di cui al comma 1 è garantita dal Comune di residenza».
Dunque, al di là delle affermazioni dell’Assessore
regionale precedentemente riportate, la legge n. 2/2003 dell’Emilia Romagna,
nella sostanza, contiene soltanto affermazioni di principio. Tenuto conto
dell’assenza di diritti esigibili, non riusciamo a comprendere in base a quale criterio Emanuele Ranci Ortigosa
e Ugo De Ambrogio abbiano potuto, sul n. 6/2003 di Prospettive sociali e sanitarie, affermare che la legge della
Regione Emilia Romagna «segna una tappa
importante».
(6) Cfr. l’articolo
di Massimo Dogliotti “I minori, i soggetti con
handicap, gli anziani in difficoltà… ‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere assistiti dai
Comuni”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
(7) Riportiamo le principali disposizioni della tuttora
vigente legge 6 dicembre 1928, n. 2838:
1) «In ogni Provincia il servizio di assistenza
agli illegittimi abbandonati o esposti all’abbandono è affidato (…) alla
Amministrazione provinciale la quale vi provvede o mediante la concessione di
adeguati sussidi alle madri che allattino o allevino i rispettivi figli, o col
ricovero e mantenimento dei fanciulli nei brefotrofi o nei congeneri istituti,
curando di ricoverarli, per quanto sia possibile, insieme alle madri, quando
sono poppanti, o invece il collocamento dei medesimi a baliatico e in
allevamento esterno»;
2) «l’ordine di preferenza nell’applicazione dei sistemi di
assistenza» deve essere «stabilito
dall’Amministrazione incaricata del servizio con deliberazione motivata, tenuto
conto delle condizioni economiche, morali, igieniche e assistenziali della
popolazione locale»;
3) dovevano e devono
obbligatoriamente essere «ammessi all’assistenza»:
a) «i fanciulli abbandonati, figli di ignoti, che
siano rinvenuti in un luogo qualsiasi della Provincia»;
b) «i fanciulli per i quali sia richiesta la
pubblica assistenza, nati nei Comuni della Provincia da unioni illegittime e
denunciati allo stato civile come figli di ignoti»;
c) «ogni fanciullo nato da unione illegittima,
riconosciuto dalla sola madre, quando questa possa dimostrare di trovarsi in istato di povertà e provveda, inoltre, direttamente
all’allattamento o allevamento del proprio figlio, salvo i casi in cui sia
riconosciuta fisicamente incapace di allattare o si oppongano ragioni d’indole igienico-sanitaria o gravi motivi d’ordine morale»;
4) «l’assistenza non può essere richiesta se il bambino abbia compiuto gli
anni sei (in questi casi la competenza era ed è dei
Comuni, n.d.r.) e
si estende sino all’età prescritta per l’ammissione dei fanciulli al lavoro
dalle norme legislative vigenti in materia»;
5) «le spese per il servizio di assistenza dei
fanciulli illegittimi di cui alle lettere a) e b) sono anticipate dalla
Provincia e fanno carico ad esse od ai rispettivi Comuni (…)». Quelle relative alle
attività di cui alla lettera c), anch’esse anticipate dalle Province, facevano
carico per un terzo alla disciolta Onmi (Opera
nazionale per la maternità e l’infanzia) e «per
il rimanente sono ripartite in misura uguale»;
6) «nelle Province nelle quali lo consiglino le condizioni locali,
l’assistenza del fanciullo deve, ove possibile, avere
inizio all’epoca della gestazione della madre»;
7) «Nei casi in cui è obbligatoria (…) l’assistenza è dovuta, sin dal giorno della nascita,
a tutti indistintamente i fanciulli che per essa abbiano titolo, senza riguardo
al luogo di nascita o di domicilio, all’età, allo stato civile, al numero dei
precedenti parti, ed alle condizioni morali ed economiche della madre».
(8) A questo proposito, come abbiamo già avuto modo di
rilevare (cfr. Maria Grazia Breda, Donata Micucci, Francesco Santanera, La riforma dell’assistenza e dei servizi sociali - analisi della legge
328/2000 e proposte attuative, Utet Libreria, Torino, 2001) la legge 328/2000 attribuisce
alle Regioni la possibilità di mantenere le attuali discriminazioni. Infatti, ricordiamo che il 5° comma dell’articolo 8
stabilisce quanto segue: «La legge
regionale di cui all’articolo 132 del decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 112, disciplina il trasferimento ai Comuni o agli enti locali delle
funzioni indicate dal regio decreto-legge 8 maggio 1927, n. 798,
convertito dalla legge 6 dicembre 1928, n. 2838, e dal decreto-legge 18
gennaio 1993, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 marzo
1993, n. 67. Con la medesima legge, le Regioni disciplinano, con le
modalità stabilite dall’articolo 3 del citato decreto legislativo n. 112
del 1998, il trasferimento ai Comuni e agli enti locali delle risorse umane,
finanziarie e patrimoniali per assicurare la copertura degli oneri derivanti
dall’esercizio delle funzioni sociali trasferite utilizzate alla data di entrata in vigore della presente legge per l’esercizio
delle funzioni stesse». Pertanto, le Regioni potrebbero attribuire le
funzioni “ad altri enti locali” e cioè alle Province
oppure ad appositi consorzi fra Comuni o fra Comuni e Province.
(9) Ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n.
171 del 1974, possono essere denunciati come figli di ignoti anche i nati da
donne coniugate.
(10) Ricordiamo che i Comuni, in base all’articolo 4, comma
2, della legge in oggetto sono tenuti ad assistere esclusivamente i soggetti
residenti nel loro territorio.
(11) La complessità delle prestazioni è illustrata
nell’articolo di Marisa Persiani, psicologa del servizio “Minori” della
Provincia di Roma, “Il diritto alla segretezza del parto: aspetti sociali e
sanitari”, Prospettive assistenziali,
n. 141, 2003.
(12) Cfr. R. Carapelle e F. Santanera, A scuola
di diritti - Come difendersi da inadempienze e abusi della burocrazia
sociosanitaria, Utet Libreria, Torino,
1997.
(13) Livio Pepino, op. cit.
(14) Cfr. R. Carapelle
e F. Santanera, op. cit.
(15) Cfr. “Ripartire
dai diritti – Diritto all’assistenza e diritto alla salute alla luce della
riforma del Titolo V della Costituzione” di Mauro Perino. Il testo è disponibile on-line sul sito www.cisap.to.it alla voce
“Pubblicazioni” selezionando l’anno 2003.
(16) Cfr. Livio Pepino, “La salute: fortuna o
diritto?” in Animazione sociale, n.
12, 2001.
(17) L’art. 38 della Costituzione recita al primo comma
quanto segue: «Ogni cittadino inabile al
lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale».
(18) Cfr. Graziano Giorgi, “Il Piano di sviluppo sociale come strumento
strategico di programmazione locale”,
Studi Zancan - Politiche e servizi alle persone,
n. 3, 2003.
(19) L’articolo 25 della legge 328/2000 impone ai Comuni di
applicare i decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 per «la verifica della condizione economica del richiedente» gli
interventi socio-assistenziali. Le Regioni, ai sensi degli articoli 8 e 18
della stessa legge 328/2000 entro il 30 giugno 2001 dovevano provvedere alla «definizione dei criteri per la
determinazione del concorso da parte degli utenti al costo delle
prestazioni» rispettando quanto previsto dai sopra citati decreti
legislativi.
(20) Ricordiamo ancora una volta che il 6° comma del testo
unificato dei decreti legislativi 109/1998 e 130/2000 stabilisce quanto segue: «Le disposizioni del presente decreto non
modificano la disciplina relativa ai soggetti tenuti
alla prestazione degli alimenti ai sensi dell’art. 433 del codice civile e non
possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione agli enti erogatori
della facoltà di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile nei
confronti dei componenti il nucleo familiare del richiedente la prestazione
sociale agevolata». A sua volta, il primo comma
dell’articolo 438 del codice civile sancisce che «gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di
provvedere al proprio mantenimento».
(21) Cfr. l’articolo
9: "La Regione sostiene il ruolo essenziale delle famiglie nella
formazione e cura delle persone e nella promozione della coesione sociale,
valorizza i compiti che le famiglie svolgono sia nella vita quotidiana, sia nei
momenti di difficoltà e disagio legati all'assunzione di responsabilità di
cura".
(22) Per quanto riguarda le Ipab
rileviamo che, dopo la legge 328/2000 e l’emanazione del relativo decreto
legislativo 4 maggio 2001, n. 207 “Riordino del sistema delle Ipab, a norma dell’art. 10 legge 8 novembre 2000, n. 328”
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale
n. 126 del 1° giugno 2001) sono state purtroppo abrogate le norme che vincolavano
i patrimoni ed i loro redditi ad essere destinati esclusivamente alle persone
ed ai nuclei familiari in gravi condizioni socio-economiche. Inoltre
sono state annullate le disposizioni della legge 6972/1890 in base alle quali i
patrimoni non potevano essere utilizzati per coprire le spese di gestione.
Ricordiamo che in Italia la posta in gioco riguarda patrimoni per 110-140 mila
miliardi di vecchie lire. La legge regionale dell’Emilia Romagna, purtroppo,
non prevede diversamente dalla legge 328/2000.
(23) Cfr. “Due forti discorsi del
Cardinale Martini”, Prospettive assistenziali, n. 129, 2000.
(24) Cfr. “Proposte alle Regioni
per limitare i danni della legge quadro sui servizi sociali”, Prospettive assistenziali,
n. 132, 2000 e, in questo numero, l’articolo “Proposta di delibera da
collegare al piano di zona sui servizi socio-assistenziali”.
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