Prospettive assistenziali, n. 145, gennaio-marzo
2004
SENTENZA
DELLA CORTE DI CASSAZIONE NEI CONFRONTI DI UN MEDICO PER VIOLAZIONE DI DOVERI
PROFESSIONALI E TRUFFA
Costituisce violazione di doveri professionali normativamente definiti e
integra gli estremi dei delitti di abuso di ufficio e di truffa aggravata il
comportamento di un medico dipendente da struttura ospedaliera pubblica, il
quale, dopo aver diagnosticato una situazione di imminente pericolo e l’urgenza
dell’intervento, dirotti, con false spiegazioni, verso una clinica privata un
paziente grave rivoltosi all’ospedale pubblico, percependo altresì cospicui
onorari per le prestazioni effettuate come professionista privato. È dovere del
medico pubblico dipendente, anche di fronte a lunghe liste d’attesa e alla
carenza di posti letto, fare tutto quanto è in suo potere perché si provveda
immediatamente a fornire le necessarie prestazioni al paziente nella struttura
pubblica da cui dipende e, quando ciò risulti impossibile, avviarlo presso
altra struttura pubblica disponibile.
TESTO della
sentenza
La Suprema Corte di Cassazione,
Sezione seconda penale, composta da L. Varola, Presidente e dai
Consiglieri P. Sirena, A. Esposito, E. Perna La
Torre e dal Relatore Estensore M. Massera, ha
pronunciato la seguente sentenza (n. 960 del 13 gennaio 2003, n.d.r.) sul ricorso proposto da G. E.,
nato a… il…, avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna in data
12.4.2001 (…).
Svolgimento del
processo
Con sentenza del 12.4.2001 la
Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della
sentenza del Tribunale di Ferrara del 14.4.2000 che lo aveva assolto,
dichiarava E. G. responsabile dei delitti di abuso di
ufficio e di truffa aggravata, unificati dal vincolo della continuazione, per
essersi fatto pagare mediante artifici e raggiri parcelle milionarie per prestazioni
effettuate quale professionista privato nei confronti di pazienti da lui
conosciuti perché ricoverati presso la struttura pubblica di cui è dipendente e
per l’effetto lo condannava alla pena condizionalmente
sospesa di mesi sei di reclusione e £ 1.000.000 di multa, oltre
all’interdizione dai pubblici uffici per anni uno.
La Corte territoriale affermava
che il G. aveva dapprima rappresentato al paziente M. C. e ai suoi congiunti
l’imminenza di un pericolo inesistente e l’impossibilità di un ricovero
tempestivo presso la struttura pubblica convincendoli ad eseguire gli esami più
urgenti presso la clinica privata, di cui costoro prima ignoravano l’esistenza,
poi aveva tentato di convincere i medesimi a scegliere la stessa clinica per un
intervento chirurgico mediante la falsa spiegazione che la struttura pubblica
al momento non disponeva di certe endoprotesi
metalliche probabilmente necessarie.
Contro tale decisione ha proposto
tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del
difensore, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi: 1) in primo grado
il P.M. non ha contestato specifiche violazioni di legge o di regolamento, per
cui in appello il ricorrente ha dovuto difendersi da plurime violazioni di
legge mai specificate e diversamente prospettate dalla parte civile e dal
Procuratore generale, mentre la Corte di appello ha raffigurato un fatto
diverso rispetto alla vocatio in iudicium;
2) la motivazione della sentenza impugnata è illogica e insufficiente con
riferimento alla valutazione delle risultanze processuali, ha omesso di
esaminarne alcune molto importanti, ha estrapolato il contenuto di parte di
altre deposizioni testimoniali, non ha dato alcun credito alla tesi difensiva;
3) ha erroneamente applicato l’art. 14 del Dpr
128/1969 circa il dovere di fedeltà alla pubblica amministrazione cui è tenuto
il pubblico impiegato; 4) ha illogicamente motivato con riferimento
all’ingiusto vantaggio attribuito al G. per la consulenza prestata nella
clinica privata e alla sussistenza del dolo intenzionale; 5) è manifestamente
lacunosa la motivazione con riferimento alla condotta induttiva che la Corte
territoriale ha attribuito all’imputato.
Motivi della decisione
Osserva preliminarmente la Corte
che non sussiste alcuna delle ipotesi che, a norma dell’art. 129 del codice di procedura penale, impongono l’immediato proscioglimento
nel merito dell’imputato. Infatti, il primo motivo del
ricorso è manifestamente infondato. È vero che il capo di imputazione
è stato formulato in base al testo dell’art. 323 del codice penale vigente
all’epoca dei fatti e dell’apertura del procedimento penale e che non è stato
modificato dopo la riforma della norma incriminatrice
conseguente all’entrata in vigore della legge n. 234 del 1997, ma è ugualmente
vero che tale modifica non era affatto necessaria, unica conseguenza
dell’entrata in vigore della nuova normativa essendo l’applicabilità della
norma più favorevole all’imputato. D’altra parte anche dopo l’entrata in vigore
della citata modifica non è richiesta la specifica indicazione nel capo di imputazione delle norme che l’accusa ritiene essere state
violate, essendo sufficiente che la descrizione del fatto consenta all’imputato
di conoscere la contestazione e di predisporre la propria difesa. E nella
specie è indubbio che il G. è stato in grado di
difendersi compiutamente sia davanti al tribunale, sia nel giudizio di appello.
Le motivazioni debbono
risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in
sede di legittimità, significa dimostrare che detto testo è manifestamente
carente di motivazione e/o di logica e non già opporre alla logica valutazione
degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari
altrettanto logica (Cass. Sez. Unite n. 16 del 1996).
La censura in esame, dopo aver
ricostruito il fatto storico all’origine della imputazione,
prende in esame la valutazione che la Corte di appello ha effettuato delle
disposizioni testimoniali per inferirne che non ha preso in considerazione
risultanze processuali molto importanti al fine di valutare in concreto
l’eventuale illiceità delle condotte poste in essere dal G. e puntualmente
poste alla sua attenzione in un’apposita memoria scritta, quali la lunghezza
delle liste di attesa, il problema collegato alla disponibilità di posti letto,
la diagnosi clinica e strumentale necessaria per fondare una richiesta di
ricovero d’urgenza.
Ma queste argomentazioni, vagliate
alla stregua dei principi sopra precisati, sono prive di pregio.
La sentenza impugnata conferisce determinante rilievo alla originaria diagnosi di urgenza
(non smentita) effettuata dallo stesso G. per trarne la logica conseguenza che
tali diagnosi, che solo i successivi accertamenti avrebbero potuto
definitivamente confermare, smentisce la successiva tesi dell’imputato in
ordine all’assenza dei presupposti per un ricovero urgente e, nel contempo,
supera il problema della lunghezza delle liste di attesa per gli accertamenti
strumentali. È ovvio, infatti, che uno stato di pericolo attuale costituisce
una situazione di emergenza che rende doveroso il
ricovero immediato per procedere ad accertamenti tempestivi, eventualmente
costringendo ad ulteriori attese pazienti le cui condizioni sono meno
pressanti, e, nel caso, al tempestivo intervento chirurgico. La circostanza che
C. subì effettivamente l’operazione per l’occlusione della carotide venti giorni dopo la prima diagnosi conferma l’urgenza del
ricovero e della esecuzione degli accertamenti clinici e strumentali.
Il giudice di merito ha esaminato
e vagliato in modo critico le risultanze processuali argomentatamente disattendendo le diverse affermazioni del tribunale e respingendo le tesi
difensive.
Le prospettazioni
avanzate dal G. in questa sede offrono una ricostruzione della vicenda senz’altro logica, ma non colgono il fine perseguito perché
non scalfiscono la logicità e adeguatezza delle valutazioni della Corte di
appello e, quindi, la sua ricostruzione di fatti e comportamenti.
Quanto al terzo motivo, è
sufficiente ribadire che nel corso della prima visita
lo stesso G. riferì alla figlia del paziente che la patologia da lui rilevata
poteva comportare un ictus in tempi
brevi. In tale situazione, quando il paziente tornò tre giorni dopo per
ricoverarsi, il G. avrebbe dovuto per le vedute ragioni disporne il ricovero immediato
e, ove questo fosse stato impossibile per carenza di
letti, avviare il paziente presso altra struttura ospedaliera disponibile,
anziché consigliarli una serie di esami da effettuare in una struttura privata.
Correttamente, dunque, la sentenza impugnata ha individuato nel suo
comportamento la violazione di doveri professionali normativamente
definiti.
Anche il quarto motivo attiene al
vizio di motivazione, quindi va esaminato tenendo conto dei limiti sopra
precisati. Quanto al vantaggio patrimoniale ingiusto, la
considerazione che la Corte l’abbia ravvisato in base alla sola testimonianza
della figlia del paziente non inquina la statuizione. Si verte, infatti,
in tema di valutazione dell’attendibilità di una fonte
di prova e della rilevanza della medesima. Non vi sono elementi che inducano a dubitare della credibilità della teste e delle
sue affermazioni. Inoltre, la Corte di appello ha
escluso con motivazione congrua e logica che la somma corrisposta al G. fosse
giustificabile ad altro titolo (quale compenso per una consulenza).
Quanto al dolo, anche la relativa
affermazione si basa sulla valutazione delle risultanze
processuali e in particolare sulla rilevanza di una dichiarazione scritta che
secondo la Corte territoriale il G. avrebbe fatto artatamente predisporre dal
paziente, articolandola in due parti, la prima non corrispondente alle reale
volontà del medesimo, la seconda presuntuosa, al fine di precostituirsi la
prova della spontaneità del dirottamento dalla struttura pubblica a quella
privata. Anche a tale proposito il ricorrente propone una sua lettura degli
avvenimenti, ma ancora una volta le sue argomentazioni non inficiano quella offerta dalla sentenza.
Il quinto motivo attiene alla
condotta induttiva individuata dalla Corte territoriale nella mancanza di alternativa rispetto al prospettato ricovero in clinica
privata. Il ricorrente assume che simile laconica prospettazione
è inidonea ad integrare gli estremi di una condotta induttiva posta in essere mediante artifici e raggiri. Prendendo ancora
una volta spunto dalla diagnosi iniziale, osserva il Collegio che la
manifestazione della necessità di accertamenti e
interventi tempestivi unita a quella dei lunghi tempi della struttura pubblica,
accompagnata dal diniego della possibilità di sollecito ricovero presso di
essa, costituisce un argomento certamente idoneo ad indurre la parte
interessata (e gravemente preoccupata per un possibile esito letale) ad
accettare la prospettazione dell’imputato di
ricorrere alla struttura privata.
Il ricorso è dunque infondato, ma
nella specie ricorre una delle ipotesi previste dal 2° comma dell’art. 129 del c.p.p. Infatti, i delitti
accertati al G. sono stati commessi fino al 9.11.1993, per cui, a norma degli
articoli 157 e seguenti del codice penale, si sono prescritti il 9.5.2001.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata poiché i reati sono stati estinti per
prescrizione.
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