Prospettive assistenziali, n. 146, aprile-giugno
2004
CONSIDERAZIONI SUL DOCUMENTO PREDISPOSTO PER
Francesco
SANTANERA
Nelle scorse settimane
l’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza (1) ha diffuso un
documento per la stesura di un “Piano di intervento
per rendere possibile la chiusura degli istituti per minori entro il 2006”,
chiusura stabilita dalla legge 149/2001 nei seguenti termini: «Il ricovero in istituto deve essere superato
entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non
sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare
caratterizzate da organizzazioni e da rapporti interpersonali analoghi a quelli
di una famiglia» (2).
Che cosa si deve intendere per
“istituto”
In primo luogo, ad evitare
deleteri equivoci, è necessario precisare che, a nostro avviso, per istituti si
devono intendere le strutture aventi più di dieci posti letto,
anche se sono organizzate in gruppi spesso denominati strumentalmente “gruppi
famiglia”.
Infatti, tutte le concentrazioni
di minori (analoghe considerazioni valgono per gli adulti e per gli anziani)
sono deleterie in quanto costituiscono di fatto un
carico abnorme sulla comunità locale, la quale reagisce spesso con il rifiuto:
si vengono così a costituire i ghetti.
Per i minori, come risulta dalle inoppugnabili ricerche scientifiche che
risalgono anche a mezzo secolo fa, la carenza di cure familiari è sempre
deleteria e intacca profondamente la personalità dei minori (3).
La prevenzione del
disagio e dell’istituzionalizzazione
In secondo luogo, l’Osservatorio
nazionale per l’infanzia e l’adolescenza si limita – fatto di
estrema gravità – a ricordare che «il
Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela e lo sviluppo dei
soggetti in età evolutiva statuisce che “gli interventi di politica sociale che
vogliono favorire la condizione dei minori si devono collocare innanzitutto in
una prospettiva di sostegno alla famiglia nella sua duplice veste di
istituzione e nucleo vitale di socialità per la semplice considerazione che
essa costituisce il luogo primario della formazione dell’identità e della
crescita del bambino”» e che «in
questo senso diventa prioritaria la promozione di politiche sociali
esplicitamente dirette al sostegno della famiglia in quanto tale secondo
un’ottica non più assistenziale, riparatoria e
sostitutiva (aiuti a famiglie povere, “assenti” o inadeguate), ma promozionale
e preventiva, tesa a rendere compatibile la scelta del fare famiglia con le più
generali strategie di realizzazione degli obiettivi di vita dei singoli
individui» (4).
Bellissime parole, a cui però non
fa seguito nemmeno un’indicazione operativa in materia di prevenzione del
disagio e dell’istituzionalizzazione, nonché in merito
agli aiuti psico-sociali ai nuclei familiari problematici.
Si continueranno, pertanto, a
ricoverare in istituto fino al 31 dicembre 2006 e poi in comunità i minori i
cui genitori sono in difficoltà a causa della mancanza di lavoro e di
un’abitazione adeguata alle loro esigenze o per le carenze
degli altri interventi sociali indispensabili per consentire l’armonica
crescita dei minori?
C’è un’altra questione di non
trascurabile importanza: nel documento si fa sempre e solo riferimento alla
“famiglia”, come avevamo già riscontrato nel Piano nazionale di
azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei
soggetti in età evolutiva 2002-2004 (5).
Orbene, in base al dettato
costituzionale (articolo 29), la famiglia è intesa come «società naturale fondata sul matrimonio». A questo riguardo poniamo
due interrogativi:
a) le iniziative vanno rivolte
solo alle famiglie fondate sul matrimonio o anche agli altri nuclei familiari?
b) le priorità di
intervento dovranno essere individuate sulla base della condizione di
bisogno o tenendo conto della natura giuridica del gruppo delle persone
coinvolte?
L’assistenza ai
minori nati nel e fuori dal matrimonio, nonché ai
fanciulli già di competenza dell’Onmi
Nel documento in esame non si fa
cenno alla perdurante esecrabile situazione, che dura dal 1927 (6), per cui, mentre i minori nati nel matrimonio sono in genere
assistiti dai Comuni, le competenze riguardanti i fanciulli nati al di fuori
del vincolo matrimoniale spettano quasi sempre alle Province (7).
Inoltre, le Province sono ancora
competenti in materia di «ciechi e sordi
poveri rieducabili», così definiti dal regio decreto 383/1934.
Occorre anche tenere presente
che, a seguito dello scioglimento dell’Onmi, Opera
nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia, finalmente
realizzatosi con l’emanazione della legge 23 dicembre 1975 n. 698, sono state
trasferite alle Province «tutte le
funzioni amministrative di fatto esercitate dai
comitati provinciali dell’Onmi», funzioni che
comprendevano anche, in molte zone, l’assistenza ai minori nati nel matrimonio.
Purtroppo com’è noto, le attuali
assurde discriminazioni sopra riferite (si badi bene: soppresse dalla legge
142/1990 e reintrodotte dalla n. 63/1993), non sono state eliminate dalla legge
quadro sull’assistenza e sui servizi sociali n. 328/2000. Essa, infatti, al 5°
comma dell’articolo 8 prevede che le Regioni possono trasferire non solo ai
Comuni, ma anche stoltamente ad altri enti (consorzi tra Comuni e Province,
ecc.) o confermare alle Province le sopraindicate competenze dalle stesse attualmente esercitate (8).
Si osservi che le nostre
autorità, mentre si vergognano delle sopra menzionate discriminazioni, al punto
che omettono di segnalarle nei rapporti ufficiali inviati agli organismi
internazionali (9), nulla fanno per predisporre una
legge di poche righe per la loro cancellazione, la cui approvazione
determinerebbe anche una consistente riduzione delle spese assistenziali di
gestione, in questo caso non solo inutili ma nefaste.
Riteniamo che non sarebbe stata una grande fatica per l’Osservatorio nazionale
per l’infanzia e l’adolescenza ricordare l’attuale assurda situazione e
proporre il semplicissimo rimedio da noi suggerito.
A questo proposito non vorremmo
che sorgessero comunità istituite dai Comuni per i minori nati nel matrimonio e
analoghe strutture create dalle Province per i fanciulli
nati al di fuori di esso.
Altra grave dimenticanza
dell’Osservatorio riguarda l’assenza di riferimenti e di proposte in merito
alla delicatissima questione del segreto del parto, a cui hanno diritto tutte
le donne siano esse coniugate e nubili (10), nonché al
problema, anch’esso assai rilevante, del riconoscimento o non riconoscimento
dei loro nati.
Circa gli interventi concernenti le gestanti, la loro importanza è estrema al
fine di ottenere riconoscimenti e non riconoscimenti responsabili. Questa è la
condizione sine qua non anche per evitare gli abbandoni
tardivi, sempre deleteri per i minori.
Da notare che le relative
competenze sono attualmente attribuite alle Province;
anch’esse dovrebbero essere trasferite a livello comunale, ma – ovviamente per
assicurare alle gestanti la necessaria riservatezza – non a tutti i Comuni come
ha deciso in modo scriteriato la Regione Emilia Romagna (11).
Correttamente ha agito, invece,
la Regione Piemonte che con la legge n. 1/2004 “Norme per la realizzazione del
sistema regionale integrato di interventi e servizi
sociali e riordino della legislazione di riferimento” ha affidato alla Giunta
regionale (articolo 58) il compito di adottare «linee guida per gli enti gestori istituzionali per l’esercizio delle
competenze relative agli interventi socio-assistenziali nei confronti delle
gestanti e madri in condizione di disagio individuale, familiare e sociale,
compresi quelli volti a garantire il segreto del parto alle donne che non
intendono riconoscere i figli, e gli interventi a favore dei neonati nei primi
sessanta giorni di vita» (12).
Le alternative al ricovero
Mentre, come abbiamo già
rilevato, nel documento in esame non vi sono proposte concernenti la
prevenzione del disagio minorile e dell’istituzionalizzazione, sono affrontate
in modo dettagliato, anche se non sempre condivisibile, le questioni relative all’affidamento familiare, all’adozione, alle forme
complementari, ulteriori ed innovative di accoglienza familiare ed alle
comunità, comprese quelle per le emergenze e le crisi.
Diciamo subito che tutta la
trattazione relativa alle iniziative sopra elencate, è
di natura esclusivamente astratta. Infatti, mai viene
segnalato che le leggi 328/2000 e 149/2001 sull’adozione e l’affido non
sanciscono alcun diritto esigibile, nemmeno per le persone che, se non vengono
assistite, muoiono o cadono nel baratro dell’emarginazione.
Ancora una volta rammentiamo che
gli unici riferimenti per costringere i Comuni ad agire sono gli articoli 154 e
155 del regio decreto 773/1931 “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”
(13).
L’affidamento
familiare
Nel documento dell’Osservatorio
nazionale per l’infanzia e l’adolescenza viene
semplicisticamente affermato che l’obiettivo generale è la promozione «dell’affidamento familiare in base alle
innovazioni e modifiche introdotte della legge n. 149/2001, in particolare
rendendolo più flessibile ed idoneo alle effettive esigenze di tutela del
minore e del suo preminente interesse a vivere in un ambiente sano e sereno e
valorizzando reti di famiglie e associazioni di famiglie entro cui la singola
famiglia affidataria trova sostegno amicale e
professionale».
Sono poi elencati alcuni
interventi che potrebbero essere assunti dalle Amministrazioni centrali (però,
precisare quali): campagna di informazione e di
sensibilizzazione, esenzione da qualsiasi tassa o altro onere economico delle
prestazioni sanitarie e socio-assistenziali a favore dei minori in affidamento,
armonizzazione della normativa in materia di genitori affidatari
(14).
Per quanto riguarda le iniziative
a livello di Regione e di Enti locali, viene auspicata
la creazione di «Centri servizi alla
famiglia, dislocati sul territorio, prevedendo, dove esistono le risorse umane
e associative, la gestione e l’organizzazione dei medesimi dalle realtà sociali
impegnate nella difesa del diritto del minore alla
famiglia, attivando, incrementando, in tale contesto, anche i servizi affidi».
Al riguardo, c’è il pericolo che
detti centri vengano promossi per scaricare sul
privato attività che devono restare di competenza pubblica, mentre occorre
agire per far sì che l’affidamento diventi un intervento a cui il minore, sulla
base delle condizioni che verranno stabilite dal legislatore, abbia diritti
effettivi.
Viene inoltre proposta «tra le forme innovative di accoglienza,
l’affido alle associazioni familiari per il collocamento in una famiglia affidataria». Anche in questo caso si corre il rischio
gravissimo della deresponsabilizzazione dell’ente
pubblico, oltre che quello dell’attribuzione di compiti a soggetti incapaci di
assicurare prestazioni valide, com’è dimostrato abbastanza spesso
dall’affidamento di attività alle cooperative sociali.
Suscita riserve, altresì, la
prevista erogazione di buoni e voucher per la fruizione da parte
delle famiglie affidatarie dei servizi di supporto, per il fatto che si tratta
di una modalità che non tiene conto della validità della continuità delle
prestazioni di sostegno che devono necessariamente essere garantite alle famiglie
affidatarie per il positivo inserimento del minore in difficoltà. Dette
prestazioni, per essere efficaci, devono sempre essere fornite dagli stessi
operatori, essendo indispensabile una approfondita
conoscenza della situazione e del suo evolversi. Prevedere l’intervento di
personale secondo il sistema dei buoni e dei voucher, e cioè stabilendo la possibilità
di fare riferimento a operatori differenti, significa non tenere in alcuna
considerazione le esigenze dei minori, degli affidatari
e delle famiglie d’origine.
Il documento dell’Osservatorio
non prende in considerazione un problema di assoluta
importanza: la prosecuzione dell’affidamento familiare dopo il raggiungimento
della maggiore età del soggetto in difficoltà.
Numerosi sono, infatti, gli affidati
che, dopo aver superato il 18° anno d’età, non sono in
grado di vivere autonomamente, né possono rientrare nel loro nucleo familiare
d’origine.
A questo proposito ricordiamo
che, di fronte alla suddetta situazione, il Comune di Torino, su iniziativa
dell’Anfaa, con delibera del 18 aprile 2001 ha stabilito di prorogare
l’affidamento familiare fino al 25° anno d’età e di finanziare i progetti per
l’erogazione di una somma a fondo perduto di 5.165 euro per consentire
l’autonoma sistemazione abitativa del giovane (15).
L’adozione
Nel documento si sostiene la
necessità di «sensibilizzare la società
civile sull’adozione di minori in situazioni difficili: disabili, affetti da
patologie, adolescenti, traumatizzati, minori stranieri non accompagnati e
minori provenienti da fallimenti adottivi».
A nostro avviso, le campagne di
sensibilizzazione sono del tutto inutili, se le
adozioni difficili non vengono sostenute attivamente e per tutto il periodo di
tempo necessario dai servizi sociali e sanitari degli enti locali. Detto
sostegno, per essere effettivo, deve comprendere anche la priorità dell’accesso
ai servizi di interesse comunitario, e cioè a seconda
delle situazioni: asili nido, scuole materne e dell’obbligo, centri di
formazione professionale, ospedali, ambulatori, messa a disposizione degli
ausili, ecc.
L’Osservatorio nazionale per i
problemi dell’infanzia e dell’adolescenza indica fra gli interventi auspicati
l’erogazione di «contributi o rimborso
spese per il sostegno delle adozioni difficili (come già previsto per
l’affidamento)» con lo scopo di «assicurare
un sostegno economico congruo alle necessità dei genitori adottivi di minori di età superiore ai 12 anni o con handicap grave accertato,
erogabile fino al raggiungimento della maggiore età dell’adottato».
Mentre i contributi economici
possono essere utili, occorre, però, che anche in questi casi vengano messi a disposizione, se occorre anche durante la
maggior età dell’adottato, i servizi di interesse collettivo e vengano
garantite le prestazioni di sostegno.
Per quanto concerne l’erogazione
di buoni e di voucher per la fruizione dei servizi di supporto alle adozioni, valgono le
considerazioni da noi fatte in merito all’affidamento.
Le forme
complementari di accoglienza familiare
L’Osservatorio nazionale per
l’infanzia e l’adolescenza individua, tra le forme complementari di accoglienza, la cosiddetta adozione mite, in cui è
prevista la compresenza di rapporti delle genitorialità
biologiche e adottive.
Mentre rinviamo ad uno specifico
articolo la nostra critica rispetto all’inaccettabile suddetta proposta, non
possiamo fare a meno di asserire che l’inserimento nel nostro ordinamento
dell’adozione mite discende da una valutazione negativa delle attuali norme che riconoscono
all’adozione legittimante la peculiarità di una vera filiazione, che determina
- fatto di estrema importanza - la rottura piena e definitiva dei rapporti
giuridici dell’adottato con i genitori d’origine ed i congiunti di questi
ultimi.
Con l’adozione mite si
misconosce, invece, il ruolo formativo della famiglia adottiva e si attribuisce
ai genitori biologici un diretto ruolo educativo nei confronti dei loro nati,
nonostante che essi siano stati lasciati privi di ogni
sostegno materiale e morale durante l’infanzia e cioè nel periodo più
importante e condizionante della loro esistenza.
Le comunità
familiari, le strutture per le emergenze e le forme innovative di accoglienza
Concordiamo con l’affermazione
del documento dell’Osservatorio circa il particolare significato e la valenza
educativa delle comunità per minori «la
cui coppia residente è effettivamente una famiglia che si assume la guida, la
responsabilità educativa e la conduzione di una comunità» (16) a condizione
che venga compiuta un’adeguata selezione-preparazione
della coppia e siano forniti gli occorrenti sostegni da parte dei servizi.
Purtroppo, nulla viene detto sulla imprescindibile esigenza di evitare gli
accorpamenti di due o più comunità sia nello stesso edificio che nelle
immediate vicinanze. A nostro avviso, non sono accettabili né gli istituti
organizzati nei cosiddetti “gruppi famiglia”, né i villaggi Sos
e le analoghe strutture.
Avanziamo, inoltre, riserve
sull’opportunità di creare «strutture di accoglienza specificamente attrezzate per il trattamento
delle crisi» ritenendo che sarebbe preferibile riservare uno-due posti nelle diverse comunità per l’accoglienza
d’emergenza.
In merito alle comunità, di cui
dovrebbe essere precisata che la capienza massima è di sei-otto
posti (17), sarebbe stato opportuno, anche allo scopo di evitare la creazione
di strutture in luoghi isolati e per realizzare il loro inserimento nel vivo
del contesto sociale, che fosse stato fatto
riferimento alla legge 17 febbraio 1992, n. 179
“Norme per l’edilizia residenziale pubblica” il cui primo comma
dell’articolo 4 stabilisce quanto segue: «Le
Regioni, nell’ambito delle disponibilità loro attribuite, possono riservare una
quota non superiore al 15 per cento dei fondi di edilizia
agevolata e sovvenzionata per la realizzazione di interventi da destinare alla
soluzione di problemi abitativi di particolari categorie sociali individuate,
di volta in volta, dalle Regioni stesse, anche in deroga a quelli previsti
dalla legge 5 agosto 1978 n. 567, e successive modificazioni» (18).
Utilizzando le suddette
disposizioni, il settore dell’assistenza sociale realizzerebbe
una notevole riduzione delle spese a suo carico e, con tutta probabilità, i
tempi di realizzazione sarebbero inferiori rispetto a quelli occorrenti
per l’individuazione dei terreni in cui costruire, l’effettuazione degli
eventuali espropri, la progettazione e l’esecuzione dei lavori.
Un’iniziativa a nostro avviso
molto opportuna consisterebbe nella messa a disposizione dei locali adatti per
comunità alloggio da parte degli enti pubblici, in primo luogo quella di
proprietà di Regioni, Comuni, Province e Ipab,
istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.
(1) L’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza
è stato istituito a seguito della legge 23 dicembre 1997 n. 451, pubblicata
sulla Gazzetta ufficiale n. 302 del
30 dicembre 1997. Opera presso la Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Dipartimento per gli affari sociali. Ogni due anni
l’Osservatorio deve predisporre
«il piano nazionale di azione e di
interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età
evolutiva di cui alla Dichiarazione mondiale sulla sopravvivenza, la protezione
e lo sviluppo dell’infanzia, adottata a New York il 30 settembre 1990, con
l’obiettivo di conferire priorità ai programmi riferiti ai minori e di
rafforzare la cooperazione per lo sviluppo dell’infanzia nel mondo. Il piano
deve individuare, altresì, le modalità di finanziamento degli interventi da esso previsti nonché le forme di potenziamento e di
coordinamento delle azioni svolte dalle pubbliche amministrazioni, dalle
Regioni e dagli enti locali». Inoltre, l’Osservatorio deve presentare «ogni due anni la relazione sulla condizione
dell’infanzia in Italia e sull’attuazione dei relativi diritti».
Ricordiamo, infine, che l’Osservatorio «si
avvale di un Centro nazionale di documentazione e di analisi
per l’infanzia» (art. 3 della legge 451/1997).
(2) In base alla vigente legislazione in materia,
l’intervento prioritario dovrebbe consistere nel fornire al o ai genitori di
origine i supporti necessari per contrastare la situazione di disagio e per
evitare il ricovero in istituto o in comunità.
(3) Cfr. G. Cappellaro,
“Il diritto alla famiglia dei bambini piccolissimi”, Prospettive assistenziali, n. 145, 2004.
(4) È ovvio che l’ottica degli interventi non dovrebbe
essere riparatoria, ma, come da anni andiamo
ripetendo, le prestazioni assistenziali (sostegno economico, assistenza
domiciliare, ecc.) dovrebbero essere aggiuntive (e non sostitutive) degli
interventi di competenza dell’istruzione, della casa, della sanità e delle
altre attività di natura sociale.
(5) Cfr. “Piano del Governo per i
soggetti in età evolutiva: molte promesse e nessun nuovo diritto”, Prospettive assistenziali,
n. 144, 2003.
(6) È l’anno in cui il fascismo sottrasse ai Comuni le
funzioni relative all’assistenza dei minori nati fuori dal matrimonio e le
assegnò alle Province con il regio decreto legge 8 maggio 1927 n. 798,
convertito dalla legge 6 dicembre 1928 n. 2838.
(7) Vi sono nella legislazione vigente alcune eccezioni. Ad
esempio, se la prima richiesta di assistenza viene
presentata quando il bambino nato fuori dal matrimonio ha superato i sei anni,
la competenza non è più della Provincia, ma del Comune.
(8) Cfr. “Petizione popolare
indirizzata alla Regione Piemonte”, Prospettive
assistenziali, n. 133, 2001 e “Petizioni regionali
sul diritto dei minori alla famiglia”, Ibidem,
n. 137, 2002.
(9) Cfr. “Il rapporto del Governo
italiano all’Onu contiene notizie scorrette sui
minori”, Ibidem,,
n. 136, 2001.
(10) Cfr. M. Persiani,
“Il diritto alla segretezza del parto: aspetti sociali e sanitari”, Ibidem, n. 141, 2003.
(11) Cfr. G. D’Angelo
e F. Santanera, “La legge
della Regione Emilia Romagna sugli interventi e servizi sociali: nessun
diritto, ancora beneficenza”, Ibidem, n. 145, 2004.
(12) Cfr. “Tutelate le gestanti e
madri in difficoltà”, Ibidem, n. 144,
2003.
(13) In base alle norme sopra citate i Comuni sono solamente
obbligati a provvedere mediante il ricovero. Alcuni diritti esigibili
all’assistenza sono invece ancora vigenti per i minori nati fuori del
matrimonio. Cfr. la già
menzionata legge 2838/1928.
(14) Viene, altresì, proposta la modifica del sistema di
calcolo dell’Isee (indicatore della situazione
economica equivalente) e cioè del redditometro «basato in alcune realtà sul reddito della famiglia affidataria
e non su quello della famiglia di origine».
(15) Cfr. “Un altro successo del
volontariato dei diritti in materia di affidamento
familiare”, Prospettive assistenziali,
n. 134, 2001.
(16) In molte Regioni queste strutture sono denominate “case
famiglia”.
(17) Ai sensi del 5° comma dell’articolo 2 della legge
184/1983 le Regioni «sulla base dei
criteri stabiliti dalla conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni, le Province autonome di
Trento e Bolzano, definiscono gli standard minimi dei servizi e dell’assistenza
che devono essere forniti alle comunità di tipo familiare e agli istituti e
verificano periodicamente il rispetto dei medesimi».
(18) Cfr. “Norme in materia di affidamenti e comunità alloggio per persone e nuclei
familiari in difficoltà”, Prospettive
assistenziali, n. 109, 1995.
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