Prospettive assistenziali, n. 146, aprile-giugno 2004

 

 

DIVERSABILITà E DIVERSABILE: UNA TERMINOLOGIA CHE DISCRIMINA

maria grazia breda

 

Nel volume Diversabilità (1) e in numerosi altri scritti, Claudio Imprudente, Direttore della rivista HP - Accaparlante e Presidente del Centro documentazione handicap di Bologna, propone l’utilizzo del termine “diversabile” in alternativa a quelli attualmente in uso: “disabile” e “persona con handicap”.

Come era stato rilevato in occasione della predisposizione della proposta di legge di iniziativa popolare “Interventi per gli handicappati psichici, fisici, sensoriali e per i disadattati sociali” (2) «pur non essendo determinante ai fini dell’integrazione sociale, la terminologia indica e implica necessariamente una valutazione umana, etica e sociale che si ha e che si dà ai soggetti interessati» (3).

Da questo punto di vista, a mio avviso di fondamentale importanza, non è accettabile il termine “diversabile” per due motivi.

In primo luogo, vi sono migliaia di persone che, a causa della gravità delle loro menomazioni, sono del tutto incapaci di svolgere attività anche elementari, come vestirsi, assumere autonomamente cibi e bevande, ecc. Fra di essi ci sono, altresì, coloro che sono incontinenti (4).

A scanso di equivoci ricordo che, a seguito delle ideazioni e promozioni del Csa, Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base, dei corsi prelavorativi e di altre iniziative, dal 1955 ad oggi sono stati assunti presso aziende pubbliche e private del Piemonte oltre 500 soggetti con handicap intellettivo e quindi con limitata autonomia personale e ridotta capacità lavorativa.

In secondo luogo, occorre tener conto che le abilità messe in atto dai soggetti con handicap sono le stesse e identiche abilità espresse dalle persone cosiddette normali.

Tanto per fare alcuni esempi celebri, le capacità dimostrate da Franklin Delano Roosevelt, unico Presidente degli Stati Uniti eletto per ben quattro volte, gravemente colpito dalla paralisi infantile, sono state esattamente quelle di un politico senza handicap, ma all’altezza dei gravi problemi determinati prima dalla crisi economica e sociale e poi dall’aggressione giapponese di Pearl Harbour.

Parimenti, mi sembra di poter affermare che le composizioni di Ludwig Van Beethoven, affetto da una grave forma di sordità diventata poi totale, siano l’espressione di una abilità assolutamente non diversa da quella degli altri celebri musicisti.

Senza scomodare altri illustri personaggi, ognuno di noi conosce persone perfettamente in grado di essere abili, nonostante le minorazioni. Inoltre, com’è noto, molti lo diventano se vengono loro assicurati i necessari ausili e possono accedere senza difficoltà al lavoro, alla casa ed ai servizi.

Siamo, invece, pienamente d’accordo con Imprudente nel considerare inaccettabile il termine “disabile”, in quanto, fra l’altro contrariamente alla realtà dei fatti, esprime una valutazione sempre e solo negativa delle capacità dei soggetti con menomazioni, capacità che si esprimono non solo nel lavoro, ma anche in tutte le altre attività, nelle concezioni etiche, nelle sensibilità artistiche, nella capacità di reazione agli imprevisti, nonché nelle altre azioni personali, familiari e sociali.

Dunque, i soggetti con menomazioni possono essere abilissimi nel lavoro, ma possono anche esprimere, come tutti gli essere umani, carenze in altri settori: accettazione degli altri, rispetto delle loro idee, ecc.

Se non si vogliono creare discriminazioni sul piano terminologico, occorre, dunque, individuare una locuzione che sia adatta, in tutta la misura del possibile, a connotare la condizione di tutte le persone colpite da menomazioni senza esaltazioni o umiliazioni o discriminazioni.

Ritengo, pertanto, ancora valida l’espressione “handicap” per i motivi indicati nel citato volume (cfr. la nota 3). Infatti, com’è noto, “handicap” è una parola usata nel campo ippico per indicare le maggiori difficoltà che i cavalli più veloci devono affrontare durante il percorso in modo da rendere più equilibrata la competizione.

Handicappato, per analogia, è quindi l’individuo che nel percorso della sua vita deve affrontare più difficoltà di un altro per arrivare alla meta: raggiungere l’obiettivo dell’autonomia, svolgere un’attività lavorativa, acquisire un buon grado di soddisfazione personale e di considerazione sociale, ecc.

È una definizione, quindi, in positivo che mette in primo piano il ruolo attivo che l’handicappato può svolgere per raggiungere una piena integrazione nella società: non più un assistito, non più un soggetto da nascondere o da proteggere, ma una persona libera di scegliere la propria vita, indipendentemente da ogni costrizione imposta dalla volontà degli altri.

 

 

(1) Andrea Canevaro e Dario Janes sono gli autori del volume Diversabilità - Storie e dialoghi nell’anno europeo delle persone disabili, edito nel 2003 da Erikson.

(2) Il disegno di legge, predisposto dall’Unione italiana per la promozione dei diritti del minore, ora Unione per la lotta contro l’emarginazione sociale (cfr. Prospettive assistenziali, 5/6, 1969) e presentata al senato il 21 aprile 1970 con oltre 220 mila firme, ha favorito l’approvazione della legge 30 marzo 1971 n. 118 “Conversione in legge del decreto legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili”, Ibidem, n. 14, 1971.

(3) Cfr. Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, Handicap: oltre la legge quadro - Riflessioni e proposte, Utet Libreria.

(4) Si tratta, dunque, delle persone indicate nel primo comma dell’art. 38 della Costituzione come soggetti “inabili al lavoro”, che hanno diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

 

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