Prospettive assistenziali, n. 146, aprile-giugno
2004
L’AFFIDAMENTO
FAMILIARE VISTO DALLA PARTE DEI SERVIZI: L’ESPERIENZA DEGLI OPERATORI DELL’AREA
METROPOLITANA TORINESE
Franco
Garelli (*), Raffaella Ferrero Camoletto (**), Daniela Teagno (***)
Il presente articolo discute i
risultati di una ricerca, svolta da chi scrive tra l’autunno del 2001 e
l’estate del 2002, che sviluppa alcune delle questioni sollevate da una
precedente indagine, condotta dalla stessa équipe nel 1998-99 nella realtà
metropolitana e provinciale torinese: tale indagine aveva avuto come oggetto
l’affidamento dal punto di vista delle famiglie affidatarie, le quali avevano
attribuito parte della responsabilità della pesantezza dell’affido alle carenze
e inefficienze dei servizi sociali (1). In una prospettiva di continuità si è
cercato dunque di analizzare l’affidamento e la sua complessità dal punto di
vista di quanti operano professionalmente per il suo
funzionamento.
L’ipotesi che ha guidato la
discesa sul campo è stata la seguente: quanto del
“peso dell’affido” di cui le famiglie affidatarie hanno parlato dipende da
fattori strutturali e quanto dal “fattore umano”? Gli operatori dei servizi
(siano essi gli assistenti sociali, gli psicologi o i giudici minorili)
contribuiscono a generare tale pesantezza o la subiscono anch’essi? E quanto
incide in questo processo il livello di motivazione, di entusiasmo
e di coinvolgimento degli operatori?
Per rispondere a questi
interrogativi di fondo, la ricerca si è mossa su due
versanti. Da un lato, si è focalizzata l’attenzione sulla cornice istituzionale,
ovvero sugli elementi di scenario socioculturale e sui
fattori strutturali-organizzativi che costituiscono
le coordinate all’interno delle quali l’affidamento oggi si muove. Dall’altro
lato, la ricerca ha approfondito l’analisi delle rappresentazioni
dell’affidamento presenti negli operatori coinvolti, cercando di cogliere il
grado di investimento e di motivazione, l’immagine
degli altri attori, gli orientamenti ideali-valoriali e i modelli
di prassi tra procedure consolidate e sperimentazioni.
L’indagine, concentrata nell’area
metropolitana torinese, è stata realizzata attraverso varie fasi:
dall’individuazione dei temi più significativi
attraverso incontri informali con le assistenti sociali referenti per l’affido
e la raccolta di materiale empirico già disponibile (documentazione dei vari
servizi del Comune, periferici e centralizzati), alla realizzazione di 70
interviste semistrutturate ad assistenti sociali
(referenti e di base), psicologi e giudici (togati ed onorari), per arrivare
infine all’analisi del materiale e alla stesura del report.
Le principali tendenze di questo complesso lavoro sono infine state oggetto di
un “focus group” cui hanno preso parte alcuni dirigenti dei servizi sociali della
città di Torino (responsabili o di servizi di circoscrizione o di uffici
particolari), la cui storia passata nel lavoro sociale ha reso testimoni
privilegiati dell’evoluzione di un fenomeno – quello dell’affido – che da tempo
costituisce per la città e l’amministrazione un particolare settore di impegno.
Vari colloqui sono poi stati realizzati con il personale del Comune di Torino
“referente” del progetto affido e con le figure istituzionali (Assessore e
funzionari) che hanno la responsabilità delle politiche sociali in questo
campo.
Questo contributo si articola su
tre livelli: innanzitutto si presentano, in modo
sintetico, i risultati della ricerca; in secondo luogo, si opera un confronto
con quanto emerso nella ricerca precedente al fine di individuare degli
elementi di trasversalità; in ultimo, a partire da alcuni nodi particolarmente
significativi, si delineano alcune prospettive per l’affido dal punto di vista
dei servizi.
1. Le dinamiche
sul campo: l’approccio all’affido da parte degli operatori dei servizi
La ricerca è stata per molti
degli operatori intervistati un’occasione di riflessione, un modo di “guardarsi
allo specchio”, che ne ha restituito un’immagine ambivalente e sfaccettata.
Essa ha permesso non soltanto di leggere e interpretare il ruolo professionale
dei vari operatori coinvolti, in un contesto
profondamente mutato rispetto al passato, ma anche di meglio comprendere
l’attuale stagione dei servizi sociali.
Proponiamo alcuni elementi di
problematicità e ambivalenza da un lato e di buon funzionamento dell’altro che sono emersi nel corso dell’analisi.
1.1 Tra complessità e
compatibilità
La presente indagine conferma
l’ipotesi interpretativa sopra ricordata (per cui le
famiglie affidatarie avevano chiamato i servizi a rispondere della pesantezza
del “fare affido”), attenuando però in parte la responsabilità degli operatori:
è la complessità del contesto culturale e organizzativo in cui si colloca
l’affido a rendere tale strumento così faticoso.
Nel corso della ricerca sono
stati evidenziati molteplici fattori, strutturali e congiunturali, di questa
complessità, in un clima generale di pesantezza, fatica, stanchezza che sembra
oggi caratterizzare il lavoro sociale. L’aspetto chiave è però la compatibilità
di tale macchina organizzativa con le possibilità/necessità di gestione
dell’affido: sul piano delle politiche sociali, c’è incompatibilità tra la valorizzazione dell’affido a livello di linee programmatiche
e il reale investimento in termini di risorse messe in campo; sul piano del
lavoro sociale, c’è invece incompatibilità tra ciò che l’affido richiede per
poter essere realizzato e le condizioni reali in cui gli operatori si muovono.
In questo
quadro anche elementi che potrebbero costituire una risorsa divengono fattori
che appesantiscono la gestione dell’affido: l’investimento personale, che
potrebbe dare motivi di soddisfazione, genera spesso un’usura emotiva; il
lavoro di rete, che potrebbe favorire lo scambio e il confronto tra
professioni, si trasforma nel costo della “regia” e della concertazione;
famiglie affidatarie più consapevoli, che potrebbero così affiancare gli
operatori e sollevarli da alcune incombenze, divengono anche più richiedenti,
mandando spesso in crisi i servizi, ecc.
1.2 Traiettorie professionali e
strategie personali
Alla complessità di fondo dell’intervento gli operatori reagiscono in diversi
modi (come si vedrà più avanti), legati alle proprie capacità personali e
professionali. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, invece,
l’affido non viene vissuto in modo differente dalle
diverse figure professionali in esso coinvolte: ciò che accomuna tutti gli
operatori, dall’assistente sociale allo psicologo al giudice minorile, è un
senso di malessere relativo all’esperienza dell’affido. Tuttavia, questo cumulo
di difficoltà, delusioni, stanchezze sembra portare ciascuna professione a
ripiegarsi su se stessa e a proiettare sulle altre le cause – o concause –
della propria fatica. Il problema sembra quindi legato ad un deficit di
comunicazione e di scambio che impedisce ai diversi operatori di condividere i
vissuti depressivi dell’affido: quest’ultimo si
configura dunque come un
macigno che pesa su tutti e in cui ciascuno rimane
preso/schiacciato/chiuso dal proprio carico.
Una questione rilevante riguarda
infine l’intreccio tra carico di lavoro, competenze e livello di
responsabilità: si può parlare di una manovalanza e di una élite dell’affido?
Indubbiamente esiste una minoranza di operatori che
appare dotata di strumenti di lettura e di gestione che permettono loro di
vivere in modo diverso la complessità dell’affido: in questa accezione, l’élite
è costituita da soggetti che hanno maturato un elevato livello di
professionalità e di riflessività, mentre la “manovalanza” è rappresentata da
quegli operatori che, sia per la giovane età, sia per le minori capacità personali
e professionali, rimangono su un piano più esecutivo. Ma il problema è quando il “carattere elitario” viene considerato una forma
di privilegio che, seppure nato dal riconoscimento delle competenze, produce un
distacco dalla base: coloro che occupano posizioni di responsabilità talvolta
vengono accusati di essersi ritagliati spazi lontani dalla routine logorante
del lavoro quotidiano sul territorio. L’affido può diventare così un campo di
battaglia tra quanti “lo pensano” o “lo decidono” e quanti lo realizzano,
aumentando i fattori di conflittualità interna al
servizio.
Si potrebbe parlare di “élite”
anche in una terza accezione: in alcuni contesti
territoriali i servizi hanno consolidato uno stile di lavoro – in termini di
esperienze, prassi, collaborazioni, ecc. – tale da farne un modello. L’affido
promuove delle specifiche “culture di distretto” che rappresentano un esempio di eccellenza e che potrebbero essere utilizzate come
memoria storica così come apripista di nuove linee di sviluppo.
1.3 Le buone prassi
Le criticità dell’affido come
strumento, evidenziate in modo spesso impietoso dalla ricerca, non annullano il
significato positivo delle esperienze virtuose già
realizzate. Allo scoramento per i tentativi falliti si contrappone l’orgogliosa
soddisfazione che accompagna i casi di successo e le forme di
innovazione felicemente sperimentate.
L’affido si configura quindi come
una fucina di “buone prassi”, di ingredienti che sono
in grado di migliorare la qualità dell’intervento, da ricalibrare
a seconda delle circostanze.
Si possono identificare tre aree:
a) l’area della formazione: proprio perché mai routinario,
l’intervento dell’affido richiede una preparazione dell’operatore – sul piano
sia tecnico che emotivo – solida e continua, in
particolare per quel che riguarda le dimensioni della gestione dei conflitti,
della mediazione, della decodificazione di linguaggi nuovi, ecc. Tale
formazione si rivela essenziale sia per gli operatori alle prime esperienze,
affinché non si sentano mandati allo sbaraglio, che per i “veterani”, affinché
siano aiutati a ripensare il proprio vissuto;
b) l’area del sostegno all’operatore: per contrastare l’usura a cui questo è sottoposto e per
aiutarlo ad elaborare vissuti spesso depressivi, si sono rivelati vincenti lo
spazio della supervisione (più frequente tra gli psicologi), il riferimento
alla referente come forma di consulenza e l’attivazione, in via sperimentale,
di gruppi di discussione e confronto tra operatori;
c) l’area della preparazione del “terreno”: l’affido ha mostrato di
funzionare se poggia sulle fondamenta di una “cultura diffusa”. Ecco quindi che
si rivelano utili campagne di sensibilizzazione territoriali che coinvolgano
tutte le risorse locali (scuole, oratori, associazioni,
famiglie, ecc.); équipes di operatori territoriali
stabili, in grado di maturare riconoscimento sociale, autorevolezza, ecc.; una
collaborazione attiva tra servizi, pur nel rispetto delle differenti competenze
professionali.
In sostanza, si tratta di imparare a convivere con la complessità e di fare un “uso
virtuoso” dell’esistente. Un caso emblematico è
rappresentato dall’uso della scrittura, che spesso sembra ridurre il lavoro
dell’assistente sociale alla dimensione burocratica, schiacciandolo sulle
relazioni (scritte) che offuscano la relazione (umana). Si può infatti identificare una scrittura “cattiva” che allontana
dall’operato, che ingolfa e impastoia nelle maglie della modulistica, e il cui
peso può essere alleggerito con l’affiancamento di
personale amministrativo. Ma può anche esserci una scrittura “buona”, quale
mezzo per fissare i dati e gli elementi più importanti e significativi
del caso, quasi una memoria cronologica che aiuta a non perdere il filo e a
fare il punto della situazione con prontezza e freschezza. Oppure la scrittura
può essere intesa come garanzia, suggello, delle decisioni, dei progetti, degli
interventi attuati dai servizi, a sottolineare da un
lato il patto di reciprocità e di impegno sancito tra i vari protagonisti,
dall’altro la strategia di difesa e protezione del proprio operato.
2. un terreno di incontro:
operatori e famiglie affidatarie a confronto
Il confronto della presente
ricerca con quella precedente offre dei risultati non del tutto scontati e
prevedibili: emergono in sostanza una serie di elementi
di trasversalità e/o affinità che accomunano, seppur nella differenza di ruolo,
i due attori. Il tema dell’affidamento diviene così un terreno di incontro tra le esperienze e i punti di vista di due
degli attori coinvolti in questo delicato “gioco ad incastro”: le famiglie
affidatarie, protagoniste della prima ricerca, e gli operatori dei servizi,
oggetto della seconda indagine. Proponiamo tali aspetti di convergenza
attraverso alcuni temi-chiave.
2.1 Una questione
di motivazione
L’affido chiama tutti gli attori
coinvolti a mettersi in gioco in prima persona, ad investire qualcosa di sé
nell’esperienza/intervento. Si riscontrano però, su entrambi i versanti, gradi
diversi di investimento personale: come tra le
famiglie affidatarie può prevalere l’entusiasmo, impregnato a volte di cariche
ideologiche e valoriali, oppure la prudenza, nonché la delusione, così tra gli
operatori c’è chi ci crede di più e chi di meno, chi mette dei confini al
lavoro e chi invece si mette in gioco senza riserve, ecc. I poli estremi di
questo continuum, nell’ambito dei servizi, sono da un lato gli “entusiasti”
dell’affido, coloro che, a cavallo tra spinta ideologica e convinzioni
personali, continuano a viverlo come risorsa prima; dall’altro gli “scettici”,
quanti ne fanno un uso risicato o parsimonioso e lo vivono con distacco o
disincanto. Su questa seconda posizione difensiva-cauta si trovano accomunati i
“novellini”, che assorbono (di riflesso) l’esperienza dei colleghi anziani e
partono già allertati sulla complessità dell’affido
senza averla ancora sperimentata sulla propria pelle, e i “veterani”, la cui
esperienza spesso bruciante e fallimentare li ha
portati (per riflessione) a un atteggiamento più prudente quando non disilluso
e cinico.
L’affido, in qualche modo, va oltre
la sfera dei diritti e richiede un elemento di dono e di scambio da parte di
tutti gli attori coinvolti: se gli affidatari vivono
il proprio impegno come dono, anche per gli operatori l’affidamento richiede
una dimensione di gratuità, una componente di
“vocazione” (il credere nell’affido) che va oltre il piano meramente
professionale.
2.2 L’incognita
della famiglia d’origine
Dalla prima ricerca emergeva come
gli affidatari attribuissero molta della
problematicità dell’affido alla mancanza/discontinuità del lavoro degli
operatori sociali con la famiglia d’origine, alla carenza
e non chiarezza dei progetti. Gli operatori riconoscono una maggiore difficoltà
a lavorare con le famiglie d’origine a causa del complessificarsi
delle situazioni: in particolare per gli operatori veterani, voce della memoria
storica dei servizi torinesi, la difficoltà di progettazione riflette
situazioni familiari sempre più intricate e articolate (non più i “bei casi
semplici”).
Le famiglie d’origine sono
problematiche, non solo per le loro caratteristiche di disagio, quelle per cui si procede con l’allontanamento del minore, ma per
la loro conflittualità nei confronti dell’affido. I genitori biologici,
sentendosi messi in discussione e temendo la perdita del figlio, il più delle volte
non aderiscono né collaborano al progetto. A questa analisi
condivisa pressoché all’unanimità dagli operatori intervistati, si contrappone
un’interpretazione dicotomica del fenomeno. Da un lato sembra prevalere una
lettura “paternalistica”, rassegnata e disarmata, per cui
i genitori naturali sono considerati soggetti fragili, marginali, instabili e
difficilmente recuperabili. Dall’altro lato si registra invece una posizione
più fiduciosa e costruttiva: certamente la gravità del caso incide sulle strategie
da adottare, tuttavia gli operatori credono, o almeno sperano, nel “recupero”
dei genitori biologici e lavorano in varie direzioni per educarli e sostenerli,
per convincerli che l’affido serve a loro stessi (per “ricostruirsi” proprio
come genitori) e ai loro figli, per utilizzarli come “diffusori” della cultura
dell’affido.
Entrambi gli attori individuano comunque nella famiglia d’origine l’elemento più
problematico nella gestione dell’affido: per questa ragione sia le famiglie
affidatarie, sia gli operatori ricorrono talvolta a strategie difensive che
collocano la famiglia d’origine sullo sfondo per evitare un eccesso di invischiamento o di conflittualità.
2.3 L’evoluzione delle famiglie
affidatarie
Così come sono cambiate le
famiglie d’origine, anche le famiglie affidatarie
hanno subito una trasformazione nel tempo. La prima ricerca aveva mostrato come
gli affidatari oggi si autorappresentassero
come “famiglie normali”, anche se poi emergeva una
tipologia di famiglie che faceva intravedere un pluralismo di stili di affido
anche in presenza di alcuni tratti trasversali comuni (riflessività, solidità,
flessibilità, realismo, laicità, ecc.). Forti di una scelta maggiormente
consapevole, gli affidatari mostravano peraltro un
rapporto ambivalente con i servizi, a cavallo tra ricerca di sostegno e
rivendicazione di autonomia.
La seconda ricerca mostra una
forte convergenza con la prima, in quanto gli operatori assecondano il realismo
degli affidatari nel considerare pericolosa
l’idealizzazione della famiglia accogliente; nello stesso tempo, però, vengono ribadite alcune qualità, simili a quelle individuate
dagli affidatari stessi, che fanno il “buon affidatario” e il “buon affido”: strutturazione, equilibrio
ma anche elasticità, autonomia, intraprendenza, coraggio; capacità di mettersi
in gioco e resistenza alla frustrazione; umiltà e capacità di non giudicare,
saper capire, ma anche sapersi fare aiutare; apertura, confronto e rispetto;
capacità di prendere sul serio ma anche di sdrammatizzare e contestualizzare.
Anche dal punto di vista degli operatori il rapporto con gli affidatari è ambivalente: se da un lato si valorizza
l’autonomia, essa talvolta viene criticata come
presunzione; allo stesso modo, se viene valorizzata la disponibilità e lo
spirito collaborativo, dall’altro tali qualità
possono essere interpretate anche come mancanza di intraprendenza ed eccesso di
dipendenza dai servizi.
2.4 La complessità
del lavoro sociale
L’affido è emblematico
di una complessità insita in questo tipo di impegno/intervento. Un esempio emblematico, riconosciuto da entrambi gli attori come
problematico, è il fattore tempo: da un lato, gli affidatari
sperimentano spesso problemi nella gestione dei tempi del progetto (incertezza
degli obiettivi, lungaggini burocratiche, pesantezza organizzativa);
dall’altro, gli operatori vivono il tempo come una continua lacerazione tra una
pluralità di tempi non sincronizzabili, che frammentano il loro lavoro e ne
impediscono la fluidità e la continuità. C’è il tempo della burocrazia, il tempo
dell’orario lavorativo, il tempo delle scadenze, il tempo degli utenti, il
tempo degli altri professionisti, ecc. Si affianca poi a questa pluralità di
tempi gestionali, seppur scoordinati e sfasati,
tuttavia prevedibili e programmabili, il tempo dell’emergenza, dell’imprevisto,
che irrompe nella quotidianità e scompiglia i piani di lavoro, “mangia” le ore
programmate di routine. Al versante dell’operatività fa da sponda quello della
cura e della riflessione, nel senso che l’affido non è solo prassi, ma anche
ripensamento e rielaborazione dell’esperienza: far sedimentare il vissuto
professionale per distillarne delle indicazioni per il futuro richiede tempo.
In sostanza, il tempo diventa
risorsa preziosa, da gestire con avvedutezza.
2.5 La fatica del fare affido
L’affidamento è riconosciuto come
uno degli interventi più difficili da avviare e da gestire: fare affidamento usura tutti gli attori in gioco.
Gli affidatari
sperimentano spesso un senso di abbandono e di
isolamento, la fatica della porosità dei propri confini familiari, una messa in
discussione del proprio assetto interno e del proprio sistema valoriale.
Anche gli operatori sperimentano
però un senso di abbandono: si sentono spesso quelli
“in prima linea”, la fanteria che è mandata avanti senza essere pienamente
supportata dallo Stato maggiore e dall’artiglieria. Inoltre, anche gli
operatori sperimentano la fatica di gestire la dilatazione dei confini del
lavoro sociale data dalla pluralità di fronti aperti che l’affido comporta: non
trattandosi di una faccenda tra privati cittadini, la regolazione
dell’affido è compito delle istituzioni pubbliche, che attivano vari
servizi nel settore socio-assistenziale, scolastico, sanitario, giudiziario. Si
mette, in sostanza, in moto un meccanismo burocratico e sociale che coinvolge
molteplici attori, dagli utenti agli operatori, sollecitando responsabilità e
competenze diverse. Dunque, la differenziazione
dell’attività da un lato e l’aumento del numero e della varietà delle relazioni
dall’altro confermano che l’affido è un intervento particolarmente complesso:
ne deriva anche una difficoltà di regia/incastro dei diversi pezzi.
2.6 Il bisogno di sostegno
Da parte di entrambi
gli attori emerge il bisogno di reti di supporto e luoghi di
decompressione/rielaborazione dell’esperienza e di confronto tra pari.
Per gli affidatari,
nella prima ricerca si è evidenziata l’importanza di avere una rete sociale di
supporto, nonché della possibilità di prendere parte a
gruppi di confronto con altre famiglie che condividono la stessa esperienza.
Allo stesso modo, anche nel caso
degli operatori si è rivelata di vitale importanza l’esperienza della
supervisione, ma anche le occasioni e i momenti informali di confronto con i
colleghi sui casi e sulle problematiche più spinose. In quest’ottica,
gli operatori, inoltre, hanno fatto esplicita richiesta di gruppi di sostegno
tra colleghi, occasioni formalizzate e riconosciute per elaborare, a partire dai casi concreti, un sapere sociale comune.
2.7 Il problema della
comunicazione
L’affido mette in rete diversi attori, ma non sempre questi
riescono a condividere i propri vissuti e la fatica del fare affido: si finisce
così talvolta in un gioco di specchi e di proiezioni in cui ciascun attore vede
soltanto il proprio disagio e ne proietta la responsabilità sull’altro attore.
Si registra peraltro un deficit
di comunicazione: nel caso degli affidatari, da un
lato viene denunciata una mancanza di informazione sui
propri diritti e la riduzione dei contatti con gli operatori a mere comunicazioni
“di servizio”; dall’altro lato, però, la richiesta di
informazioni/aggiornamenti da parte degli operatori viene interpretata come
intromissione nella vita familiare e come tentativo di controllo. Per gli
operatori, la comunicazione è spesso un elemento di
intasamento e di cortocircuito dei programmi di lavoro; il contatto con le
famiglie affidatarie viene quindi spesso “calendarizzato”,
in modo da ridurre la comunicazione a monitoraggio della situazione, salvo
comunicazioni di emergenza. Sull’altro versante, tuttavia, la comunicazione
rappresenta anche una risorsa di “riumanizzazione”
del lavoro sociale, attraverso cui gli operatori tentano di recuperare la relazionalità al di là della
dimensione burocratico-organizzativa del lavoro.
3. Questioni aperte:
prospettive dell’affido e dei servizi
Se la ricerca ha permesso – si è
detto – di cogliere il punto di vista e l’autorappresentazione
degli operatori in relazione all’affido, è necessario
(con l’intento di superare il livello della mera constatazione o lamentazione)
integrare la ricostruzione del vissuto “in presa diretta” degli intervistati
con analisi trasversali e ulteriori riflessioni, al fine di individuare alcuni
nodi critici e alcuni “punti programmatici” (alcune ipotesi di sviluppo). Questa
indagine sull’affido va oltre l’affidamento stesso: rappresenta infatti un’occasione importante per comprendere l’attuale
fase dei servizi sociali, così come si delinea in una città, ovvero Torino, che
da tempo ha fatto dell’investimento in questo campo un tratto distintivo delle
politiche sociali.
3.1 Dove va
l’affido?
Quella che emerge dalla ricerca
può apparire come una “nuova stagione” per l’affido: numerosi fattori
strutturali e congiunturali sembrano richiedere una riconfigurazione
di tale intervento, ma una spinta al suo ripensamento
giunge anche dall’interno, dalla voce degli operatori che gli danno vita.
Uno degli aspetti che colpiscono
maggiormente è il diverso modo di rapportarsi all’affido da parte degli
operatori più giovani: essi appaiono più cauti nell’utilizzare questo
strumento rispetto a quanto ricordano del loro esordio gli operatori più
anziani. Questo orientamento prudente può essere spiegato in termini di inesperienza, ma anche di disinvestimento
nei confronti dell’affido, in una sorta di ripiegamento difensivo e
narcisistico.
Per smorzare il tono preoccupato
di queste interpretazioni occorre forse tenere conto della mutata sensibilità
socioculturale che caratterizza la società contemporanea. L’enfasi posta su
valori postmaterialistici come l’autorealizzazione
in qualsiasi ambito della propria vita comporta l’emergere di nuove aspettative anche nella sfera professionale. Ecco che quindi
il paradigma dell’etica del sacrificio e dell’oblatività
lascia spazio ad una nuova visione che tiene insieme impegno sociale e ricerca
di soddisfazioni e gratificazioni personali: è quello che si evince
dall’analisi di un settore quale il volontariato.
Il lavoro sociale non può non
risentire di questo cambiamento epocale: inevitabilmente la nuova generazione di operatori risulterà più attenta a comporre tutte le
esigenze, in un gioco tra coinvolgimento e distacco, tra edonismo e
pragmatismo. Questo orientamento può certamente anche sfociare in forme di disimpegno e chiusura, ma d’altra parte anche la carica ideologica-utopica che caratterizzava le generazioni
precedenti poteva avere degli effetti negativi, come un uso “militante”
dell’affidamento che ne misconosceva i limiti.
Ci si può dunque chiedere se
l’affido richieda più utopia (la capacità di credere nel cambiamento e di
lavorare per produrlo anche quando non sembra ci siano speranze) o più realismo
(la valutazione attenta di costi/benefici per attivarsi solo dove sono
possibili dei miglioramenti). Dalle interviste raccolte sembra emergere il
richiamo a dosare entrambi gli elementi: un eccesso di investimento
utopico può produrre un attivismo cieco rispetto alle criticità dell’affido,
mentre un eccesso di calcolo realistico può imbrigliare e disperdere energie
preziose. Finita l’epoca delle grandi ideologie, occorre pensare a nuove utopie
capaci di suscitare entusiasmo e di generare motivazioni al lavoro sociale:
l’affido, proprio perché chiede molto agli operatori, può forse offrire un
terreno privilegiato per questa ricerca a cavallo tra autorealizzazione
e cambiamento sociale.
3.2 L’attuale
stagione dei servizi
L’analisi sin qui svolta non può
prescindere da una considerazione di scenario, che ci rimanda all’attuale
stagione dei servizi sociali e al clima prevalente in cui si muovono oggi gli
operatori e in cui si cerca di ridefinire gli interventi nel campo
socio-assistenziale. Molte delle pesantezze e tensioni che accompagnano il
lavoro sociale sono comprensibili soltanto all’interno dell’attuale momento
delle politiche sociali.
In tema di affido
– come in altri settori di intervento sociale – la politica cittadina non è
statica, come dimostrano le campagne di sensibilizzazione periodicamente
attuate o come emerge dalla capacità di innovazione che negli ultimi anni ha
dato vita a nuove iniziative, quali: il progetto neonati, il progetto
autonomia, la casa dell’affido, il cambiamento organizzativo che ha portato
alla creazione di referenti centrali a cui spetta il compito di coordinare e di
far da punto di riferimento delle varie iniziative in questo campo, ecc.
Tuttavia, nonostante questo
movimento, è indubbio che in tema di affidamento la
città e i suoi servizi sociali vivano un momento più segnato dalla riflessività
che dallo slancio. La pacatezza non riguarda soltanto gli operatori, in primis
le assistenti sociali su cui grava maggiormente l’onere di un intervento assai
innovativo ma costringente.
Anche la città nel suo insieme, nelle
forze migliori che costituiscono la società civile, sembra riflettere oggi un
tempo più distaccato nei confronti dell’esperienza dell’affidamento. E ciò non
soltanto perché il momento dello stato nascente in questo campo è ormai lontano
e ad esso fa sempre seguito un tempo
istituzionalizzato, in cui le pratiche sociali innovative devono fare i conti
con una loro regolarizzazione e standardizzazione. Oltre a questo processo, si
avverte una certa stanchezza dell’intervento sociale, come effetto di un clima
in cui è diffusa la consapevolezza di dover convivere con continue emergenze e
della parzialità e precarietà delle soluzioni via via
adottate.
In termini di affido,
ciò può significare che si diffonde la percezione dei nodi strutturali di
questo tipo di intervento; che questo strumento è innovativo ma anche oneroso,
sia per i vari attori sociali coinvolti, sia per la difficoltà di individuare
soluzioni “apprezzabili”; che l’affido viene avviato senza certezza alcuna del
rispetto dei tempi “limitati” che ne rendono ragionevole l’attivazione; che è
plausibile progettare e rendersi disponibili
a questo servizio solo in presenza di determinate risorse di
accompagnamento e di supporto; che cresce la disillusione circa la possibilità
che alcuni criteri che rendono plausibile l’affido siano rispettati nella
maggior parte delle situazioni (recupero “sufficiente” della famiglia di origine,
attenzione o presa in carico della famiglia di origine da parte di quella affidataria, ecc.).
Sottolineare la difficoltà dell’intervento
sociale non significa rinunciare a questa risorsa o piegarsi alla complessità
sociale senza riaffermare l’importanza del lavoro sociale e la priorità di
alcuni strumenti. Ma la presa d’atto del clima culturale in cui si agisce può
rappresentare un fattore di aiuto per scelte e
indirizzi di politica dei servizi compatibili con le attuali condizioni di
impegno sia dei servizi sociali che dei loro operatori.
3.3 Il fardello
della mediazione
In un quadro dai contorni più
incerti e sfumati, ma anche dalle tinte più forti, un intervento delicato e
complesso come l’affido riporta in primo piano il
discorso sulla caratura professionale della figura dell’assistente sociale, sul
quesito se la sua non sia una competenza “esile” rispetto a quella di altri
operatori (ad esempio, psicologi, giudici, educatori) con cui è chiamata a
confrontarsi nel lavoro di rete dei servizi. In altri termini, l’assistente
sociale è portatrice di un particolare “sapere” e “saper fare” sociale che la
distingue e la conferma nelle dinamiche dei servizi,
oppure il suo è un ruolo debole e “residuale” (potremmo dire di “complemento”)
rispetto ad altre funzioni e competenze?
Nell’indagine sono molti gli
spunti sul particolare apporto che offre o può offrire
l’assistente sociale sia nel lavoro di base dei servizi, sia nel caso
dell’affidamento. La maggior parte delle riflessioni mette in guardia che questo
ruolo assolva ad un compito perlopiù tecnico o
specialistico, dal momento che il lavoro sociale di base necessita anche di
funzioni di raccordo e di punto di incontro tra competenze e situazioni
diverse. Così si afferma che è tipico dell’assistente sociale far interagire i
diversi attori, “tenere insieme” i rapporti e le competenze, farsi carico di
una sintesi progettuale e operativa sui casi e sulle situazioni.
L’idea di fondo,
dunque, è che quella della mediazione e della cura dei rapporti sia il campo
specifico di questa professione e che il suo apporto sia essenziale nel lavoro
sociale di base. Di qui si possono meglio comprendere le tensioni che si
riversano oggi su questo ruolo professionale, in particolare nell’intervento
dell’affido. Proprio in quanto crocevia e raccordo tra ambiti e competenze
diverse (tra progetti di politica dei servizi e realtà di base; tra indirizzi
normativi e situazioni di fatto; tra il minore e le famiglie; tra la famiglia di origine e quella affidataria;
tra il ruolo dei giudici e quello di altri operatori, ecc.), la figura
dell’assistente sociale partecipa in modo rilevante della crisi che investe
tutti i ruoli che nell’attuale società sono chiamati a svolgere delle funzioni
di mediazione.
Irrobustire e valorizzare questo
ruolo professionale rappresenta dunque una priorità per una politica dei
servizi che voglia essere efficace nelle diverse situazioni. Ciò significa
agire a vari livelli. Anzitutto creare le condizioni concrete perché questo operatore colmi il deficit di riconoscimento sociale
che sembra caratterizzarlo, di cui sono spia la denuncia della pesantezza del
lavoro, l’incertezza di orientamento, la difficoltà a sentirsi parte di
un’impresa sociale collettiva. Oltre a ciò, occorre verificare l’adeguatezza –
per i compiti richiesti – di una formazione di base e permanente in grado di
sostenere una professione caratterizzata dalla cura della relazione. A fianco
di una formazione cognitiva e organizzativa (in termini di capacità progettuali
e di valorizzazione di competenze e risorse diverse),
occorre prestare particolare attenzione a quella “emotiva”, per operatori che –
come nel caso dell’affido – devono essere in grado di “stare in relazioni
pesanti, che consumano e coinvolgono”, devono essere esperti di relazioni, sono
continuamente sollecitati dalla mediazione dei conflitti.
Oltre al sostegno della capacità
di gestione della mediazione e dell’usura che ne deriva, una seconda istanza è quella al potenziamento delle risorse simboliche
ed espressive degli operatori: non si tratta infatti soltanto di “saper fare”,
anche di “saper dire”, perché dare un nome ad un disagio è il primo passo per
affrontarlo e attivare un percorso di risoluzione. Ma se questo è più o meno chiaro nella mente degli operatori per quel che
riguarda il “disagio degli altri”, può esserlo meno per quel che riguarda il
“proprio disagio” e le proprie fatiche: sviluppare un vocabolario
adeguato per parlare di sé permette di lavorare alla costruzione di una nuova
identità professionale.
Ecco dunque l’importanza di
rintracciare un “filo rosso” che, pur nel mutamento delle condizioni, degli
oggetti e delle competenze lavorative, garantisca una continuità simbolica
della professione dell’operatore sociale.
(*) Docente di Sociologia della conoscenza, Dipartimento di
scienze sociali - Università di Torino.
(**) Borsista post-dottorato presso il Dipartimento di
scienze sociali - Università di Torino.
(***) Collaboratore di ricerca presso il Dipartimento di
scienze sociali - Università di Torino.
(1) Cfr. Franco Garelli, Raffaella Ferrero,
Daniela Teagno, “L’affidamento nell’esperienza delle
famiglie affidatarie”, Prospettive assistenziali, n. 136, 2001.
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