Prospettive assistenziali, n. 146, aprile-giugno
2004
L’INSERIMENTO
LAVORATIVO DEI SOGGETTI CON HANDICAP: LE GRAVI RIPERCUSSIONI NEGATIVE
DELL’ARTICOLO 14 DEL DECRETO LEGISLATIVO 276/2003
coordinamento
SANITÀ e assistenza fra i movimenti di base
Non contente degli innumerevoli
incentivi e scappatoie che la legge 68/1999 consente (chiamata nominativa con scelta dei soggetti più abili, deroghe
infinite, sgravi contributivi, ecc.), con l’avallo del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, On. Roberto Maroni, le
imprese ora possono contare anche sull’articolo 14 del decreto legislativo
276/2003, delega per la riforma del mercato del lavoro (legge Biagi) (1).
Persone
svantaggiate e handicappate escluse dal mercato del lavoro ordinario e ridotte
a merce di scambio
In realtà, interventi in questo ambito non erano previsti nella legge di riforma sul
mercato del lavoro. Nina Daita, dell’ufficio nazionale handicap della Cgil, nell’intervista apparsa su Vita del 10 ottobre 2003, preannuncia un ricorso alla Corte
costituzionale e precisa che «le ragioni
dell’impugnazione sono proprio per “eccesso di delega”, visto che in essa non era previsto un tale restringimento delle
opportunità lavorative offerte alle persone disabili». Molteplici sono
state le prese di posizioni contrarie (2) all’approvazione dell’articolo 14,
che si prefigge la fuoriuscita delle persone svantaggiate e handicappate dalle
normali aziende, attraverso il loro inserimento “forzato” nelle cooperative
sociali. Queste ultime, dal canto loro, dovranno assumerli al posto delle
imprese ottenendo in cambio, commesse di lavoro sufficienti a coprire i costi.
In sostanza, con questo
provvedimento il Governo sceglie di “appaltare” al mondo della cooperazione
sociale i molteplici problemi connessi alle difficoltà
di inserimento lavorativo che incontrano molte persone svantaggiate e
handicappate con limitata autonomia, anziché privilegiare la strada delle
politiche attive del lavoro attraverso maggiori risorse per il sostegno, la
formazione professionale, l’accompagnamento di queste persone mediante i
servizi dei Centri provinciali per l’impiego.
È noto che tanto gli handicappati
quanto gli svantaggiati (ad esempio, ex tossicodipendenti, giovani a rischio, ex detenuti) sono da sempre invisi a quasi tutte le imprese,
che non li considerano quasi mai come potenziali lavoratori, ma assai spesso
come un peso sociale di cui debba farsene carico lo Stato.
Gianni Selleri,
presidente dell’Aniep, non esita a tacciare
l’iniziativa di «concezione
esclusivamente neoliberista del mercato del lavoro, inteso come ambito di competitività
e di dinamiche selettive dal quale sono esclusi tutti
gli attori (lavoratori svantaggiati o disabili) che possono rallentare o
rendere problematici i ritmi produttivi e la loro razionalità formale» (3).
Per conto nostro vorremmo
evidenziare che le imprese sono comunque parte
integrante della società, tant’è che non mancano di
certo le iniziative statali di sostegno allo sviluppo (e ai profitti) delle
stesse: sgravi fiscali, investimenti infrastrutturali
per favorire particolari aree, nonché ammortizzatori sociali quali la cassa
integrazione, i cantieri di lavoro e le liste di mobilità per sostenere le
aziende aventi difficoltà dirette o indirette di natura economica. Sono solo
alcuni degli esempi più noti utilizzati dalle Amministrazioni statale e locali,
per accollarsi i problemi che riguardano gli esuberi delle aziende in crisi. In
una logica di scambio alla pari, ci aspetteremmo che lo Stato chiedesse a sua
volta alle imprese di dimostrare la loro responsabilità sociale
attraverso la disponibilità ad assumere persone con problemi personali, ma
comunque in grado di svolgere attività lavorative proficue. Tutto questo nel
rispetto di quell’articolo 4 della Costituzione in
base al quale «la Repubblica riconosce a
tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto». Precisa, inoltre, che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale
della società». Ma l’articolo 14 del decreto legislativo 276/2003 non
rispetta questo richiamo e l’aspetto che più inquieta è proprio la mancanza
di scelta imposta alla persona in difficoltà e la sua riduzione a merce di scambio:
tante commesse di lavoro attribuite dalle imprese, tante persone svantaggiate o
handicappate assunte dalle cooperative al posto delle aziende. Esigenze ed
aspirazioni delle persone non contano più nulla.
Molti sostengono che non vi sia
una reale convenienza per la maggior parte delle imprese a dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 14 (affronteremo più avanti
i vari aspetti del problema). Staremo a vedere, ma intanto per noi resta comunque un
provvedimento assai grave, proprio per la filosofia che lo guida.
In questa norma cogliamo le basi
per l’esclusione definitiva dalle opportunità di lavoro in normali aziende
pubbliche e private di quanti saranno definiti “svantaggiati” da chi avrà il
potere di decidere del loro destino di lavoratori di
serie B.
Per le persone handicappate si
tratta dell’ennesimo tentativo di rinchiuderle nuovamente nel ghetto dei
laboratori protetti, dai quali numerosi soggetti sono usciti inserendosi
positivamente nel mondo del lavoro. Lo scopo della legge 68/1999 era quello di
strapparle dall’esclusione sociale, mentre adesso le cooperative sociali finiranno per diventare dei luoghi di emarginazione.
Non bisogna lasciarsi fuorviare
dalle affermazioni contenute nell’articolo 1 del decreto delega dove si ha
l’ardire di sostenere che tali azioni «sono finalizzate ad aumentare, nel rispetto delle disposizioni
relative alla libertà e dignità del lavoratore (…) i tassi di occupazione e a
promuovere la qualità e la stabilità del lavoro, anche attraverso contratti a
contenuto formativo e contratti a orario modulato compatibili con le esigenze
delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori». È sufficiente una rapida
lettura dell’articolato per comprendere, in modo inequivocabile, che con la
legge Biagi vengono ridotti
o addirittura annullati i diritti e le tutele finora previste anche per i
lavoratori normali, assicurando alle aziende la possibilità di assumere giovani
professionalmente capaci, ma a costi decisamente bassi.
A queste condizioni già
vantaggiose, vanno aggiunti gli effetti devastanti della nuova classificazione
di lavoratore “svantaggiato”, introdotta dalla direttiva europea del 12
dicembre 2002 n. 2204, che aumenta in maniera smisurata il bacino di lavoratori
che, per il solo fatto di essere inclusi in questa tipologia, attraverso l’articolo 13 del citato decreto 276/2003, permetteranno
alle imprese di usufruire di forme di contratto e riduzioni di compensi di
vario genere, senza alcuna garanzia di stabilità e di tutele per i lavoratori.
L’articolo 14 verrà
utilizzato, nonostante tali e tante agevolazioni, perché il ricorso alle
cooperative sociali permette di “sistemare” definitivamente fuori
dall’azienda le persone sgradite quali
sono i soggetti handicappati e svantaggiati, senza aumentare il disagio
generale, che potrebbe degenerare in un conflitto sociale. Inoltre, questa
soluzione sarà per forza di cose accettata dagli interessati in quanto si
tratta dell’unica concreta possibilità di lavoro. A questo punto però, se
questo accadrà, una parte di responsabilità è da
ricercare anche nella cooperazione sociale.
Responsabilità
delle imprese e delle cooperative sociali
Salvo onorevoli eccezioni, tutte
le volte che ha potuto ottenere incentivi od opportunità di lavoro, a parità di
condizioni, il mondo della cooperazione sociale ha inserito soggetti
svantaggiati con piena capacità lavorativa, piuttosto che handicappati con un
rendimento ridotto. Infatti, se l’articolo 12 della legge 68/1999 (4) non è
decollato neppure nel Veneto, dove aveva avuto la sua
origine, le ragioni vanno anche ricercate sul fatto che, evidentemente, non era
così automatico (e conveniente) per le cooperative sociali assumere persone
handicappate a fronte di commesse di lavoro da parte delle aziende e non era
neppure così scontata tale offerta di commesse.
In un articolo del marzo 2003
sull’integrazione lavorativa dei soggetti con handicap nella Regione Veneto,
Antonio Saccardo (5) sottolinea
a questo proposito la necessità di «sostenere
e valorizzare la cooperazione sociale d’inserimento lavorativo, un settore
attualmente in difficoltà soprattutto in riferimento alle cooperative che si
sono sviluppate principalmente all’interno di processi di decentramento
produttivo (sub fornitura), attuato in questi anni dalla maggior parte delle
principali aziende del Veneto».
Secondo Saccardo
«per contrastare gli effetti negativi di
tale situazione» un ruolo decisivo può essere svolto dalle amministrazioni
locali attraverso «un’azione di
coinvolgimento e di sensibilizzazione delle associazioni imprenditoriali, ad
esempio promuovendo tavoli di concertazione per la ricerca di
adeguate e dignitose opportunità di lavoro per le cooperative». Ci
pare che le suddette considerazioni costituiscano la base su cui si fonda tutto
l’impianto dell’articolo 14 e ci dispiace che Antonio Saccardo,
uno dei primi operatori a credere nella validità del collocamento mirato per
favorire l’assunzione dei soggetti con handicap nelle aziende private, a fronte
delle oggettive difficoltà che si incontrano, si sia
fatto portavoce di soluzioni di ripiego, certamente emarginanti. Se è giusto e
condivisibile il suo richiamo alle amministrazioni locali, perché svolgano
appieno il loro ruolo di mediatori sociali, mettendo in campo
tutte le risorse che hanno a disposizione per creare opportunità di
lavoro, non è affatto condivisibile che tale azione abbia come unico sbocco la
ricerca di «commesse di lavoro per le
cooperative sociali».
Anche il Csa
si è adoperato presso il Comune di Torino per ottenere che, a fronte
dell’appalto concesso alle cooperative sociali per la manutenzione e la pulizia
degli edifici scolastici, le stesse cooperative sociali di tipo “B” assumessero
anche una quota di persone con handicap intellettivo (6), ma ha altresì
promosso la loro assunzione presso realtà produttive profit,
oltre che negli organici del Comune e della Provincia di Torino. Quindi è assai
probabile che le associazioni degli industriali si siano adoperate per ottenere
l’articolo 14, ma se le relative norme verranno
attuate è ovvio che ciò sarà possibile anche grazie al consenso della
cooperazione sociale, senza il cui appoggio tutto l’impianto non potrebbe
reggere. Ci sembra, inoltre, di poter sostenere che l’articolo 14 sia stato voluto anche da una parte della cooperazione sociale
per far rientrare dalla finestra quello che non era passato dalla porta,
quando, forti dell’accordo di Treviso (7), molte erano state le spinte per
ottenere già con l’articolo 12 della legge 68/1999 commesse di lavoro in cambio
dell’inserimento in cooperativa dei lavoratori con handicap che le aziende avrebbero
dovuto assumere ai sensi della legge 68/1999.
È vero che Costanza Fanelli,
rappresentante dell’Associazione nazionale delle cooperative di servizi e
turismo di Legacoop, dichiara che l’articolo 14
sarebbe un meccanismo impraticabile per ora
in quanto «dovrebbe partire da una
visione della cooperazione sociale come diretta protagonista di politiche
innovative, non sostitutiva di importanti soggetti
produttivi» (8). Tuttavia non
chiede l’abrogazione dell’articolo 14, ma a nome di Legacoop propone gli emendamenti necessari per rendere
l’articolo ancora più favorevole alle esigenze della cooperazione sociale (9).
Un po’ di storia
L’articolo 14 non è una
“invenzione” di questi ultimi tempi, ma ha radici profonde e lontane ed è per questo che siamo molto preoccupati. In primo luogo è bene ricordare che la
legge sulla cooperazione sociale 381/1991 ha aperto un mercato del lavoro
parallelo a quello normale, strumentalizzando il
bisogno delle persone aventi difficoltà personali, gli “svantaggiati” ed i
soggetti con handicap, che faticavano e faticano a trovare lavoro in realtà
produttive normali (10). In effetti, alle cooperative sociali è affidato dal
settore pubblico il compito di intervenire nel campo dell’assistenza e cioè dei soggetti con gravi limitazioni della loro autonomia
e quasi sempre incapaci di autodifendersi. Allo scopo
di poterle controllare sotto il profilo politico-istituzionale, sono state
approvate numerose disposizioni, rendendo sempre più marginale lo spazio
occupato dalle imprese profit.
Nello stesso tempo, il campo
d’azione della cooperazione sociale (sono estremamente
rare le attività svolte negli altri settori: meccanica, informatica, trasporti,
ecc.) dipende totalmente – direttamente o indirettamente – dal settore
pubblico. Per poter operare, le cooperative sociali devono sottostare per forza
di cose agli assessorati all’assistenza che forniscono
i finanziamenti indispensabili per la loro sopravvivenza. Ne deriva che sotto
il profilo della promozione dei diritti dei soggetti
deboli la cooperazione sociale è sottomessa alle istituzioni. La legge 381/1991
e le leggi regionali di recepimento,
oltre ad aver riunito sotto l’unica definizione di “svantaggiati” più tipologie
di soggetti, pongono sullo stesso piano sia le persone in grado di raggiungere
una piena capacità lavorativa, sia quanti hanno maggiori limitazioni
dell’autonomia e possono esprimere una capacità lavorativa ridotta, come nel
caso di molte persone con handicap intellettivo. Inoltre, per ottenere i
vantaggi previsti dalla legge di cui sopra, le cooperative sociali devono avere
tra il proprio organico almeno il 30 per cento di soggetti “svantaggiati”, ma
come ricorda Salvatore
Nocera della Fish,
Federazione italiana per il superamento dell’handicap, «possono arrivare anche a valori prossimi al 100 per cento, con buona
pace di quanti hanno lottato e lottano per il normale inserimento nella scuola,
nel lavoro e nella società» (11).
In sostanza con l’attuazione dell’articolo 14 avremo le cooperative aventi
le stesse difficoltà e gli stessi intenti dei “laboratori protetti” adattati
anche per gli svantaggiati? Questa affermazione non è senza fondamento. Bisogna
ricordare che l’ultimo tentativo di fare uscire le persone svantaggiate e/o con
handicap dal normale mercato del lavoro, riservando loro posti pseudo protetti in cooperative sociali, è stato fatto il 12
febbraio 1999 con la firma del protocollo d’intesa tra il Governo D’Alema
e il Forum permanente del terzo settore. Per la precisione, anche tale atto non
faceva altro che
recepire la proposta avanzata tempo prima da Pellegrino Capaldo,
Presidente della Fondazione italiana del volontariato e nello stesso tempo
anche Presidente della Banca di Roma.
Affermava
infatti Capaldo nel n. 6, giugno 1995, della Rivista del Volontariato quanto segue: «Penso ad una diversa disciplina delle
categorie protette che consenta alle imprese di
scegliere tra l’assunzione diretta e l’affidamento di commesse ad un organismo
produttivo che dia lavoro a quelle categorie» (12). La proposta emarginante
della Fondazione italiana del volontariato non si rivolgeva solo alle persone
con handicap, comprese quelle con piena capacità lavorativa, ma coinvolgeva già
allora i soggetti “svantaggiati” non tenendo conto della loro autonomia
personale, delle loro capacità lavorative e soprattutto della loro dignità e
del diritto di ognuno ad inserirsi al meglio nel contesto
sociale. A quel tempo, però, ad eccezione della rivista Prospettive assistenziali, nessuno del mondo associativo e del
volontariato si oppose alle gravi affermazioni di Capaldo.
Così si fece strada l’ipotesi di separare le persone
con problemi dal contesto normale e, con l’approvazione dell’articolo 12 della
legge 68/1999, le imprese hanno raggiunto un primo parziale risultato per
quanto riguarda l’allontanamento dall’azienda delle persone handicappate.
Poiché non erano stati raggiunti gli obbiettivi
perseguiti, ecco allora che viene varato l’articolo 14 del decreto legislativo
276/2003.
L’esclusione di
nuovo in agguato per le persone con handicap
Ancora una volta non dobbiamo
farci ingannare dalle parole, perché se da un lato leggiamo che con l’articolo
14 del decreto legislativo 276/2003 si intende «favorire l’inserimento lavorativo dei
lavoratori svantaggiati e dei lavoratori disabili», dall’altro viene scelta
la strada per la loro esclusione. I
centri per l’impiego provinciali dovranno, infatti, stipulare convenzioni con
le associazioni imprenditoriali e prevedere che, nel caso di inserimento
lavorativo nelle cooperative sociali di lavoratori disabili, gli stessi
verranno considerati validi ai fini della copertura della quota di riserva a
cui devono sottostare le aziende per rispettare quanto previsto dall’articolo 3 della legge 68/1999. Se i centri provinciali per l’impiego, che ne hanno facoltà,
non limiteranno al massimo tale prassi, vi è la certezza che le maggiori
commesse date alle cooperative, determineranno minori assunzioni di soggetti
con handicap assunti direttamente dalle aziende.
Per le piccole aziende, in ogni
caso, è già previsto che, con la semplice applicazione di una convenzione ai
sensi dell’articolo 14, siano completamente esentate dall’inserimento tra i
propri organici di persone handicappate, vanificando in questo modo una delle
principali conquiste della legge 68/1999 e cioè l’estensione
dell’obbligo di assunzione alle piccole imprese (13).
A queste condizioni, anche gli
sgravi fiscali previsti dalla legge 68/1999 per favorire l’assunzione presso le
aziende di chi ha maggiori difficoltà a causa della
ridotta capacità lavorativa, non rappresentano più quell’incentivo
per cui erano stati disposti per convincere l’impresa a scegliere una persona
handicappata piuttosto che un altro lavoratore, ugualmente in grado di svolgere
quella mansione.
Vi sono poi altri interrogativi
che ci turbano.
Le persone handicappate, comprese
quelle in grado di raggiungere una capacità lavorativa piena, potrebbero avere
oggettivamente ancora più difficoltà a collocarsi non solo nelle imprese, ma
anche nelle cooperative sociali. Infatti, come le
aziende soggette all’obbligo hanno interesse a collocare gli handicappati nelle
cooperative sociali, perché le cooperative stesse dovrebbero assumere un
handicappato, quando possono ottenere commesse di lavoro assumendo un soggetto
“svantaggiato”? Gli handicappati intellettivi o fisici o sensoriali anche nel
caso in cui siano in grado di raggiungere una capacità
lavorativa piena con il collocamento mirato, pongono comunque problemi, se non
altro di adattamento della postazione
lavorativa.
Flavio Cocanari,
già responsabile del settore handicap della Cisl,
voleva essere ottimista, dichiarando che passerà molto
tempo prima che tutte queste novità diventino operative. A suo modo di vedere
vi era spazio per stipulare convenzioni a tutela dei diritti dei lavoratori
(14). Inoltre, tutto sommato, a suo parere, non era poi così negativo
l’inserimento di persone handicappate con limitata autonomia in cooperative
sociali, perché non mancherebbero esperienze positive,
tra quelle da lui visitate. Anzi, secondo Cocanari
l’articolo 14 avrebbe potuto alla fine rivelarsi una risorsa. Non ne siamo
altrettanto sicuri. A noi, in verità, sembra un controsenso isolare le persone
per favorire una loro vita normale.
Le organizzazioni
sindacali potrebbero contenere il danno?
Le Regioni devono recepire il decreto legislativo 276/2003 e a loro volta le
Province lo dovranno tradurre in convenzioni. Non è detto che per queste
attività occorrano tempi lunghi e, tanto meno, che questo spazio di tempo venga utilizzato dai sindacati Cgil,
Cisl e Uil per intervenire
al fine di ottenere una effettiva tutela dei lavoratori svantaggiati e degli
handicappati coinvolti. In ogni caso, a nostro avviso, gli interventi
correttivi possibili – che anche noi auspichiamo e che indicheremo più avanti –
sono comunque una sorta di riduzione del danno, che
comunque è stato fatto, specialmente nei confronti di chi può raggiungere una
piena capacità lavorativa, a cui con l’articolo 14 viene lesa la libertà di
scegliere dove andare a lavorare al pari di ogni altro cittadino.
Se è vero che non tutte le
cooperative sociali di tipo “B” sono dei ghetti e che alcune si sono anche
impegnate per essere
sul serio un’impresa o un trampolino di lancio per il mondo del lavoro normale,
l’articolo 14 sopprime del tutto tale possibilità di “riscatto” del lavoratore.
Difatti prevede che sia la cooperativa stessa ad
assumerlo, per sempre, al posto dell’azienda. In pratica, alla cooperazione è assegnato
dall’articolo 14 il ruolo di escludere dal lavoro nelle normali aziende
pubbliche e private i soggetti con handicap ed i cosiddetti svantaggiati. Ciò
non significa, certo, che le aziende non assumeranno più alcun lavoratore con
handicap. Tuttavia la scelta fra il lavoro nelle aziende di tutti e nelle
cooperative non compete più al lavoratore, ma alle aziende.
Chi potrebbe trarre
vantaggio dall’articolo 14?
Secondo alcuni rappresentanti
sindacali della Camera del lavoro di Torino,
incontrati per un confronto su questi temi, gli enti pubblici economici, come
ad esempio le Asl, potrebbero utilizzare a piene mani
le opportunità offerte dall’articolo 14. Da sempre, nella realtà torinese le
aziende sanitarie hanno frapposto ogni sorta di ostacolo
per non assolvere all’obbligo di assunzione dei soggetti in situazione di
handicap tra il proprio personale.
I pretesti sono stati molteplici,
come ad esempio quello di prevedere la partecipazione dei soggetti con handicap
nei concorsi per l’assunzione ai sensi della legge 68/1999 di personale super
specializzato al solo scopo di dimostrare la propria buona volontà e di non
avere alcuna responsabilità se i concorsi andavano deserti. Tali enti, a detta
dei rappresentanti sindacali, potrebbero facilmente organizzare parte delle
loro attività più semplici (imbustatura referti
medici, servizi di pulizia…) in modo da esternalizzarle,
ovvero trasformarle in commesse di lavoro per le
cooperative sociali e, in pratica, trasferendo poi in quel contesto le persone
handicappate che avrebbero l’obbligo di assumere.
Va detto che non saremmo del tutto contrari se una parte di soggetti, quelli
con più difficoltà di collocazione come gli handicappati con limitata
autonomia, trovassero occupazione anche attraverso questa modalità. Sarebbe
grave se la maggior parte dei lavoratori che le Asl devono assumere ai sensi della legge 68/1999, in particolare
quelli professionalmente validi e capaci nonostante la minorazione, venissero
indirizzati a priori nelle cooperative sociali.
Fortunatamente il comma 2
dell’articolo 1 del decreto legislativo 276/2003 sancisce che il «decreto non trova applicazione per le
pubbliche amministrazioni e per il loro personale» e quindi Comuni,
Province, Regioni non possono avvalersi dell’articolo 14,
ma devono assumere le persone handicappate nei propri organici secondo le
modalità indicate nella legge 68/1999.
Per quanto riguarda le aziende
private, secondo i rappresentanti sindacali intervistati, il problema è più
complesso. Ad esempio, nella Provincia di Torino e, in generale in tutto il
Piemonte, sono state siglate convenzioni tra l’Unione industriale e le
Province, ai sensi dell’articolo 11 della legge 68/1999, che al momento sono assai più vantaggiose di quanto prevede l’articolo 14.
Bisogna ricordare che le imprese
possono usufruire dell’articolo 14 solo per portare a completamento le proprie
quote d’obbligo di assunzione ai sensi della legge
68/1999. Infatti, la convenzione prevede l’obbligo delle imprese della
Provincia di Torino di assumere solo il 10 per cento all’anno
delle persone handicappate che le sono attribuibili in base alla percentuale d’obbligo:
è ovvio che l’articolo 14 non rappresenta certo un vantaggio appetibile, in
quanto per poterlo utilizzare le aziende dovrebbero completare, seppur mediante
le commesse di lavoro alle cooperative, tutte le assunzioni a cui sono tenuti
in base alla legge 68/1999. Per cui, se i datori di lavoro chiedessero di
utilizzare l’articolo 14 si otterrebbe subito la copertura totale delle quote
d’obbligo, ma questo comporterebbe d’altro canto una concentrazione elevata di
handicappati nelle cooperative e l’esclusione dai normali posti di lavoro anche
di chi ha minorazioni lievi.
Chi potrebbe
contenere i danni dell’articolo 14
In attesa di conoscere gli esiti
delle iniziative intraprese dall’Ufficio handicap della Cgil
nazionale, rimane lo strumento della pressione sociale da esercitare nei
confronti delle istituzioni (Province e Regioni) deputate alla stipula delle
convenzioni. In base al secondo comma dell’articolo 14,
è compito dei comitati tecnici dei centri provinciali per l’impiego
l’individuazione dei soggetti handicappati da inviare alle cooperative in
cambio di commesse di lavoro; spetta altresì a questi enti fissare i limiti
delle percentuali massime di copertura della quota d’obbligo da realizzare con
lo strumento della convenzione.
Le associazioni di tutela, i
rappresentanti sindacali e le stesse forze politiche che credono nel diritto al
lavoro degli handicappati dovrebbero agire
tempestivamente nei confronti delle rispettive amministrazioni regionali e
provinciali perché attraverso l’assunzione di delibere siano fissati rigorosi criteri per l’utilizzo
dell’articolo 14 ai fini della legge 68/1999: in ogni caso dovrebbe essere
sempre previsto l’obbligo di assolvere alla copertura totale della quota
prevista per legge.
Va cioè
esclusa la possibilità di fare riferimento agli accordi stipulati
successivamente all’entrata in vigore della legge 68/1999, laddove permettono
alle imprese di assolvere agli obblighi anche effettuando solo una bassissima
percentuale di assunzioni, come nel caso citato in precedenza della Provincia
di Torino.
Altro punto importante è la
creazione di strumenti di controllo affinché siano inserite realmente persone
con gravi difficoltà di integrazione lavorativa e previo loro consenso. Nulla
vieta, poi, che le Regioni e le Province pretendano che gli inserimenti
effettuati con la modalità dell’articolo 14 siano possibili solo dopo che sia
stata dimostrata l’impraticabilità dell’articolo 12 della legge 68/1999.
Un invito quindi, soprattutto al mondo delle associazioni, ma anche a quello
degli operatori dei servizi per l’inserimento lavorativo e del sindacato perché
si respingano i tentativi di revisione “positiva”
dell’articolo 14.
Due modi opposti di
vedere l’handicap
Ci rendiamo perfettamente conto
che è più semplice quanto propone l’articolo 14, perché in un sol colpo le
aziende si “liberano” di persone che qualche problema
possono crearlo e, nel contempo, la coscienza dell’opinione pubblica è messa a
tacere perché comunque queste persone trovano una risposta, anche se molto
discutibile, ai loro bisogni. Da sempre vi sono due logiche di pensiero. C’è
chi sostiene la necessità di “proteggere” e pensa a luoghi chiusi solo per gli
handicappati e
chi, come le associazioni aderenti al Csa, ritiene
invece che le persone handicappate, anche quelle in situazione di gravità,
abbiano diritto ad una vita sociale integrata in tutta la misura del possibile:
si batte perché esse abbiano accesso e diritto a tutti i servizi sociali come
ogni altro cittadino.
Per quanto riguarda il diritto al
lavoro, vi sono sempre stati due fronti molto netti e distanti tra loro: da
una parte chi ritiene che sia meglio per le stesse persone handicappate,
specialmente quelle con limitata autonomia o con handicap intellettivo,
lavorare in situazioni “protette” e chi, come noi, che invece ritiene
(soprattutto sulla base delle positive esperienze realizzate) che ci debba
essere spazio nei normali ambienti lavorativi per le persone handicappate che
hanno piena capacità lavorativa (15). Accettiamo ovviamente che per le persone
handicappate con limitata autonomia, se proprio necessario, si possano
individuare ambienti lavorativi meno competitivi come quelli reperibili nelle
amministrazioni pubbliche, negli enti pubblici non
economici, nelle aziende sanitarie locali e/o delle cooperative sociali,
purché, in questo caso, non diventino i soli luoghi preposti per l’inserimento
lavorativo di soggetti svantaggiati e handicappati. Questo è il rischio che più
ci tormenta con le due posizioni sopra espresse, perché è facile teorizzare che
ci si adopera comunque a favore del diritto al lavoro
delle persone handicappate, mentre sarebbe un
aspetto secondario il fatto che il luogo di lavoro sia previsto
principalmente se non esclusivamente per loro, tagliandoli così fuori dalla
realtà sociale.
Ciò che fa più male a chi si
occupa con passione di questi temi e crede fermamente non solo
nell’integrazione, ma soprattutto nell’inclusione delle persone con handicap
nel contesto sociale, è vedere che ci sono
rappresentanti di associazioni, che si proclamano come difensori delle persone
handicappate, e poi avallano scelte di tipo emarginante. Ultimamente, sono
presenti anche i casi di persone in situazione di handicap
fisico e/o sensoriale pienamente autonome e in grado quindi di
difendersi, che ritengono di possedere il diritto di decidere per tutti gli
altri handicappati che, a causa delle maggiori difficoltà personali e sociali,
non hanno potuto ottenere analoghe posizioni di successo e di potere.
Tra tutti cito Davide Cervellin a cui se non altro devo
riconoscere che svolge adeguatamente il ruolo che gli è stato assegnato dalla Confindustria (16). Nel suo articolo “Cresce il lavoro dei
disabili” apparso sul sito www.efesto.org./intervento.htm del 18 agosto 2003, non manca ovviamente
di elogiare l’articolo 14 che a suo parere «tiene
conto delle esperienze positive, che comprende la realtà e che non si lascia
suggestionare da ideologiche prese di
posizione di talune associazioni di
disabili e organizzazioni sindacali». Anzi, insiste nel non capire «l’ostinata preclusione di taluni a che il lavoro la persona disabile lo possa svolgere in un luogo
diverso da quello della fabbrica tradizionale». Cervellin
non riesce proprio a «trovare nessuna ragione a giustificazione
del fatto che il lavoro nei luoghi usuali sia più socializzante, più gratificante, più “lavoro” che invece nelle
sedi e nei luoghi delle cooperative sociali». «A me capita – prosegue – per la funzione che ricopro, di visitare
spesso fabbriche e uffici diversi e di riscontrare proprio il contrario, ovvero che è più facile trovare persone disabili emarginate,
scontente, senza gli strumenti per mettere in luce i loro potenziali proprio
nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro tradizionali, mentre laddove lo scopo
primario è quello di far lavorare in maniera produttiva le persone disabili
(cooperative sociali) tutto questo non accade». Il Signor Cervellin in base alle competenze che svolge presso la Confindustria sa perfettamente – ma
si guarda bene dal dirlo – che quelle persone handicappate emarginate in
fabbrica che lui incontra sono ancora il risultato di un collocamento
selvaggio, imposto con la precedente normativa. La realtà oggi può essere
diversa. Il collocamento mirato permette di individuare l’incontro tra le
esigenze della persona handicappata e dell’azienda. Certo, bisogna che siano
rispettate tutte le condizioni perché il collocamento sia realmente mirato e,
in questo caso, anche la persona handicappata avrà meno alibi per assumere
atteggiamenti passivi o vittimistici, mentre l’azienda
scoprirà i vantaggi di avere lavoratori adeguatamente inseriti.
Cervellin solleva poi il problema relativo alla
pressoché inesistente rete dei trasporti pubblici, che non riguarda solo il
Nordest dove lui opera e che a suo parere «vista
la dislocazione “sparpagliata” delle aziende», costringerebbe le persone handicappate a rinunciare di
fatto alle proposte di lavoro per l’impossibilità di raggiungere tali luoghi. È
un ragionamento inaccettabile. Se i mezzi di trasporto sono insufficienti o
inadeguati, le amministrazioni competenti (e cioè le
Regioni, le Province ed i Comuni) devono adoperarsi per assicurare
l’accessibilità del posto di lavoro di tutti i lavoratori e non solo di quelli
con handicap.
Davide Cervellin
dovrebbe tener conto che la mancanza di trasporti accessibili è stata per molti
allievi handicappati fonte di ostacoli, anche nei
riguardi della frequenza della scuola dell’obbligo, soprattutto quella media
inferiore. Anche in questo caso non bisogna arrendersi
di fronte alle difficoltà. Anche se ancora oggi bisogna continuare ad
intervenire – a volte anche sul piano legale – resta comunque
un dato di fatto che le scuole speciali sono state quasi tutte superate, pur
rappresentando, sotto il profilo burocratico, una facile soluzione ai tanti problemi
che l’integrazione scolastica poneva e pone. Per cui, anche
se è vero che non è sempre facile integrare i soggetti con handicap e gli
svantaggiati nelle normali aziende, non è certo impossibile. Le migliaia
di assunzioni realizzate immediatamente dopo l’avvio
della legge 68/1999, senza incentivi o collocamenti mirati, ha confermato
quello che da sempre sosteniamo e cioè che sono estremamente numerose le
persone che hanno minorazioni che non creano nessun ostacolo al loro pieno
inserimento. Certo, noi chiediamo tutele e garanzie anche per inserire chi ha
maggiori difficoltà.
Che cosa è
necessario per garantire il diritto al lavoro a coloro che
hanno una riduzione della capacità lavorativa
È solo rimettendo al centro la
legge 68/1999 e sviluppando tutti quegli strumenti e servizi che permettono un
vero collocamento mirato che si può sperare di vincere la battaglia contro
l’emarginazione e ottenere posti di lavoro veri in normali contesti
lavorativi. È un invito a quanti si sono adoperati per ottenere la nuova legge
sul collocamento al lavoro delle persone handicappate, perché non perdano di
vista l’obiettivo di ottenere dalle amministrazioni pubbliche risorse e
personale qualificato per i servizi di inserimento
lavorativo e attività di formazione professionale rivolte anche agli
handicappati intellettivi o fisici con limitata autonomia.
Temiamo fortemente le involuzioni
che sono possibili quando, di fronte agli innumerevoli
ostacoli, ad alcune associazioni viene voglia di “fare da sé”. Certo, possiamo
anche attivare il miglior servizio di inserimento
lavorativo con la nostra organizzazione: ma che ne sarà di tutti gli altri
handicappati che non fanno parte del nostro “giro”? Ci siamo impegnati per
ottenere una legge che garantisse attraverso il collocamento mirato
l’assunzione anche di chi ha una capacità lavorativa ridotta: adesso bisogna
attivarsi nuovamente per renderla davvero a portata di tutti quei giovani
handicappati che giustamente aspirano ad un posto di lavoro, dopo che in tanti
anni passati a scuola, sostenuti dagli insegnanti e dai compagni – oltre che
dai genitori – sono stati preparati per essere positivamente inseriti nel mondo
del lavoro.
(1) Il decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276 è
pubblicato sul n. 235 del 9 ottobre 2003, Supplemento ordinario n. 159 della Gazzetta ufficiale e riguarda
l’attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di
cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30. Il testo
dell’articolo 14 (cooperative sociali e inserimento lavorativo dei soggetti
svantaggiati) è il seguente:
«1. Al
fine di favorire l’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e dei lavoratori disabili, i servizi di cui all’articolo 6, comma
1, della legge 12 marzo 1999, n. 68, sentito l’organismo di cui all’articolo 6,
comma 3, del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, così modificato
dall’articolo 6 della legge 12 marzo 1999, n. 68 stipulano con le associazioni
sindacali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più
rappresentative a livello nazionale e con le associazioni di rappresentanza,
assistenza e tutela delle cooperative di cui all’articolo 1 comma 1, lettera
b), della legge 8 novembre 1991, n. 381, e con i consorzi di cui all’articolo
della stessa legge, convenzioni quadro su base territoriale, che devono essere validate da parte delle Regioni, sentiti gli organismi di
concertazione di cui al decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469 aventi ad
oggetto il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali medesime
da parte delle imprese associate o aderenti.
«2. La convenzione quadro disciplina i seguenti aspetti:
a) le
modalità di adesione da parte delle imprese interessate;
b) i
criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati
da inserire al lavoro in cooperative. L’individuazione dei disabili sarà curata
dai servizi di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 12 marzo 1999, n. 68;
c) le
modalità di attestazione del valore complessivo del
lavoro annualmente conferito da ciascuna impresa e la correlazione con il numero
dei lavoratori svantaggiati inseriti al lavoro in cooperativa;
d) la determinazione del coefficiente di calcolo del valore unitario delle
commesse, ai fini del computo di cui al comma 3, secondo criteri di
congruità con i costi del lavoro derivati dai contratti collettivi di categoria
applicati dalle cooperative sociali;
e) la promozione e lo sviluppo delle commesse di lavoro a favore delle
cooperative sociali;
f)
l’eventuale costituzione, anche nell’ambito dell’agenzia sociale di cui
all’articolo che precede, di una struttura tecnico-operative senza scopo di
lucro a supporto delle attività previste dalla convenzione;
g) i limiti di percentuali massime di copertura della quota d’obbligo da
realizzare con lo strumento della convenzione.
«3.
Allorché l’inserimento lavorativo nelle cooperative sociali, realizzato in
virtù dei precedenti commi, riguardi i lavoratori disabili, che presentino
particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento
nel ciclo lavorativo ordinario, in base alla esclusiva valutazione dei servizi
di cui all’articolo 6, comma 1, della legge 12 marzo 1999, n. 68, lo stesso si
considera utile ai fini della copertura della quota di riserva, di cui
all’articolo 3 della stessa legge cui sono tenute le imprese conferenti. Il
numero delle coperture per ciascuna impresa è dato
dall’ammontare annuo delle commesse dalla stessa conferite diviso per il
coefficiente di cui al precedente comma 2, lettera d) e nei limiti di
percentuali massime stabilite con le convenzioni quadro di cui al comma 1. Tali
limiti percentuali non hanno effetto nei confronti delle imprese che occupano
da 15 a 35 dipendenti. La congruità della computabilità
dei lavoratori inseriti in cooperativa sociale sarà verificata dalla
Commissione provinciale del lavoro.
«4.
L’applicazione delle disposizioni di cui al comma 3 è subordinata
all’adempimento degli obblighi di assunzione di
lavoratori disabili ai fini della copertura della restante quota d’obbligo a
loro carico determinata ai sensi dell’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n.
68».
(2) Tra le numerose prese di posizione contro l’articolo 14
segnaliamo quelle di: Salvatore Nocera, “Rischio di
affossamento della legge sul collocamento al lavoro delle persone disabili”, in Appunti, luglio-agosto 2003; Gianni Selleri, “Sbatti il disabile in cooperativa: a rischio
l’integrazione lavorativa”, in Sempre, n. 27, 2003; Costantino Corbari,
“Lavoro e disabili in Lombardia”, in Conquiste del lavoro, 5 novembre 2003;
Stefania Delendati, “Riforma del lavoro: il funerale
del collocamento obbligatorio”, in Hpress, n. 1, 15
gennaio 2004.
(3) Cfr. Gianni Selleri, op. cit.
(4) L’articolo 12 della legge 68/1999 prevede che le
aziende assumano il lavoratore handicappato nel proprio organico; questi non
svolge la propria attività lavorativa nella stessa azienda, ma presso una cooperativa sociale che
riceve in cambio dall’azienda una commessa di lavoro sufficiente a garantire la
retribuzione al soggetto inserito. L’articolo 12 prevede che al termine di due
anni, ripetibili a discrezione del Comitato tecnico dei servizi per l’impiego
provinciali, la persona handicappata venga rivalutata
per decidere il rientro o meno nell’azienda. Con l’articolo 14 del decreto
legislativo 276/2003 questa possibilità, già molto limitata nel sopra
menzionato articolo 12, viene definitivamente
cancellata con l’assunzione diretta della persona handicappata da parte della
cooperativa sociale, che in questo modo solleva per sempre l’azienda da ogni
obbligo relativo all’inserimento di quel soggetto con handicap.
(5) Cfr. Antonio Saccardo, “L’integrazione delle persone con disabilità in
Veneto. Uno sguardo d’insieme”, Studi Zancan, n. 3/2003.
(6) Cfr la mozione n. 29
approvata dal Consiglio comunale di Torino in data 29 maggio 2000; Emanuela
Buffa, “La conquista di posti di lavoro presso la Provincia di Torino: analisi
di un’esperienza”, Controcittà
n. 2-3, 1999; “Collocamento obbligatorio: da settembre assunti 20 handicappati
intellettivi nel Comune di Torino con contratto part-time”, Controcittà n. 10, 1999; Coordinamento
sanità assistenza fra i movimenti di base,
“Handicappati intellettivi: assunzioni in aziende profit”, Prospettive assistenziali n. 126, 1999.
(7) L’Ufficio provinciale del lavoro e della massima
occupazione (Uplmo) di Treviso in data 17 settembre 1996 ha stipulato con il
Consorzio Cooperative sociali “Intesa”, l’Unindustria,
l’Associazione nazionale costruttori edili e affini, l’Associazione
commercianti e i Sindacati Cgil, Cisl,
Uil, un’intesa che, interpretando in modo
assolutamente distorto l’allora legge 482/1968 sul collocamento obbligatorio,
ha bloccato l’integrazione dei soggetti handicappati e svantaggiati, compresi
quelli con piena capacità lavorativa, nelle normali aziende pubbliche e
private. Cfr. “Fuori gli handicappati dalle normali
aziende di Treviso”, Prospettive assistenziali, n. 116, 1996.
(8) Cfr. Benedetta
Verrini, “Legge Biagi: i
disabili meglio in cooperativa?”, Vita,
1° agosto 2003.
(9) Nel succitato articolo apparso su Vita sono illustrati gli emendamenti proposti da Legacoop, che si limitano a richiamare l’articolo 4 della
legge 381/1999, a chiedere di sostituire
le cooperative sociali con le loro associazioni di rappresentanza, ad
aggiungere i costi dell’inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati e
disabili, a chiedere che la durata della copertura di ciascuna quota d’obbligo
sia consentita tramite il conferimento di commesse di lavoro, a pretendere,
infine, addirittura l’annullamento dell’articolo 12 della legge 68/1999.
(10) Ricordiamo che la legge 381/1991 considera persone
svantaggiate «gli invalidi fisici,
psichici e sensoriali, gli ex degenti in istituti psichiatrici, i soggetti in
trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcoolisti, i minori in età
lavorativa in situazione di difficoltà familiare, i condannati ammessi alle
misure alternative alla detenzione» compresi i soggetti con piena capacità
lavorativa.
(11) Salvatore Nocera, “Lavoro: il
difficile inserimento dei disabili. L’articolo 14 della legge
30/2003 sulla riforma del mercato del lavoro rappresenta l’ennesimo
colpo di piccone al collocamento mirato delle persone con disabilità”,
www.superabile.it, 22 giugno 2003.
(12) Cfr. “La Fondazione italiana
per il volontariato non vuole che handicappati e svantaggiati lavorino nelle
normali aziende”, Prospettive assistenziali, n. 111, 1995 e “Intesa fra il Governo e
il Forum del terzo settore per l’emarginazione sociale dei cittadini aventi
limitate capacità lavorative”, Ibidem,
n. 127, 1999.
(13) Si
veda il comma 3 dell’articolo 14.
(14) Cfr. Benedetta Verrini, “Lavoro disabili: e se la Biagi
fosse una chance?”, Vita, 31 ottobre 2003.
(15) Sin dalla sua costituzione il Csa
è intervenuto nei confronti degli assessorati al lavoro della Regione Piemonte,
della Provincia e del Comune di Torino per chiedere assunzioni di persone
handicappate (specialmente di chi ha una ridotta capacità lavorativa), in
aziende pubbliche e private e nelle cooperative sociali. Alla data del 31
dicembre 2003 grazie alla nostra azione di pressione si erano ottenute oltre
cinquecento assunzioni di persone con handicap intellettivo e di soggetti con handicap fisico e limitata autonoma. Per approfondimenti si
veda anche la nota 6.
(16) Daniele Cervellin è una
persona non vedente, responsabile per l’handicap della Confindustria;
svolge anche un’attività lavorativa in proprio.
www.fondazionepromozionesociale.it