Prospettive assistenziali, n. 147, luglio - settembre 2004

 

 

IL CENTRO DIURNO AURORA: UN INTERVENTO SANITARIO ALTERNATIVO PER IL MALATO DI ALZHEIMER E LA SUA FAMIGLIA

Virginia Caprino *, Maria Teresa Cerrato **

 

 

Il centro Aurora ha origine nel marzo del 1994: nel cuore del quartiere Aurora di Torino, presso il vecchio ospedale Luigi Einaudi, prende vita un’esperienza pilota che risponde all’esigenza di assistere il malato di Alzheimer e la sua famiglia in modo innovativo. Il centro diurno per dementi senili (Cedisal) si configura come una concreta risposta alla delibera dell’Ussl Torino VII del 1993 riguardante la “Istituzione centro diurno psicogeriatrico” (1).

Nella delibera si evidenziava come «attesa l’alta incidenza di sindromi demenziali in età senile e il drammatico coinvolgimento dei nuclei familiari, comportanti programmi terapeutici e di assistenza particolarmente complessi e onerosi» e prendendo atto degli orientamenti finalizzati a «individuare modelli alternativi al ricovero ospedaliero al fine di ottimizzare le risorse, ridurre i costi rimuovendo, nel contempo, quei fattori sociali e psicologici che influenzano negativamente l’istituzionalizzazione del paziente», fosse necessario istituire centri per il recupero psico-sociale degli anziani affetti da demenza.

Inoltre, la proposta del Piano sanitario nazionale, in virtù del progetto obiettivo “Tutela salute degli anziani”, reso operativo dal Parlamento con l’approvazione del 30 gennaio 1992, prevedeva, per il quinquennio 1991-1995, il servizio “Centro per dementi senili” volto a offrire «prestazioni intermedie tra la specializzazione e l’assistenza ambulatoriale, per favorire il recupero o il mantenimento dell’autosufficienza dell’anziano». Tali premesse, rispecchiando, per la realtà territoriale medica e assistenziale, esigenze sempre più forti, costituirono il punto di partenza per l’apertura del “Centro diurno per demenze senili”, i cui obiettivi principali furono riassunti in tre punti:

1) promuovere e sostenere l’inserimento dell’anziano nella società;

2) contenere le richieste di ricovero ospedaliero dei suddetti pazienti;

3) assicurare una migliore qualità di vita agli anziani dementi.

Nella “Relazione tecnica allegata alla delibera istitutiva del centro” è affermato che il fine ultimo della struttura è rappresentato dal miglioramento della qualità di vita del paziente e dei suoi familiari, tenendo conto che «se è lecito definire la demenza di Alzheimer come patologia inguaribile, non altrettanto lo è ritenerla incurabile, sia in quanto in più della metà dei casi vi sono associate altre patologie, spesso guaribili, che ne peggiorano il quadro, sia per il fatto, inoppugnabile, che i sintomi e il decorso dell’Alzheimer sono influenzati significativamente dall’ambiente e dagli stimoli circostanti» (Venesia, Colombarini, Landra, 1996, p. 141).

Il centro, che si configura come «prolungamento della casa del paziente demente» e come luogo di cura che non richiede un «distacco traumatico dall’ambiente a lui familiare» (Ibidem, p. 141), operando con i medici di base e i servizi sociali presenti nella realtà territoriale, offre, in particolare, al soggetto ospitato:

– periodica verifica delle condizioni fisiche;

– monitoraggio delle eventuali terapie farmacologiche;

– osservazione e valutazione delle condizioni cognitivo-affettive con metodologie di rilevazione obiettiva;

– attività riabilitativa in relazione alla cura e igiene della persona, alla mobilità, alla socializzazione e, infine, al mantenimento e recupero delle funzioni cognitive.

A livello di gestione tecnica, per quanto riguarda la modalità di accesso al centro, in seguito alla segnalazione da parte del medico curante, dei parenti, dei servizi sociali o sanitari, vi è una fase di selezione nella quale il paziente è esaminato dall’Unità valutativa geriatrica (Uvg) dell’Ussl di appartenenza (ora Asl) che, considerando la situazione psico-fisica e il contesto sociale in cui vive il demente, lo pone, qualora sia ritenuto idoneo all’inserimento, in lista di attesa.

I criteri in base ai quali l’ingresso nella struttura è considerato favorevole non sono facilmente individuabili: «Riteniamo infatti che il malato debba presentare un deterioramento mentale tale da influire in modo importante sull’autosufficienza, ma non così elevato da impedire qualsiasi tipo di relazione. Non è semplice delineare il paziente “tipo” per il centro diurno. Non è infatti tanto importante la valutazione del deterioramento quanto la capacità del paziente di vivere la giornata all’interno della collettività (laboratori, pasti…). E questa condizione è, il più delle volte, possibile verificarla solo dopo un periodo di osservazione che concordiamo, nelle modalità e nella durata, con i familiari» (Beggiato, Cerrato, Landra, 1998, p. 5).

Quindi, se l’Unità di valutazione geriatrica funge da filtro per un eventuale ingresso nel centro, è da rilevare come il personale, che opera all’interno di questo, abbia una funzione complementare e supplementare rispetto all’Uvg, agendo, infatti, nella direzione di analizzare in modo più approfondito le condizioni psico-fisiche e l’ambiente di vita del paziente e confermando l’adeguatezza della scelta relativa alla frequentazione del centro. Il periodo di osservazione, che dura due settimane, consente di avviare un progetto individualizzato, determinando, per esempio, le modalità di frequenza ritenute più opportune per il paziente (giornaliere, bisettimanali, trisettimanali, a tempo pieno o part-time).

La frequenza del centro assicura una completa presa in carico della persona demente, ma è necessario che nelle ore in cui il paziente non è ospitato vi sia una «struttura di appoggio (…) costituita dai familiari, dai gruppi di volontariato, dai servizi sociali e a essa compete l’accompagnamento e il ritiro dell’anziano» (Venesia, Colombarini, Landra, 1996, p. 136).

Il personale presente nella struttura è composto da una figura infermieristica con funzioni di coordinamento (caposala o infermiera/e professionale) riguardo all’organizzazione del profilo igienico-sanitario, alla trasmissione dei dati riguardanti il paziente verso le sedi di competenza, ai rapporti con l’Uvg, alla pianificazione dei turni degli operatori e alla vigilanza sul loro operato, al rifornimento dei farmaci e alla loro conservazione, alla stesura di una relazione annuale sull’andamento del centro.

Per ogni singolo ospite è compilata una cartella clinica che include i dati anagrafici, socio-familiari, anamnestici, l’esame obiettivo, i risultati delle indagini di laboratorio e della testistica neuropsicologica.

È contemplata la presenza di almeno tre infermieri professionali e di sette figure tra Ota (Operatore tecnico di assistenza) e ausiliari socio-sanitari.

La delibera del 1993 prevede, inoltre, che sia presente personale specializzato per l’attività motoria e uno psicologo a tempo pieno per gli interventi di riabilitazione cognitiva.

Nella prima fase della sua attività, il centro fu dotato di un infermiere professionale, di un Ota, e della supervisione del geriatra del day hospital, struttura adiacente al centro stesso. Il Comune di Torino si fece carico di assicurare, saltuariamente, la presenza di figure professionali quali assistente sociale ed educatore. Un contributo notevole fu offerto, poi, dalla partecipazione dei volontari ospedalieri (Avo).

I locali del centro, situato al piano rialzato dell’ospedale Einaudi, erano due: uno di ridotte dimensioni, riservato ai colloqui clinici e alla valutazione psicodiagnostica, e un secondo, più ampio, che rivestiva la funzione di soggiorno e di spazio in cui poter svolgere le attività di socializzazione e le terapie occupazionali. Fu prestata particolare cura all’arredamento degli ambienti, caratterizzati da un’atmosfera di quotidianità domestica, per trasmettere agli ospiti un clima di serenità ed evitare i vissuti ansiogeni generalmente indotti dal contesto ospedaliero.

Tuttavia, in questo primo periodo, data la scarsità di risorse disponibili a livello di personale e le ridotte dimensioni della struttura (la mensa e i servizi igienici erano in comune col day hospital), i pazienti ospitati erano solo sei.

Nella primavera del 1997, momento in cui terminano i lavori di ristrutturazione dell’ex-scuola materna di Via Schio 11, retrostante l’ospedale, messa a disposizione dall’Assessorato all’assistenza del Comune di Torino, ha inizio la seconda fase di vita del centro.

Nel luglio dello stesso anno prende vita il centro diurno Aurora che dispone, adesso, di 800 metri quadrati: sono presenti una grande cucina, una ampia sala da pranzo, una palestra, due spaziosi locali in cui si svolgono le attività ricreative e le riunioni, due ambulatori, un locale infermieristico, una sala per il riposo, uno spogliatoio e i servizi igienici. Il vasto salone di ingresso, progettato per divenire un luogo di incontro, di riposo e di attesa, dà sul giardino che circonda la struttura, spazio verde pensato per lo svolgimento di attività come il giardinaggio e le passeggiate, ma anche come utile risorsa per ovviare al problema del vagabondaggio, sovente presente nella malattia di Alzheimer.

Il numero delle persone ospitate aumenta (dalle sei iniziali si passa a ospitare fino a venticinque persone) e, di conseguenza, il personale viene ampliato: un altro infermiere, una psicologa, un educatore, un animatore, un assistente sociale per quattro ore mensili e cinque Adest (Assistente domiciliare e dei servizi tutelari).

Gli obiettivi del centro rimangono gli stessi di tre anni prima ed è maggiormente sottolineata la funzione di aiuto verso la famiglia dell’ospite: infatti, tra gli intenti non vi è soltanto quello di alleggerire il carico della famiglia, ma anche quello di promuovere una più ricca relazione tra il paziente e la sua realtà socio-familiare. In tale direzione, oltre all’isituzione di “Gruppi di auto-aiuto”, vengono svolti colloqui individuali di sostegno psicologico e psicoterapia, nonché cicli di incontro formativi-informativi rivolti ai familiari:  «Prestazioni di tipo sanitario e psico-sociale si vanno a collocare all’interno di una visione che supera la logica dell’intervento parziale e frammentario. Ciò pone in primo piano la relazione con l’assistito, ma accoglie anche la domanda della sua famiglia» (Cerrato, Graziani, Landra, 1997, p. 17).

Il centro Aurora è inoltre in stretto contatto con l’Università di Torino, attraverso la Facoltà di psicologia e, in particolar modo, mediante il corso di psicologia gerontologica tenuto dal Professor Giuseppe Andreis, le cui esperienze pratiche guidate, da alcuni anni ormai, si svolgono in parte presso la struttura. In tal modo il centro si configura come anello di congiunzione tra le teorizzazioni psicologiche riguardanti l’invecchiamento, e la demenza in particolar modo, e la realtà clinica, nonché come luogo in cui è possibile effettuare ricerche e studi che possono rappresentare materiale per tesi di laurea.

 

Una ricerca-intervento: la memoria autobiografica come risorsa

Nel periodo compreso tra novembre 2001 e maggio 2002 è stata svolta una ricerca-intervento (2) il cui obiettivo principale è stato quello di individuare quali fossero i fattori, connessi al funzionamento del centro, che avessero influenza sul senso di benessere degli ospiti, differenziando tali variabili da altre considerabili dipendenti dalla personalità morbosa e pre-morbosa dell’ospite stesso.

Un secondo scopo, conseguente al primo, ha riguardato la ricerca di modalità ricreative, che avessero anche un fine riabilitativo, in grado di rispondere maggiormente alle esigenze dei soggetti coinvolti, tenendo in particolare considerazione i pazienti che presentavano un deficit cognitivo di lieve e media ampiezza e i nuovi ingressi.

L’ipotesi che ha guidato la ricerca assume che nel soggetto demente sia presente una domanda di aiuto che si evidenzia primariamente come domanda di relazione: impostando un progetto individualizzato di riabilitazione, basato soprattutto sull’uso della parola considerata come mezzo di contatto col mondo interno ed esterno e risorsa di significazione per l’individuo, è stato ipotizzato che nel momento in cui il soggetto demente trova uno spazio in cui esprimersi e all’interno del quale, nello stesso momento, possa sentirsi contenuto, alcuni sintomi (depressione e ansia) e comportamenti (demotivazione a stabilire legami sociali all’interno del centro, scarsa propensione a parlare dei propri stati d’animo, timore di essere giudicato) possano ridursi e permettere al soggetto di vivere le ore trascorse nella struttura con maggiore serenità. A tal fine sono stati strutturati dei laboratori autobiografici.

Per rilevare quali fossero i fattori dipendenti dal funzionamento della struttura e quali fossero le variabili interne all’individuo sono state delineate cinque principali tappe metodologiche costituite da: un primo colloquio clinico; osservazioni preliminari alla strutturazione dei laboratori autobiografici degli ospiti in differenti circostanze, tra le quali l’arrivo mattutino al centro, la partecipazione ai laboratori ricreativi già predisposti, il momento del pranzo; rilevazione, all’interno dei discorsi dei soggetti, di tematiche ricorrenti considerate in grado di svelare nodi conflittuali relativi al passato e/o al tempo presente; creazione dei gruppi di lavoro e loro avvio.

I soggetti che hanno preso parte alla ricerca sono stati cinque: tre donne e due uomini. L’età media dei soggetti era di circa 78 anni. Il livello di istruzione era elementare, tranne due casi nei quali l’iter scolastico è di medio livello (scuola professionale e diploma di avviamento). Uno degli uomini, a causa di un infarto cerebrale, è deceduto nel periodo in cui si svolgeva la ricerca; avendone preso parte, si è deciso di riportare ciò che egli ha prodotto durante i laboratori, anche in virtù del fatto che, oltre ad aver lasciato un buon ricordo, ha costituito una delle tre prese in carico fin dal momento dell’ingresso al centro. È stato, infatti, possibile impostare un progetto personalizzato sin dall’accesso al centro solo con tre dei cinque soggetti (Adele, Enrico e Vittorio), mentre con i restanti (Azzurra e Benedetta) l’intervento ha avuto luogo nel momento in cui il loro ingresso nel centro era precedente di uno-tre anni in media. I nomi dei soggetti coinvolti sono stati modificati per rispettare il diritto all’anonimato e, al fine di poter disporre del materiale emerso in sede di ricerca, è stato esplicitamente richiesto, e ottenuto, il consenso scritto da parte dei familiari dei pazienti.

Tra i cinque soggetti, solo tre (Adele, Azzurra e Benedetta) frequentavano il centro quotidianamente e per tutto il giorno, mentre i rimanenti due (Enrico e Vittorio) usufruivano del centro due o tre volte la settimana rimandendovi per la sola mattinata.

I soggetti sono stati selezionati in base a quattro criteri principali:

– diagnosi di probabile malattia di Alzheimer;

– grado di deterioramento cognitivo lieve-medio rilevato in base al colloquio clinico e mediante i punteggi ottenuti al Mmse e al Moda (Punteggi, corretti per età e scolarità, al Mmse compresi tra 16 e 25; punteggi, corretti per età e scolarità, al Moda compresi tra 85,5 e 50);

– capacità espressiva verbale globalmente conservata;

– tono dell’umore tendenzialmente depressivo e/o con tratti ansiosi.

I laboratori autobiografici sono stati pensati alla luce di teorie psicologiche internazionalmente condivise (Validation Therapy: Feil, 1967; Reality Orientation Therapy: Taulbee, Folsom, 1966; Folsom, 1967, 1968; Terapia della Reminiscenza: Gagnon, 1996) che sottolineano come il ricorso all’autobiografia, alla memoria, sia essenziale per diversi motivi tra cui la possibilità di: riconoscere e conservare il senso d’identità personale, considerata come elemento rimandato dalla presenza e risposta di “Altri” significativi e aspetto che necessita di una continua sintonizzazione nel tempo; assegnare un significato agli eventi vissuti, sia a quelli determinati dall’azione del soggetto sia a quelli accaduti indipendentemente dalla volontà della persona; mantenere un legame con se stessi, in quanto persone contenenti aspetti positivi e negativi, e con gli “Altri” al fine di giungere a una serena accettazione di come si è stati e di come si è nel momento attuale; soddisfare il bisogno di es-porsi al mondo esterno attraverso la messa in parole del proprio mondo interno, assegnando in tal modo una più ricca dignità a questo. Nelle fasi iniziali «…i deficit si evidenziano principalmente a livello del funzionamento mnesico: conservando il ricordo del proprio passato, il paziente mantiene, per tempi relativamente lunghi, il senso della propria identità, mentre, smarrendo le tracce della dimensione presente, si espone a un confronto che inizia gradualmente a dissolvere il senso di Sé» (Caprino, 2002, pag 83).

Nel caso specifico, quello della demenza di Alzheimer, i laboratori autobiografici hanno espletato, oltre alle funzioni sopraccitate, anche una modalità informale per motivare il soggetto al recupero dei ricordi e alla loro elaborazione: sebbene la funzione mnesica sia significativamente lesa, soprattutto per ciò che concerne l’acquisizione di nuove conoscenze dichiarative, tuttavia l’esercizio che si attua stimolando l’emergere di ricordi e sollecitando un aggancio associativo e di senso col tempo presente risulta utile affinché il soggetto demente possa ritrovare il desiderio di parlare, di raccontarsi agli Altri e, seppur per un breve momento, scoprire il piacere di funzionare e la gioia di essere ascoltato come soggetto e non come malato. Infatti, se per il demente la malattia è divenuta l’elemento accentratore della vita, nel momento in cui il soggetto acquista una posizione di persona, di soggetto che possiede parole ed è in grado di raccontarsi, la patologia vede sfumare il suo ruolo centralizzatore.

I laboratori autobiografici hanno avuto inizio nel momento in cui è stato possibile contare su una conoscenza relativamente approfondita dei soggetti coinvolti nella ricerca e si era, quindi, già instaurata con loro una buona relazione in cui il dialogo e l’ascolto annullassero il sospetto di essere semplicemente indagati. Un vissuto presente nei soggetti affetti da demenza di Alzheimer, infatti, è quello relativo alla sensazione di sentirsi studiati e tale impressione può influire negativamente sull’autostima e può comportare un incremento della diffidenza verso il mondo esterno.

Nel momento in cui i laboratori sono stati avviati era quindi già presente una narrazione sostenuta dalla relazione: scopo fondamentale dei laboratori era organizzare la narrazione in corso, strutturarla, dotarla di una cornice che fosse in grado di contenerla e, nello stesso tempo, comunicare al soggetto come egli potesse essere ancora in grado di relazionarsi attraverso una dimensione alternativa a quella nella quale la patologia riveste un posto centrale.

I laboratori autobiografici si sono svolti due volte la settimana e hanno avuto la durata di circa un’ora. Per la loro attuazione è stata predisposta una stanza ampia e luminosa, corredata di un lungo tavolo, una grande lavagna e di numerosi strumenti, quali cartelloni, pennarelli, una radio, giornali, oggetti quotidiani.

I laboratori sono stati suddivisi in tre differenti fasi, ognuna delle quali è stata caratterizzata dal lavoro su tematiche precise: in particolare si è lavorato sulla presentazione di se stessi agli altri ospiti, sulla rappresentazione di se stessi mediante la riflessione su episodi ed emozioni della propria vita e sul re-telling ossia sulla restituzione al soggetto del suo discorso, elaborato nelle parti più confuse e bonificato in quelle più conflittuali.

 

Un caso clinico

Sarà descritto il caso di Adele, un’ospite del centro che ha preso parte alla ricerca. La demenza contagia Adele e la sua famiglia in duplice modo: non solo in quanto malattia individuale, che discioglie lentamente e in modo drammatico la personalità, ma anche come patologia familiare che sembra dissolvere progressivamente i legami di amore e fiducia precedentemente instaurati.

Adele ha 81 anni ed è una donna minuta, così magra da evocare un senso di fragilità e suscitare il desiderio di prendersene cura. Ha i capelli grigi, pettinati in modo ordinato e porta gli occhiali che ogni tanto le cadono sul naso e che lei mette a posto con un gesto che lascia trasparire un certo imbarazzo. Si capisce fin dal momento del primo incontro che tiene molto al suo aspetto e desidera apparire come una donna educata e ordinata.

La valutazione neuropsicologica (Mmse: PC= 16.3/30; Moda: PC= 51.2/100) evidenzia un deterioramento cognitivo caratterizzato da grave disorientamento (temporale, spaziale, personale e familiare), deficit attentivi e mnesici e da scarsa consapevolezza della propria situazione psico-fisica.

È una persona timida, taciturna ed è molto gentile e disponibile. Quando viene inserita nel progetto di ricerca Adele frequenta il centro da due sole settimane: sembra che si trovi bene, anche se l’impressione che si ha è quella di una persona abituata a non disturbare, ad accettare le situazioni anche più incresciose. Adele inizierà a frequentare il Centro per tre volte la settimana, prima a tempo parziale e, successivamente, per tutto il giorno.

Adele è nata in Lombardia, in un piccolo paese in provincia di Milano dove ha vissuto fino a tredici anni fa. È cresciuta in una famiglia operaia e numerosa, che le ha impartito una rigida educazione di stampo cattolico. Ha conseguito un’istruzione elementare ed è la quarta di cinque figli, tutti deceduti, tranne lei e un fratello che è poco più giovane. I rapporti con il fratello, da sempre superficiali, sono divenuti ancora meno rilevanti da quando si è definitivamente trasferita a Torino.

Adele inizia presto a lavorare «…perché in famiglia c’era bisogno di soldini…», prima come operaia, successivamente come donna a servizio «In casa di gente per bene… baroni», poi nuovamente in fabbrica, in una cartiera, la stessa dove incontrerà il futuro marito. Dopo la nascita della figlia, Adele smette di lavorare fuori casa e diventa una casalinga: svolge il suo dovere con grande passione, sembra che prendersi cura della casa, della figlia e del marito costituisca la sua vera vocazione, come riferisce la figlia. Inoltre, Adele coltiva degli interessi: lavora a maglia, a uncinetto, legge molto e fino a tarda notte, prediligendo i romanzi d’amore di Liala e il libro Cuore. Adele ama la musica «…ma quella dei miei tempi… non il rumore dei giovani…». Da giovane, dice, andava sovente al “cinematografo del paese”, dove riferisce di recarsi ancora qualche volta con la figlia, affermazione che, confermerà la figlia, non corrisponde a realtà. Adele non ama particolarmente guardare la televisione e, di tanto in tanto, vede qualche film d’amore, anche se rivela che alcune scene la mettono in imbarazzo.

Adele si sposa all’inizio degli anni ’50 con Arturo. Lui ha origini pavesi, proviene da una famiglia contadina molto numerosa che si trasferisce in Lombardia a causa di un’epidemia. In seguito al matrimonio, Arturo e Adele si stabiliscono nella casa paterna di lei, nella quale vivono ancora il padre e due fratelli. La madre di Adele è già deceduta da tempo. Adele parla del marito con affetto, ricorda soprattutto le sue doti di valente soldato e di gran lavoratore: dopo sette anni passati a combattere «…aveva fatto la guerra in Russia, al freddo… con la neve e poco cibo…», era stato anche prigioniero di guerra in Germania.

Adele sottolinea spesso quanto il marito avesse un carattere forte e coraggioso. Prima di conoscere Adele, Arturo, al suo arrivo in Lombardia, trova lavoro in una vetreria, occupazione che gli procurerà seri danni alla salute, tra cui l’enfisema polmonare che ne causerà la morte. Dopo aver lasciato la vetreria, Arturo è assunto in una cartiera, nella quale incontra Adele. Adele racconta il corteggiamento che ha ricevuto: molto discreto, fatto, per un lungo tempo, di semplici sguardi e sorrisi, fino al momento in cui Arturo la invita a mangiare un gelato, occasione nella quale le chiede di poter incontrare i genitori di lei per fidanzarsi.

Il matrimonio tra Adele e Arturo è fatto di molti sacrifici ma anche di tanto amore: nascerà una figlia, che adesso ha 50 anni, la quale, dopo essersi sposata con un ragazzo piemontese, si trasferirà a Torino, causando un gran dolore alla madre. Dopo la morte del marito, nei primi anni ’80, Adele ha una forte crisi depressiva. Inizia a soggiornare sporadicamente presso la casa della figlia «…per mia scelta», sottolinea, qualche volta, ma non ha intenzione di trasferirsi a Torino, anche se ammette «…ho paura della solitudine e del buio». La figlia racconta che la madre ha sempre mostrato un carattere con marcati tratti depressivi, episodi durante i quali Adele, cessando di nutrirsi in modo regolare, dimagriva eccessivamente e si chiudeva in prolungati periodi di mutismo. Per quanto riguarda il mantenimento di rapporti sociali, Adele non ha avuto amicizie al di fuori della sua famiglia: in particolare, aveva stabilito rapporti confidenziali con due cognate, sorelle del marito, contatti che però, in seguito al trasferimento a Torino, si sono fatti sempre più radi, fino a scomparire. Nel 1990, dopo la nascita del nipote, Adele si trasferisce in modo stabile a Torino presso la casa della figlia alla quale sovente rinfaccia di averla costretta a fuggire dal suo paese. Infatti, Adele non ama vivere a Torino perché sente la mancanza della sua terra di origine, in particolar modo della casa costruita assieme al marito che «…era di tutti», rivelandone il valore di prezioso luogo che contiene affetti e ricordi.

La figlia racconta di aver notato mutamenti nel carattere e nei comportamenti della madre già quattro anni fa, quando si era accorta che Adele, che era stata sempre molto puntigliosa, non «capiva più il valore dei soldi…». In breve tempo Adele si rivela deficitaria anche nel compiere le attività più semplici, come il prendersi cura della casa. Inoltre, il carattere della donna sembra trasformarsi in modo improvviso: aggressività e insensibilità prendono il posto della gentilezza e dolcezza. I deficit mnesici si rivelano in tutta la loro dirompenza e Adele reagisce con rabbia: frantuma tutto ciò che le capita sotto tiro. Allarmata da tale comportamento, la figlia sottopone la situazione all’attenzione del medico di famiglia, il quale, però, riferisce che ciò potrebbe far parte del normale percorso d’invecchiamento.

Nel 2000 i sintomi peggiorano e la figlia decide di approfondire la situazione: nel 2001 viene diagnosticata la malattia di Alzheimer. Attualmente sembra che Adele sia più calma: sta volentieri a casa della figlia ed è molto legata al nipotino che adesso ha circa 11 anni. Adele si mostra eccessivamente protettiva nei confronti del bambino, tanto da sentirsi responsabile per qualsiasi cosa gli accada, anche solo per una semplice caduta dalle scale di casa.

Adele si è sempre posta in modo gentile nei confronti delle altre persone, tuttavia è stato possibile notare come dal suo atteggiamento trapelasse una certa diffidenza nei confronti degli altri pazienti e del personale.

Non differentemente dagli altri utenti, Adele si lamenta spesso del deficit mnesico, dimostrando di sentirsi impotente rispetto a questo. L’impressione che si è avuta è che Adele si sia rassegnata a questa situazione, anche se cerca di negarlo: apparentemente appare aperta al dialogo, può sembrare che stia ascoltando e partecipando, ma in realtà tende a isolarsi. Si è ritenuto che gli aspetti su cui poter investire per instaurare una relazione, e un successivo percorso terapeutico, potessero riguardare il mondo dei suoi affetti, che è poi quello delle sue relazioni: Adele si rasserena se ha qualcuno con cui parlare del nipotino, della figlia, della sua casa in Lombardia. All’interno dei laboratori autobiografici si è tentato di lavorare sulla convinzione di essere una buona nonna, un importante punto di riferimento per il nipote, che necessita di quell’amore e di quelle attenzioni che solo una nonna sa dare. In tal senso, Adele, che prima era schiva e non parlava molto del nipotino, ha iniziato a elaborare tale tematica: se nel primo periodo di svolgimento dei laboratori tendeva a rivolgersi quasi sempre verso chi conduceva il gruppo, in un momento successivo, quando i laboratori hanno iniziato a contenere le relazioni nate al suo interno, Adele ha cominciato a parlare del nipotino anche con gli altri membri del gruppo e, talvolta, è stata lei stessa a dar vita al discorso in modo autonomo. È probabile che l’aver attinto al mondo affettivo, l’aver valorizzato la relazione col nipote, abbia prodotto un aumento dell’autostima. Il nipote, immagine di salute, di vita e di speranza, ha rafforzato in lei la fiducia negli affetti, nella possibilità di nutrire ancora la sua famiglia con il suo amore. In tal modo Adele ha riunito le tracce disperse della sua identità e ha trovato un nuovo modo per star bene. I laboratori, inoltre, hanno costituito dei momenti di relazione davvero importanti per Adele che non ha amicizie sulle quali contare: il fatto di potersi sperimentare come persona valida (perché parla e discute) e in grado di stabilire legami (da quando dialoga con gli altri questi la cercano anche al di fuori dei laboratori) ha contribuito a rassere­narla.

 

Una proposta di lavoro

In conclusione è possibile affermare che il lavoro effettuato nella ricerca-intervento, in particolar modo l’attuazione dei laboratori autobiografici, ha individuato un percorso in grado di avvicinarsi ai vissuti del soggetto demente e di aiutare quest’ultimo a elaborare, rendendolo parte attiva del processo, i sentimenti di perdita e di sconfitta.

In seguito allo svolgimento dei laboratori, è stato rilevato come i soggetti abbiano in un certo qual modo mutato atteggiamenti sia rispetto a se stessi sia riguardo ai rapporti con le altre persone presenti nel centro.

Tutti gli individui che hanno preso parte alla ricerca hanno mostrato un aumento dell’autostima, conseguente all’acquisizione di una nuova consapevolezza: la malattia non ha rubato la dignità ad alcuno di loro.

I benefici ottenuti a livello affettivo sono risultati significativi: buon umore; desiderio di svolgere le attività ricreative proposte dal centro; desiderio di mantenere i legami instaurati all’interno dei laboratori e motivazione a crearne di nuovi all’interno della struttura. A essi si sono associati un incremento dell’orientamento temporale, spaziale, personale e familiare.

È necessario continuare a lavorare in questa direzione per sostenere i miglioramenti e per nutrire la domanda di relazione che trova, adesso, una forma di espressione alternativa al sintomo.

Gli incoraggianti risultati ottenuti sono attribuibili all’azione congiunta dei laboratori autobiografici e del modello assistenziale che opera all’interno del centro diurno: non un ospedale ma un luogo dall’aspetto familiare in cui lo stretto contatto tra operatori e malato e tra questo e gli altri ospiti realizza un nuovo e rilevante legame sociale. In un tale ambiente, accogliente e rassicurante, è possibile trovare uno spazio in cui al senso di solitudine e incomunicabilità che si radica nella persona ammalata, e in coloro che le stanno intorno, si sostituisce la speranza di continuare a vivere.

Possiamo affermare che se il sintomo segna la frammentazione di un’identità, la parola e l’ascolto le assegnano continuità.

Si ringraziano il Dott. Andreis, il Dott. Landra, il Dott. Cornaglia e la D.ssa Saracco per la loro disponibilità.

 

Riferimenti bibliografici

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* Psicologa, ha svolto uno stage formativo presso il centro diurno Aurora per la stesura della tesi di laurea.

** Psicologa, psicoterapeuta, consulente presso il centro diurno Aurora, si occupa delle attività di sostegno e formazione rivolte ai familiari e collabora con l’équipe alla stesura dei progetti riabilitativi e risocializzanti.

(1) Su Prospettive assistenziali sono stati pubblicati i seguenti articoli in merito ai centri diurni per i malati di Alzheimer: laura Martelli, “Centri sanitari diurni per malati di Alzheimer e sindromi correlate”, n. 101, 1993; “Deliberato il primo centro diurno sanitario per i malati di Alzheimer”, n. 106, 1994; Pietro Landra, “Prime esperienze del centro diurno per malati di Alzheimer”, n. 118, 1997; Anna Maria Gallo, “I centri diurni sanitari per i malati di Alzheimer: un’altra conquista del volontariato dei diritti”, n. 127, 1999; “Proposta di legge regionale di iniziativa popolare: ‘Interventi prioritari per i minori in difficoltà, i soggetti con handicap, i malati di Alzheimer, gli anziani cronici non autosufficienti’”, n. 130, 2000; “Proposta di legge di iniziativa popolare per la Regione Lombardia: ‘Riordino degli interventi sanitari a favore degli anziani malati cronici non autosufficienti e di tutte le persone affette da patologie ad alto rischio invalidante’” e “Petizione popolare indirizzata alla Regione Piemonte”, n. 133, 2001; “Piattaforma presentata alla Regione Piemonte dal Csa”, n. 135, 2001; “Piattaforma presentata dal Csa al Comune di Torino ”, n. 138, 2002.

(2) La ricerca ha costituito argomento di discussione della tesi in psicologia dal titolo “Nessun cambiamento? Problemi riabilitativi nella demenza di Alzheimer” della d.ssa Virginia Caprino.

 

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