Prospettive assistenziali, n. 147, luglio - settembre 2004
Maria Teresa Pedrocco
Biancardi *
Il tema del ricongiungimento tra
parenti o amici separati da lungo tempo, ha costituito il leit-motiv vincente di numerose programmazioni televisive, per
quasi un decennio. Poi la cosa si è
sviluppata, alla ricerca di sempre nuove e più intense emozioni con le quali
assicurarsi l’audience. Ultimamente, è
diventato il bene-rifugio di più o meno autentici reality-show e i
ricongiungimenti sono debordati fino ad
invadere campi sempre più delicati della privacy: a corto di argomenti
strappalacrime, nella necessità di elevare continuamente la soglia dell’impatto
suggestivo garantito dal mezzo televisivo, a garanzia di sempre più golose
fette di mercato pubblicitario, la programmazione è approdata al tema della
ricerca delle origini per i figli adottati, e del tentativo di ricongiungimento
di questi soggetti con i genitori biologici. Qualche denuncia, qualche richiamo
dell’authority, qualche messaggio di non totale
gradimento non hanno finora bloccato completamente
questa tendenza, che sta diventando davvero preoccupante.
L’istituto dell’adozione, che sembrava
aver segnato, pur non senza contraddizioni e dopo lungaggini burocratiche
infinite, qualche passo avanti sulla linea delle garanzie personali e
istituzionali dei soggetti coinvolti (maggiori garanzie di trasparenza su tutto
il procedimento, valutazione più consapevole dell’idoneità degli aspiranti
genitori, formazione più puntuale degli operatori impegnati nel settore, tutela
giuridica dei protagonisti...) è rimasto nel mirino. Si tende infatti non
solo a mettere in discussione la radicalità dei legami genitoriali
e filiali che esso è in grado di assicurare,
ma, più ampiamente e generalmente, l’insidia è sulla forza e la
“naturalità” dei legami affettivi, svalutati rispetto al potere, considerato
vincolante, del legame di sangue.
Su questo filone, le iniziative si moltiplicano: non ultima, la
costituzione di un’associazione, il cui sito siamo
andati a visitare, per cercare di capire.
Ma prima dell’incontro con i messaggi che
l’associazione raccoglie e diffonde mediante internet, è opportuno fare qualche
premessa. Il tema infatti non ha solo implicazioni
personali, non attiene solo alla sfera emotiva e privatistica,
ma coinvolge lo statuto stesso dell’essere umano, che non è solo biologico ma
relazionale e significante, e, di conseguenza, coinvolge la cultura.
Prima
premessa: infanzia e ricordi
Non c’è psicologo o psicoterapeuta che, indifferentemente dalla scuola di appartenenza, non abbia raccolto nella propria esperienza
clinica con gli adolescenti (anagrafici o psicologici) numerose espressioni di
rifiuto, di dubbio, di opposizione, di recriminazione rispetto alla propria
esperienza di figlio.
L’esperienza, infatti, di essere figlio, biologico
o adottivo non importa, benché fondamentale e decisiva per lo sviluppo della
personalità e determinante, nella sua qualità, la qualità stessa dello sviluppo
è comunque attraversata da episodi che possono aver lasciato impronte, fantasmi,
ricordi negativi nella memoria. E non può essere diversamente: il processo
della genitorialità adeguata si basa infatti su due azioni educative altrettanto fondamentali e
solo apparentemente opposte:
– la spinta a sperimentare, provare, conoscere,
imparare, apprendere, diventare curiosi, relazionarsi, socializzare,
esprimersi; è il clima affettivo familiare, infatti, che accende l’interesse
del bambino alla vita e lo sostiene nella gravosa e sempre sottovalutata fatica
di crescere, non solo dal punto di vista fisiologico ma complessivo di tutte le
facoltà umane;
– il contenimento delle energie e del potenziale che il bambino sprigiona e
che sono inevitabilmente acerbe, confuse, scarsamente differenziate,
perché il soggetto in sviluppo possa orientarle e organizzarle in termini per
lui favorevoli, possa sperimentarle senza i danni che l’inesperienza e l’entusiasmo possono
provocare.
Sia l’uno che l’altro intervento provocano nel
bambino impressioni negative; nel primo caso perché può sentirsi costretto a
sperimentare novità che lo spaventano, nel secondo caso perché può erroneamente
interpretare le regole poste dagli adulti al suo ingenuo e sprovveduto
entusiasmo, come espressioni di oppositività e ostilità.
Questi interventi educativi, che tra l’altro inevitabilmente l’adulto non
può esprimere sempre con il necessario equilibrio perché sono comunque emotivamente connotati, possono lasciare tracce che
emergono poi nell’età adolescenziale, quando tutta l’esperienza infantile viene
passata al vaglio di una nuova e più personalizzata e critica consapevolezza
individuale, ed essere lette in modo non positivo, come espressione di
trascuratezza o di aggressività, di eccessivo controllo o di esagerata severità
dei genitori.
Seconda
premessa: quale antropologia?
Per valutare un problema come quello
che qui si intende trattare, è indispensabile
stabilire quali elementi sono decisivi per la costruzione della personalità,
individuale e sociale, per l’elaborazione dell’immagine di sé, per il benessere
non solo sanitario ma psicofisico e sociale, su quali elementi la persona
costruisce la propria storia e la propria percezione di sé e di sé rispetto
agli altri.
Ridurre la qualità umana alla
prevalenza totalizzante del dato biologico significa negare o minimizzare il
mondo psicologico, la sua plasmabilità, la potenza
creatrice delle relazioni, attraverso le quali il soggetto crea
rappresentazioni, modelli operativi, lettura di sé e del mondo.
Questo problema antropologico vale per
tutti, ma assume una delicatezza particolare in tema di adozione.
Perché in questi casi capire, valutare, considerare quale sia
il rapporto tra fattori biologici e fattori psico-relazionali
porta a determinare se l’identità che si è costruita un soggetto nato
biologicamente da una coppia che poi non ha potuto o voluto svilupparne le doti
umane, accompagnandolo nell’esperienza evolutiva, ed ha lasciato ad altri
questo compito, sia un’identità falsa o autentica, completa o deficitaria, premiata
o punita dalla sorte.
Certo: se a quel soggetto fosse stato
fatto credere di essere il figlio biologico dei suoi genitori adottivi, si
dovrebbe parlare di una vittima di un inganno. Sarebbe cresciuto con
un’identità che non era la sua. Alla rivelazione dell’inganno la sua
personalità avrebbe potuto subire un grave trauma, difficilmente riparabile,
perché sarebbe costretto a farsi carico di ri-costruire, ri-definire,
re-interpretare tutta la sua storia sulla base di
quella rivelazione, rivoluzionando tutto il sistema dei significati che avevano costituito la
piattaforma, il motore e la ragione del suo vivere, che avevano accompagnato e
motivato i suoi pensieri e le sue scelte.
Ma queste cose, per fortuna, in Italia avvengono sempre più
raramente, anche se chi scrive ha un’età sufficiente per aver fatto due
esperienze in proposito.
Ha seguito in terapia per circa due anni una donna
trentacinquenne che aveva scoperto solo due anni prima, alla morte della madre,
di essere figlia adottiva, attraverso il riordino
delle carte trovate. Nel corso della terapia, la signora ha potuto ricostruire
momenti in cui mezze frasi di qualcuno, silenzi improvvisi od occhiate complici
colte al volo, le avevano suscitato impalpabili
sospetti ai quali non aveva saputo, voluto o potuto dar voce.
Ha raccolto, non più di cinque o sei anni fa, la
perplessità di una fresca madre adottiva alla quale un magistrato minorile ad
una sua domanda circa le modalità ed i tempi di informazione
alla figlia della sua situazione adottiva, aveva consigliato di parlargliene
non prima dei sei-sette anni!
Il primo caso si è risolto con una prudente quanto infruttuosa ricerca dei
genitori biologici e con il riconoscimento della autentica
ed esclusiva qualità genitoriale degli adottivi,
quindi con un’assoluta pacificazione.
Il secondo caso si è risolto disattendendo le indicazioni del magistrato e
avviando immediatamente (la bambina aveva quasi due anni) una serie di messaggi
e la presentazione di sistemi di significato nei quali la genitorialità
includeva e normalizzava l’esperienza adottiva. Cinque-sei anni di vuoto, di silenzi, di reticenze sulla
vera situazione della figlia, conclusi con la “rivelazione” avrebbero potuto
creare danni gravissimi alla costruzione dell’identità della bambina.
Così come, nel primo caso, la mancanza di un accompagnamento psicologico
all’elaborazione della informazione traumatica avrebbe
potuto mettere a dura prova per sempre l’equilibrio di quella giovane donna.
Spesso si sente parlare o si legge dell’esperienza adottiva in termini di
differenza, di diversità, di ferita: è importante riflettere sull’impostazione
antropologica sottostante, per capire quale sia il rapporto tra aspetti
biologici e aspetti ambientali-affettivi-relazionali
nel percorso che porta alla costruzione di una personalità matura. Una volta
accertata, attraverso l’elaborazione della mappa genetica, la presenza o meno
di determinati fattori
di rischio sanitario, tutto il bagaglio di apprendimenti, di
esperienze, di memorie si costruisce nell’ambiente che, accogliendo, accende la
vita psichica, affettiva e sociale della persona, attraverso quegli
atteggiamenti di disponibilità e quella competenza genitoriale
che specularmente costruiscono l’identità e la
percezione di essere figlio.
Terza
premessa: quale cultura?
La sociologia e la psicologia contemporanee sono concordi nell’individuare
tra le caratteristiche peculiari del nostro tempo, un prolungamento eccessivo
dell’età adolescenziale ben oltre i suoi confini anagrafici, prolungamento che
tiene per un numero molto alto di anni il soggetto
irrisolto sul piano della lettura della propria esperienza infantile e della
qualità del rapporto con le figure genitoriali.
Il problema di emergere dall’infanzia, facendo pace con emozioni-impressioni-pensieri
che hanno caratterizzato quel periodo, è compito
fondamentale dell’età adolescenziale, e rischia oggi, per la particolare
connotazione della società moderna, di essere amplificato sia dal punto di
vista emotivo che temporale, e non risolto mai. «Le società moderne – afferma R. Castel – sono costruite sul terreno dell’insicurezza
perché sono società di individui che non riescono a trovare una garanzia di
protezione né in se stessi né nell’immediato entourage». Il turbamento
dell’individuo che si scopre senza garanzie diventa turbamento sociale,
contribuisce a creare un clima che può favorire e rinforzare, anziché attennuare e dissolvere, le insicurezze individuali. La
crisi tende a diventare una «condizione permanente» perché «per
i giovani di oggi il mondo è pericoloso. La stampa, i vicini, la televisione ne
parlano di continuo, insistendo sulla necessità di
scappare per sottrarsi al disastro generale» (Benasayag,
Schmit, 2004, p. 32).
In queste circolarità negative possono innestarsi e trovare più facilmente
spazio e incoraggiamento i vissuti di soggetti il cui percorso esistenziale ha
attraversato esperienze particolari, come può essere il percorso di quegli
adolescenti e di quegli adulti i cui genitori
biologici non hanno potuto prendersene cura.
Così, l’essere stati adottati, anziché rappresentare una tappa positiva e vincente della propria vita, può diventare
l’alibi che giustifica le passioni tristi.
Ma molta parte dell’inquietudine degli autori dei messaggi che ci
apprestiamo ad esaminare è condivisa con la maggior
parte degli adulti di oggi, con la differenza che gli adulti che da bambini
sono stati adottati hanno la possibilità di individuare in quell’evento
la causalità unica e scatenante delle loro inquietudini.
La ricerca delle origini: trappola
emotiva od opportunità?
Sulla base delle premesse richiamate sopra, cioè di valutazioni per quanto possibile oggettive di una
situazione socio-culturale generale, precedente il problema della ricerca delle
origini per i figli adottivi e per i genitori biologici che non si sono presi
cura dei figli, si possono allora analizzare i temi, i toni ed i contenuti di
alcune confidenze affidate al sito della Associazione “Faegn,
figli adottivi e genitori naturali”, fondata nel 2000 e impegnata in:
– offrire assistenza, aiuto morale e
materiale informativo alle persone nella condizione, a loro conosciuta, di
figli adottivi. Offrire assistenza, aiuto morale e materiale informativo ai
genitori di nascita che abbiano dato in adozione un minore. Realizzare
incontri e dibattiti volti alla sensibilizzazione
dell’opinione pubblica sul tema dell’abbandono dei minori e dell’adozione in
genere, in particolare per quel che riguarda i diritti e i doveri dei figli
adottivi e dei genitori di nascita in relazione all’attuale contesto sociale e
organizzativo. Favorire la cooperazione con altri soggetti ed
enti interessati a perseguire gli obiettivi di cui sopra;
– sensibilizzazione sociale alla esigenza
di conoscere le proprie origini e conseguenti azioni per chiedere la modifica
della legge attuale.
L’impegno assunto e dichiarato dall’associazione richiede
qualche osservazione immediata.
1. Perché i figli adottivi avrebbero bisogno di assistenza e aiuto morale e materiale? Ne hanno avuto bisogno prima di essere adottati, quando si sono trovati in
situazione di privazione di assistenza morale e materiale da parte dei loro
procreatori, ma dal momento che lo Stato e la società civile, attraverso
strumenti opportuni, sia di tipo giuridico che sociale, hanno accertato questa situazione e sono
intervenuti a ripararla, assicurando loro tutte le garanzie evolutive della
famiglia, non sono cittadini randagi, dispersi, minorati, ma godono di tutti i
privilegi assicurati ad ogni essere umano dalla propria famiglia. Poi, come per
l’universalità delle famiglie e delle situazioni, vi potranno essere esperienze
fallimentari, ma anche per queste lo Stato italiano dispone per fortuna di organismi idonei a prevenire, attenuare o riparare il
disagio. In genere, comunque, i cittadini che sono
stati a suo tempo adottati non hanno bisogno di essere assistiti. Questo è
tanto vero, che alcuni di loro si sono costituiti in associazione non per
compiangersi o rivendicare, ma per porsi nella società come promotori di
un’esperienza dalla quale hanno tratto vantaggio.
2. I genitori di nascita non danno in adozione un minore:
decidono o sono costretti a non prendersene cura, lo dichiarano, e poi saranno
i servizi sociali e giudiziari a farsi carico della loro adozione. Questo nella
quasi totalità dei casi, se si escludono loschi traffici di compra-vendita, che
purtroppo ancora emergono talvolta e vengono
regolarmente denunciati dalle forze dell’ordine.
3. Quale scopo avrebbe l’attività di cui intende farsi carico questa associazione, realizzando una
sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema dell’adottabilità
dei minori? Aiutare le gestanti e madri in difficoltà a non abbandonare i loro
figli nei cassonetti? A tenerli comunque con sé? Certo, nella cultura comune si pensa che un bambino debba
sempre essere legalmente riconosciuto da chi lo ha messo al mondo, come se
fosse automatico il passaggio dal dato biologico a quello giuridico di
genitori. Talvolta, purtroppo, il bambino paga a caro prezzo tale pregiudizio, in quanto, come tutti sappiamo, un riconoscimento legale
forzato comporta l’esposizione al grave rischio dell’abbandono tardivo. Alcuni
credono ancora che al neonato siano sufficienti una buona ed equilibrata
alimentazione ed una corretta igiene personale per garantire il suo sviluppo; e
che, pertanto, potrebbe crescere e svilupparsi bene anche in un istituto quando
i genitori sono incapaci. Niente di più sbagliato. Numerosi studi e ricerche
compiuti negli ultimi cinquanta anni da esperti di varie discipline – pediatri,
psicologi, neuropsichiatri infantili, ecc. – hanno
evidenziato i deleteri effetti della carenza di cure
familiari che colpiscono i bambini sin dalla più tenera età. Dunque
la scelta di non riconoscere un bambino come figlio, nella consapevolezza di
non poterlo crescere, può costituire per la genitrice una forma di
responsabilità verso la nuova vita e può avere per il bambino una sua
positività per garantirgli il diritto a crescere in una propria diversa
famiglia.
Significativa al riguardo la testimonianza di Piero, figlio adottivo
ormai adulto che nel libro Storie di
figli adottivi ha sostenuto: «Sono
stato adottato che ero ancora un neonato. Credo che chi mi ha partorito fosse una donna sposata. Non mi ha riconosciuto alla nascita
e per questo motivo sono stato adottato subito. Per me è stata una fortuna, non
ho subito tutti i traumi di chi è adottato più
grande. Io sono quindi cresciuto da
sempre con i miei genitori. Di questo sono grato a chi mi ha generato, sono
contento che abbia saputo capire fin dall’inizio che non avrebbe potuto
allevarmi e che abbia lascito che il tribunale scegliesse per me la famiglia
giusta. Forse mi ha risparmiato tanta sofferenza».
La testimonianza di Piero è significativa.
Il non riconoscimento non viene vissuto in questo caso
come un gesto condannabile, ma come un atto di responsabilità. La donna che lo
ha lasciato, lo ha fatto nella consapevolezza di non essere in grado di
allevarlo, gli ha permesso in questo modo di crescere come tutti gli altri
bambini, con una famiglia che lo sapesse amare ed
accudire. Questo è il senso delle parole di Piero quando
precisa ancora: «Quello che penso spesso
è che avrebbe potuto abortire e non l’ha fatto. Ha
preferito mettermi al mondo, darmi la vita e di questo
gliene sono grato. Sarà stato per lei una scelta difficile, ma ha permesso che altri diventassero i miei genitori. Per me
questo è un atto d’amore, non un atto di abbandono».
4. Alla sensibilizzazione
dell’opinione pubblica sul tema dell’adozione in genere, provvedono con sempre
maggiore impegno e puntuale competenza i servizi territoriali, attraverso
l’ordinamento sociale regionale. Non in tutte le regioni con la stessa
intensità, ma i passi compiuti in questi anni sono stati numerosi.
5. Per quanto riguarda i diritti e doveri dei figli
adottivi, non risulta che siano diversi da quelli dei
figli biologici, mentre per i genitori di nascita è difficile pensare che
esistano altri diritti e doveri diversi da quelli che sono seguiti alla loro
decisione di fare in modo che altri si prendano cura del figlio, decisione che
può essere stata sofferta, obbligata, spinta da un bisogno di autodifesa, ma
che ha comunque cambiato per sempre il percorso esistenziale di un essere umano
che deve essere rispettato e protetto.
6. Da ultimo, la pretesa di sensibilizzare socialmente alla esigenza di conoscere le proprie origini, rischia di
evidenziare come categoria a parte, come minoranza minorata, cittadini che
invece, grazie alla legge e alla complessiva disponibilità genitoriale
delle coppie italiane, dopo un breve momento neonatale
di precarietà, hanno potuto a tutti gli effetti mescolarsi e vivere
nell’assoluta naturalità di una
famiglia, che appartiene a loro e alla quale appartengono a tutti gli
effetti.
In conclusione, non si vede quali opportunità possano costituire per i cittadini che sono stati adottati e
per i genitori che non hanno potuto farsi carico dei figli biologici, gli scopi
che questa associazione dichiara di voler perseguire.
Navigando
fra i messaggi
Per cercare di capire meglio,
sono stati presi in esame 31 messaggi, inviati nell’arco di 19 mesi, precisamente dall’11 aprile
2002 all’11 novembre 2003.
Le caratteristiche degli
invianti:
– non tutti hanno dichiarato la
loro età. Tra quelli che l’hanno dichiarata, alcuni hanno scritto più di un
messaggio, perciò complessivamente si conosce l’età di soli 13 corrispondenti, di età compresa tra i 26 e i 55 anni, con prevalenza di ultraquarantenni. Uno solo ha
meno di 30 anni;
– il sesso è prevalentemente
femminile: solo quattro i maschi, ma uno di questi è voce fuori
dal coro, in quanto padre adottivo che vuol capire cosa possa
significare per suo figlio questa ricerca delle origini;
– la professione non è mai
indicata. In qualche caso si parla genericamente di una carriera brillante o affermata, di successo;
– lo stato civile è indicato solo
in alcuni casi: Pierpippo ha una bella famiglia e tre figli; Yur642 è felicemente sposato e ha due figli; Debora è sposata con un figlio; Pat ha due figlie di 5 e 2 anni; Libra ha figli e un marito
che è all’oscuro della sua corrispondenza online;
– numerosi corrispondenti (Pino, Jeppac, Debora, Capricorn, Edipo
74) scrivono più volte, rispondono ad altri corrispondenti, danno il benvenuto
ad una new entry,
qualcuno con tale entusiasmo da far sospettare che sia
un pierre dell’associazione.
Complessivamente, le persone che scrivono sembrano
mettere tra parentesi, sottovalutare, trascurare, dimenticare la loro vita
reale (lavoro, famiglia, affetti, relazioni sociali), la loro vita quotidiana e
concentrarsi su un unico aspetto che riguarda il passato, un passato
spesso riferito o immaginato, perché l’adozione è avvenuta nella primissima
infanzia.
L’analisi dei messaggi ha poi riguardato i contenuti e le
modalità espressive con cui sono stati trasmessi. Tutti
hanno intrapreso la ricerca o anche solo partecipano alla corrispondenza
all’insaputa dei familiari, specie dei genitori adottivi (Giulio 78: «Potreste immaginarlo che dispiacere sarebbe per loro sapere che io stia provando a cercare mia
“madre”»), ma anche degli altri congiunti.
Le storie raccontate si possono
distinguere secondo tre linee contenutistiche:
– le voci fuori
dal coro, complessivamente quattro (Emilio e Loretta, rispettivamente
padre e madre adottivi. Pat, che dopo un periodo di
travagliata quanto inutile ricerca, ha imparato ad «apprezzare ciò che le è stato donato»; Belgianwoman2 in un italiano un
po’ incerto esprime idee un po’ confuse,
che tuttavia esortano a «superare il
tempo delle lamentele» e pongono ai corrispondenti il problema dei «risultati e dei reali vantaggi dei
cosiddetti ritrovamenti» e invita a chiedersi come mai «in questi tre anni non si è fatto vivo
neanche un genitore naturale»);
– le persone
arrabbiate, divorate dal rancore, concentrate sui veri o presunti torti
ricevuti dalla madre biologica o dai genitori adottivi. Molte di queste persone sono
state adottate in età già avanzata (7 anni, 11 anni) o
hanno scoperto di essere adottate con molto ritardo (20 anni, 13 anni). Qualcuno
di questi sembra seguire lo stereotipo del povero bambino adottato da una
coppia di genitori crudeli, capaci solo di sfruttare e maltrattare, sulla
falsariga dei modelli televisivi, il cui potente impatto emotivo può essere
stato determinante per riattivare inquietudini e
vissuti antichi, non completamente elaborati;
– i nostalgici, un po’ romantici,
legati vitalmente ai genitori adottivi, dei quali si
sentono assolutamente figli, per i quali la ricerca delle origini
non ha connotazioni maniacali, se mai regressive (Giulio 78: «Il mio desiderio di dare un volto reale a una immagine fantastica… andare spesso al mare e
immergermi in quelle acque, proprio come quando il liquido amniotico ricopriva
il mio corpo e mi sentivo protetto…») che si dicono spinti più da curiosità
che da sensi di colpa (!?) come capita invece paradossalmente a Lotuntununsemeteca (che “ammette” la sua “colpa”: «Sono stata
adottata») o come Debora (che,
adottata a due mesi, pretenderebbe di «conoscere
il suo passato»).
Qualche
considerazione conclusiva
Un dato che sorprende è la fascia di età
della maggior parte dei corrispondenti. Tra l’altro, proprio i più anziani
sembrano i più arrabbiati e pervicaci: «Ho 48 anni, ma in realtà ne ho 13, l’età in
cui ho saputo di essere stata adottata…» afferma Lotuntununsemeteca;
e Concetta, che ha 46 anni, dichiara di essere ossessionata da 28 anni dal
bisogno di ritrovare la madre biologica.
Se da un lato questo dato sorprende, in quanto si
potrebbe pensare che le vicende della vita reale coinvolgano le persone in
una quotidianità concreta e impegnativa, tale da aiutarle a superare le spinte
regressive sottese a queste ostinate quanto infruttuose ricerche, dall’altro la
cosa può trovare giustificazione oggettiva proprio nell’età avanzata di questi
soggetti, la cui vicenda adottiva si è svolta in un periodo in cui le procedure
sia di valutazione dell’idoneità genitoriale, sia di
abbinamento genitori-figli, sia di preparazione delle coppie adottive erano
ancora incerte, grossolane, approssimative. Di qui anche le informazioni
tardive, e quindi traumatiche, e anche probabilmente l’inadeguatezza di qualche
coppia, che giustificherebbe alcune accuse di maltrattamento e di freddezza.
È facile intuire che dietro a tanta sofferenza, a queste
infruttuose e un po’ ossessive ricerche segrete,
che si assommano al segreto delle origini che si
vorrebbe rivelato, vi possono essere stati abbinamenti imprudenti,
accompagnamenti mancati, genitori adottivi lasciati a se stessi. Ma ora questo accade sempre più raramente. Ora ogni mamma e
papà adottivo ha chi può aiutarlo, se non è in grado di farlo da solo, a
trovare le parole per consolare il suo piccolo figlio della perdita e trasformarla in accoglienza, come si fa per le cose
preziose, che si teme di non poter custodire bene. Incoraggiare esternazioni di
percorsi ormai consumati può solo rendere più difficile il futuro dei bambini di oggi e delle coppie che si stanno disponendo oggi, con
impegno, a diventare genitori adottivi.
Ma, leggendo i messaggi, si percepisce anche una pervasiva situazione di quella “immaturità” che Cataluccio (2004)
definisce «la malattia del nostro tempo», salvaguardando così gli adottati dal
rischio di etichettarsi in categoria, per aprirsi a condividere con tutti i
coevi la tendenza alla “bambinizzazione” che caratterizza la cultura
contemporanea. Nella ricerca delle origini si può individuare, quindi, solo
un’accentuazione, una sottolineatura o un’attribuzione specifica di causa, a quell’inquietudine che alimenta le “passioni tristi” e che l’immaturità consente di evitare. Una prova
di questa immaturità emerge tra l’altro anche
dall’ostinazione di certe ricerche, i cui fallimenti, ripetuti negli anni,
portano sempre più i protagonisti ad allontanarsi dalla realistica
constatazione che in molti casi si tratta di realtà non modificabili. L’unica
persona che è riuscita a rintracciare le persone delle proprie origini
biologiche, è Michela, che ha trovato la madre al
cimitero e tutto un paese, compresi i parenti più stretti come la nonna e il
fratello, ostili e decisamente rifiutanti e crudelmente colpevolizzanti: «Io rappresento per loro solo una fonte di
disgrazia e vergogna».
Ciò che preoccupa, comunque, non
sono tanto i singoli messaggi, quanto l’intenzione di raccoglierli per farne
una “forza sociale” che di fatto diventa invece, per ciascun protagonista, una
fonte di grave e permanente debolezza. Tutto
questo sostenuto dalla cultura delle passioni tristi e dell’immaturità
generale, ma soprattutto dalla perversa tendenza attuale di raccogliere e dare
visibilità sociale a situazioni intime, personali, riservate: le situazioni familiari, genitoriali
e filiali che, adottive o biologiche che siano, comportano sempre un tasso di
turbamento che è irrispettoso e crudele sfruttare a fini demagogici.
Leggendo i messaggi, sembra di entrare
in un mondo a parte, in una sorta di reality show in
cui l’interazione è finalizzata, salvo qualche raro caso, alla conferma e al
rinforzo e non al confronto dialettico. E il lettore, nella posizione di “grande
fratello” guardone, viene travolto dal susseguirsi ripetitivo di ondate
emotive, tra l’altro con quasi nulli e non fortunati esiti realistici.
Certo, questo dell’Associazione Faegn non è l’unico sito in cui si assiste a questi “giochi
del cuore”. Ma qui la posta in gioco è particolarmente delicata e il capitale
che si tratta particolarmente decisivo per il destino di troppi bambini e
l’esito genitoriale di troppi nuclei familiari, aperti alla vita con generosità responsabile. Tra
l’altro, la silenziosa assenza dei genitori biologici dice la delicatezza e la
fragilità di quel settore al quale l’associazione pretende di presentarsi come
promotrice di diritti: dice che i genitori biologici
che hanno rinunciato a prendersi cura dei loro figli vogliono essere lasciati
in pace e che l’insistenza sulla pretestuosa difesa dei loro diritti può solo
far crescere il numero dei bambini abbandonati nei cassonetti o nei cespugli, o
direttamente uccisi alla nascita.
Per quanto riguarda i figli, poi, lo smarrimento di non
avere un passato o di avere un passato problematico o
indicibile diventa attraverso queste iniziative da momentaneo a strutturato, da
individuale a categoriale, da personale a politico. Con
il marchio della vittimizzazione e del risentimento,
aperto a ogni possibile forma di organizzazione
interessata e di sfruttamento.
Riferimenti
biliografici
Castel R. (2004), L’insicurezza
sociale, Einaudi, Torino.
Benasayag M., Schmit G. (2004), L’epoca delle
passioni tristi, Feltrinelli, Milano.
Cataluccio M. (2004), Immaturità, Einaudi,
Torino.
De Rienzo E., Saccoccio C., Tonizzo F., Viarengo G. (1999), Storie di figli adottivi, Utet Libreria, Torino.
* Psicoterapeuta della famiglia, Consulente scientifico
del Centro per la tutela del bambino e la promozione del
benessere familiare (CTB), Marghera
(VE).
www.fondazionepromozionesociale.it