Prospettive assistenziali, n. 147, luglio - settembre 2004
FRANCESCO SANTANERA
Si stanno accentuando le iniziative, favorite dal
richiamo alla “legge del sangue” operato dalla legge 149/2001, che ha
introdotto modifiche, anche molto negative, alla legge
184/1983, rivolte a svalorizzare l’adozione,
trasferendone la connotazione da vera filiazione a modalità di intervento di
natura assistenziale.
L’adozione mite
Sul n. 1/2003 di Minorigiustizia (1) è stata riprodotta la circolare
inviata in data 1° aprile 2003 da Franco Occhiogrosso,
Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, ai responsabili dei servizi
sociali comunali e dei consultori familiari delle Province di Bari e Foggia, nonché all’Assessore ai servizi sociali della Regione
Puglia.
In detta circolare viene
chiesta «la collaborazione necessaria per
dar vita ad una sperimentazione, alla quale i magistrati di questo Tribunale
stanno da qualche tempo riflettendo per verificare le concrete possibilità di
applicazione della cosiddetta adozione mite».
Secondo Franco Occhiogrosso,
l’idea dell’adozione mite è nata a seguito dell’analisi di due dati significativi. In primo luogo da una indagine
svolta dal Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e
l’adolescenza e riferita all’anno 1999, risulta che il 58% dei minori affidati
a scopo educativo non è ritornato nella famiglia di origine (2).
Ne consegue che, in molti casi «l’affidamento familiare temporaneo si
trasforma in un affidamento senza termine». Pertanto, «questi bambini rischiano di avere un futuro molto incerto
quando raggiungeranno il diciottesimo anno, perché la loro famiglia di
origine nella massima parte dei casi continuerà a non essere in grado di
accoglierli (pur mantenendo con loro rapporti personali, sia pure per lo più
sporadici), mentre gli affidatari non saranno più
impegnati in alcun modo ad accoglierli nella loro famiglia».
Secondo il Presidente del Tribunale per
i minorenni di Bari, il secondo elemento da cui è scaturita
l’idea dell’adozione mite è «costituito
dal fatto che esiste una forma di adozione in casi particolari, quella prevista
dall’art. 44, lettera d) della legge 4 maggio 1983 n. 184 che consente
l’adozione di bambini “quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento
preadottivo”».
Nella circolare in oggetto si sostiene che la suddetta condizione si
applicherebbe «sia ai casi di bambini
portatori di difficoltà personali, sia a quelli in cui un bambino abbandonato
si trovi già presso un’altra famiglia, a cui è legato da un rapporto affettivo
solido, tanto che un allontanamento determinerebbe per lui un serio pregiudizio».
L’adozione vera
Definire “mite” la forma di adozione prevista dall’art. 44 della legge 184/1983
significa considerare “crudele” o “severa” (3) la vera adozione regolamentata
dalla stessa legge 184/1983. È, quindi, evidente che il termine “mite”
attribuisce una connotazione negativa all’adozione autentica.
Nella circolare del Presidente del
Tribunale per i minorenni di Bari, l’adozione vera viene
definita “forte” in quanto «interrompe
definitivamente il rapporto giuridico genitori-figli». Al riguardo occorre
precisare che, a nostro avviso, non è corretta l’affermazione di cui sopra.
Infatti, in base alle fondamentali norme giuridiche vigenti, i procreatori
possono assumere la qualificazione di genitori solamente
quando esercitano nei confronti dei loro nati i doveri concernenti
l’allevamento, l’educazione e l’istruzione (4), lo proteggono e partecipano
direttamente alla sua crescita e formazione. Solo agendo in questo modo il loro
nato diventa un loro figlio.
Adozione e filiazione
Fin dall’inizio della loro attività, l’Associazione nazionale famiglie
adottive e affidatarie (costituita nel 1962), l’Unione per la lotta contro
l’emarginazione sociale (nata nel 1965) e Prospettive
assistenziali (l’inizio della pubblicazione risale
al 1968) hanno sempre sostenuto che essere adottati significa diventare a tutti
gli effetti (giuridici, etici, psicologici, formativi, sociali, ecc.) figli di
coloro che non lo hanno messo al mondo ma che lo hanno accolto, amato e
cresciuto.
Secondo il dotto giurista-moralista di Civiltà
cattolica, il gesuita Padre Salvatore Lener,
l’adozione di un bambino è equiparabile ad un innesto. Se
si procede, ad esempio, all’innesto di un pesco su un susino o su un mandorlo,
tutti i frutti, belli o brutti, buoni o cattivi, sono sempre e solo pesche,
allo stesso modo di quando le radici sono di pesco.
Dunque, mentre la base biologica dei figli adottivi è fornita da coloro che li
hanno generati, la loro personalità, i loro sentimenti, le loro concezioni
etiche e sociali sono il frutto dei rapporti affettivi stabiliti con coloro che
si sono fatti carico della loro vita e della loro formazione.
A ben vedere, superando concezioni antiquate ma ancora presenti nella
nostra cultura, soprattutto quella dei mezzi di comunicazione di massa, il
rapporto tra i genitori e figli influisce notevolmente
sulla personalità degli stessi genitori per cui si può affermare che le
relazioni fra genitori (biologici o adottivi) sono reciprocamente formative.
Com’è ovvio, i rapporti formativi concernono altresì i congiunti
specialmente quelli più a diretto contatto con il minore, nonché
l’ambiente (vicinato, scuola, ecc.) che lo circonda nelle varie fasi della sua
crescita.
Per quanto riguarda l’adozione dei fanciulli grandicelli, il compito dei genitori adottivi è assai
complesso in quanto, oltre a provvedere al loro allevamento, educazione e
istruzione, quasi sempre devono intervenire per sanare per quanto possibile le
ferite provocate dal ricovero in istituti e/o dalle carenze patite presso le
rispettive famiglie d’origine.
Il concetto di vera filiazione e autentica maternità e paternità è stato
accolto dal Concilio ecumenico Vaticano II che, nel
decreto sull’apostolato dei laici, fra le varie opere di apostolato
familiare ha indicato al primo posto l’adozione.
Occorre, però, puntualizzare che l’espressione ufficiale «infantes derelictos in figlios adoptare» esprime, diversamente dalla traduzione
italiana («adottare come figli i bambini
abbandonati») non il semplice paragone «come
figli», ma «la risultanza
affettiva di piena filiazione» (5).
Analoghe considerazioni sono state espresse dal Papa Giovanni Paolo II nell’incontro del 5 settembre 2000 con le famiglie adottive promosso
dalle Missionarie della Carità: «Adottare
dei bambini, sentendoli e trattandoli come veri figli, significa riconoscere
che il rapporto tra genitori e figli non si misura solo sui parametri genetici.
L’amore che genera è innanzitutto dono di sé. C’è una
“generazione” che avviene attraverso l’accoglienza, la premura, la dedizione. Il
rapporto che ne scaturisce è così intimo e duraturo, da non essere per nulla
inferiore a quello fondato sull’appartenenza biologica. Quando esso, come
nell’adozione, è anche giuridicamente tutelato, in una famiglia stabilmente
legata dal vincolo matrimoniale, esso assicura al bambino quel clima sereno e quell’affetto, insieme paterno e materno, di cui egli ha bisogno per il suo pieno sviluppo umano. Proprio questo
emerge dalla vostra esperienza. La vostra scelta e il vostro
impegno sono un invito al coraggio e alla generosità per tutta la società,
perché questo dono sia sempre più stimato, favorito e anche legalmente
sostenuto».
Anche da parte di alcuni magistrati viene
riconosciuta l’innovativa concezione dell’adozione sopra esposta. Ad esempio,
il giudice del Tribunale di Milano, Amedeo Santosuosso,
nella sentenza pronunciata il 4 giugno 2002 (6) ha precisato che, a seguito del
«profondo mutamento sociale e giuridico» verificatosi
a partire dalla fine degli anni Sessanta del
Novecento, si è manifestata «una
concezione della filiazione come fatto sociale e affettivo più che naturale».
Infatti, in base alle leggi sull’adozione, in particolare la n. 431 del
1967, si ravvisa che «la filiazione sia attualmente non tanto un fatto biologico riconosciuto dal
diritto», in quanto «per
l’ordinamento italiano il criterio fondamentale per dirimere le questioni
relative ai diritti e agli interessi dei nati non pare, quindi, che possa
essere altro che quello della esistenza di una comunità di affetti e della
esistenza di genitori che si assumano i doveri di mantenimento, di educazione e
di istruzione previsti dalla Costituzione e ribaditi dalla consolidata
giurisprudenza della Corte costituzionale» (7).
“Nato da” e
“figlio di”
Ricordo che il Cardinale Carlo Maria
Martini, nel messaggio inviato agli organizzatori ed ai partecipanti del
convegno “Bambini senza famiglia e adozione” svoltosi a Milano il 15-16 maggio
Come succede sempre per i cambiamenti culturali
importanti, probabilmente ci vorrà ancora molto tempo prima
che diventi patrimonio comune che “nato da” non coincide necessariamente con
“figlio di” e si comprenda appieno la differenza che può sussistere fra “nato da” e “figlio
di” quando il bambino non viene allevato, curato ed educato dai suoi
procreatori ma da altre persone.
Tuttavia, le citazioni dianzi
riportate rappresentano un notevole passo innanzi verso la corretta valutazione
della questione, soprattutto se si considera che la prima legge sull’adozione,
in cui è stato riconosciuto l’interesse prevalente del minore privo di
assistenza materiale e morale da parte dei suoi genitori, è stata varata dal
Parlamento solo nel 1967.
In base alle norme vigenti viene
correttamente stabilito che i procreatori diventano madre e padre solamente se
forniscono ai loro nati le necessarie cure, salvo il caso in cui non siano in
grado di provvedervi per cause di forza maggiore di natura transitoria.
Se le dovute attenzioni non vengono
prestate sul piano morale e materiale, i fanciulli di età inferiore ai 18 anni
sono dichiarati in stato di adottabilità dai
Tribunali per i minorenni.
Va, altresì, precisato che le vigenti disposizioni
consentono alle donne nubili, vedove o coniugate (8) di riconoscere o non riconoscere i loro nati.
Anche in merito alla facoltà del riconoscimento, il
legislatore ha assunto come base il diritto del minore a ricevere le cure di
cui ha bisogno per crescere in modo adeguato. Al riguardo è noto che una delle
peggiori situazioni per i bambini è quella di vivere insieme a genitori che lo
rifiutano (9).
Un errato
presupposto del Tribunale per i minorenni di Bari
Com’è stato rilevato in precedenza, nella citata
circolare del 1° aprile 2003, il Presidente del Tribunale per i minorenni di
Bari afferma che gli affidamenti familiari terminano al compimento del 18° anno
età del minore e che «la loro famiglia di origine nella massima parte dei casi continuerà a non
essere in grado di accoglierli (pur mantenendo con loro rapporti personali, sia
pure per lo più sporadici), mentre gli affidatari non
saranno più impegnati in alcun modo ad accoglierli nella loro famiglia».
Contrariamente a quanto sostiene Franco Occhiogrosso, vi sono esperienze concrete di prolungamento
dell’affidamento oltre il 18° anno di età.
Ad esempio, il Comune di Torino (10) «vista la complessità di talune situazioni di affidamento
e l’impossibilità o l’inopportunità di un rientro presso la famiglia di
origine» prevede «la prosecuzione
dell’affidamento oltre il diciottesimo anno di età, sino al raggiungimento
dell’autonomia, ma non oltre il ventunesimo anno di età dell’affidato».
Inoltre, dal Comune di Torino «sono previsti progetti individualizzati al fine di intraprendere
percorsi di autonomia per quei giovani in affidamento
familiare che hanno raggiunto la maggiore età (…). Destinatari di questi
progetti possono essere quei giovani che, in affidamento familiare al
compimento del diciottesimo anno di età, non possono
rientrare presso la loro famiglia, e per i quali è possibile avviare un
percorso per l’autonomia personale, lavorativa ed abitativa» (11).
Allo scopo, il Comune di Torino eroga agli affidatari un contributo massimo di euro
5.164,57 da utilizzare per il pagamento della cauzione dell’alloggio in cui
andrà ad abitare il giovane, l’acquisto dei mobili e per le altre sue esigenze.
Poiché «tali
progetti devono (…) concludersi non oltre il
compimento del venticinquesimo anno di età del giovane», significa che
l’affidamento può durare fino all’età suddetta dell’affiliato. Anche durante questo periodo il Comune di Torino corrisponde
agli affidatari il contributo economico, i rimborsi
per le spese straordinarie e garantisce la copertura assicurativa (12).
Ricordiamo, inoltre, che «al raggiungimento della maggiore età, per i giovani in affidamento con
handicap riconosciuto, è possibile la prosecuzione dell’affidamento senza
limiti d’età». In questi casi, la competenza passa dal
settore minori del Comune di Torino a quello che interviene nei confronti dei
soggetti colpiti da handicap.
Le suddette iniziative del Comune di Torino (13),
promosse dal Csa - Coordinamento sanità e assistenza
fra i movimenti di base, si fondavano nel 1976 (14) sulle competenze
obbligatorie dei Comuni in materia di assistenza,
sancite dall’articolo 91, lettera h, del regio decreto 383/1934 “Testo unico
delle leggi comunali e provinciali” e sugli articoli 154 e 155, tuttora
vigenti, del regio decreto 773/1931 “Testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza” (15).
Ciò premesso, non è assolutamente vero che non vi siano
obblighi precisi da parte dei Comuni di garantire le occorrenti prestazioni
socio-assistenziali ai giovani in affidamento familiare al compimento del 18°
anno di età.
Da decenni e ancora adesso il Tribunale per i minorenni
di Bari (e gli altri) possono, anzi dovrebbero
intervenire affinché i Comuni rispettino gli obblighi loro attribuiti dalle
leggi vigenti, la cui mancata applicazione è penalmente perseguibile.
Dunque, non vi è la necessità di ricorrere all’adozione,
mite o vera, con lo scopo di assicurare le necessarie prestazioni
socio-assistenziali ai soggetti ultradiciottenni che, al raggiungimento del 18°
anno di età, non sono in grado di vivere
autonomamente, ma che hanno mantenuto con i loro congiunti rapporti personali,
anche se sporadici, in quanto i Comuni sono obbligati ad intervenire.
Le ineludibili condizioni per l’adozione
Come stabilisce in modo perentorio la legge 184/1983,
l’adozione è consentita esclusivamente nei confronti dei minori «di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale
da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di
assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio».
È, quindi, evidente che l’adottabilità
non può e non deve essere dichiarata al di fuori della norma sopra riportata. Giustamente il legislatore, fin dalla legge 431/1967 ha
condizionato l’adottabilità all’accertamento, che i
Tribunali per i minorenni sono tenuti a compiere in modo rigoroso, della
privazione (ovviamente totale) dell’assistenza morale e materiale.
Nel documento “Problemi derivanti dall’approvazione della
legge di adozione speciale e delle modifiche
dell’adozione tradizionale” predisposto subito dopo l’approvazione della legge
431/1967 (16), l’Anfaa aveva precisato la sua posizione in merito alle
condizioni occorrenti per la dichiarazione di adottabilità,
stabilendo che:
«a) la
privazione di assistenza materiale si ha quando viene
a mancare un insieme di prestazioni – fornite direttamente dai genitori o dai
parenti – che assicurino al bambino il soddisfacimento delle sue esigenze di
alimentazione, di abitazione, di abbigliamento, di igiene e gli altri mezzi
necessari al suo normale sviluppo. Esiste pertanto privazione di assistenza materiale quando le prestazioni di cui sopra
sono fornite da enti assistenziali anche se con un contributo parziale dei
genitori o parenti;
«b) la
privazione di assistenza morale si verifica quando
viene a mancare quell’insieme di cure affettive ed
educative – fornite, anche in questo caso, direttamente dai genitori o dai
parenti – che assicurino il normale sviluppo della personalità del bambino ed
il suo inserimento familiare e sociale. Ne deriva quindi, per esempio, che
sporadiche visite o richieste di informazioni non
modificano la situazione di privazione di assistenza morale».
La decisione dell’Anfaa di definire in modo chiaro i
concetti di privazione di assistenza materiale e
morale era dovuta al fatto che già allora vi erano operatori e magistrati che
intendevano utilizzare l’adozione anche nei confronti dei figli di genitori non
in grado di svolgere in modo adeguato la loro funzione educativa.
Inoltre, occorre tener presente che, in base alla vigente
legge 184/1983, mentre il presupposto giuridico dell’adozione è la privazione «di assistenza
morale e materiale», l’affidamento familiare a scopo educativo è consentito
solo nei confronti del «minore
temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo».
Il fuorviante riferimento all’articolo 44, comma d, della legge 184/1983
L’articolo 44 della legge 184/1983 stabilisce che «i minori possono essere adottati anche
quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7» (e cioè anche nei casi in cui i fanciulli non sono stati
dichiarati in stato di adottabilità) nei seguenti
casi:
«a) da
persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da
preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre
e di madre;
«b) dal
coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge;
«c) quando
il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1 della
legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre (17);
«d) quando
vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo».
Orbene, risulta evidente che per
applicare il comma d) occorre accertare l’impossibilità della realizzazione
dell’affidamento preadottivo del minore.
Condizione sine qua non perché
possa essere disposto l’affidamento preadottivo di un minore è la dichiarazione da parte del
Tribunale per i minorenni del suo stato di adottabilità.
Dunque, per la pronuncia dell’adozione di cui
all’articolo 44 della legge 184/1983, mentre non è necessaria la dichiarazione di adottabilità nei casi di cui ai
commi a), b) e c), è evidentemente indispensabile per la fattispecie di cui al
comma d).
A questo proposito, occorre tenere presente che, anche a
seguito dei rilievi fatti dall’Anfaa e da altre organizzazioni, il Parlamento
non ha approvato la norma, introdotta dalla Commissione “Infanzia” del Senato,
in base alla quale veniva concessa la possibilità di
adozione nei casi particolari alle «persone
affidatarie quando siano scaduti i termini» allora ipotizzati per
l’affidamento familiare: la durata non poteva superare i 24 mesi, prorogabile
una volta sola per altri 12 mesi (art. 4, comma 4 del testo unificato proposto
dal Senato per la riforma dell’adozione e dell’affido dal Senatore Calligaro in data 15 luglio 1998).
Occorre, quindi, valutare attentamente l’affermazione di
Franco Occhiogrosso, secondo cui l’espressione della legge «quando vi sia la constatata impossibilità di
affidamento preadottivo» può essere intesa «come riferibile sia ai casi di bambini
portatori di difficoltà personali, sia a quelli in cui un bambino abbandonato
si trovi già presso un’altra famiglia, a cui è legato da un rapporto affettivo
solido, tanto che un allontanamento determinerebbe per lui un serio
pregiudizio».
Si può essere d’accordo sul fatto che i minori portatori
di handicap in situazione di gravità, di cui all’articolo 3 della legge
104/1992, se orfani di padre e di madre, possano
essere adottati in base al comma c) dell’articolo 44.
Conveniamo, altresì, sull’opportunità che venga applicato il comma d) dello stesso articolo 44 nei
confronti del «bambino abbandonato»,
a condizione che il Tribunale per i minorenni abbia accertato detta condizione
di abbandono e cioè di privazione dell’assistenza morale e materiale, e quindi
ne abbia dichiarato lo stato di adottabilità.
Se, invece, l’adozione ai sensi dell’articolo 44, comma
d), venisse disposta per minori di cui non fosse stato
pronunciato dal Tribunale per i minorenni lo stato di adottabilità,
si tratterebbe non solo di una aperta violazione delle norme della legge
184/1983 , ma anche un gravissimo abuso nei confronti dello stesso minore,
della sua famiglia di origine, alla quale verrebbero sottratte le garanzie
poste dalla stessa legge 184/1983 (18).
Nello stesso tempo, occorre tenere presente che
l’affidamento familiare a scopo educativo ha come obiettivo il sostegno
dell’intera famiglia in difficoltà e non solo del minore non adeguatamente
seguito dai suoi congiunti.
Scopo primario dell’affidamento è, inoltre, il ritorno
del minore a casa sua.
Per l’effettivo raggiungimento di questa finalità,
occorre che i servizi sociali si impegnino a fondo,
fra l’altro com’è previsto dalla stessa legge 184/1983.
Non vorremmo che il disimpegno dei servizi, presente in
ampie zone del nostro Paese, venisse strumentalizzato
dagli amministratori e dagli operatori dando un giudizio definitivamente
negativo alla famiglia d’origine al fine di consentire l’adozione del minore,
in base al più volte citato articolo 44.
Scaricando sui nuclei familiari in difficoltà la
responsabilità del mancato rientro a casa dei minori in affidamento, gli enti
gestori dei servizi socio-assistenziali (Comuni singoli e associati, Comunità
montane, ecc.), nonché i loro operatori e funzionari,
si possono liberare, in qualche misura se non del tutto, di ogni loro
responsabilità circa gli interventi non effettuati o svolti in modo
insufficiente o inidoneo nei confronti dei suddetti nuclei.
Inoltre, non effettuando gli
impegnativi, difficili e frustanti compiti di sostegno, le istituzioni non solo
non mettono in discussione il loro operato, ma realizzano altresì consistenti
risparmi economici.
In questo modo, gli enti gestori dei servizi
socio-assistenziali possono, altresì, evitare i conflitti che quasi
inevitabilmente insorgono con gli altri organismi (scuola, sanità, casa,
lavoro, ecc.) quando viene loro richiesto di
intervenire in aiuto dei soggetti deboli, ad esempio per le difficoltà
scolastiche, il sostegno ai minori con problemi psicologici o ai genitori con
disturbi psichiatrici o tossicodipendenti, la mancanza di un’abitazione idonea,
la disoccupazione o la sottoccupazione.
Succede, altresì, che le istituzioni forniscano, tramite
i mezzi di informazione di massa, notizie gravemente
fuorvianti all’opinione pubblica, attribuendo le colpe dei fallimenti ai
genitori “cattivi e irrecuperabili”: un comodo mezzo molto usato dagli enti per
sottrarsi alle loro responsabilità.
Non stupisce, quindi, che, com’è già stato segnalato in
precedenza,
Come questa rivista va ripetendo da anni, per un
funzionamento corretto dei servizi, occorre che vengano
riconosciuti diritti esigibili anche ai soggetti deboli; occorre inoltre che vi
siano gruppi di volontariato che intervengano affinché tali diritti siano
rispettati nei confronti di coloro che non sono in grado di autodifendersi.
A mio avviso è questa la principale strada da percorrere
per evitare abusi e distorsioni da parte delle istituzioni.
Nel frattempo, i Tribunali per i minorenni dovrebbero
imporre ai servizi socio-assistenziali di fornire relazioni in modo sistematico
e, sulla base di prefissate scadenze, in merito alle
iniziative intraprese per il reperimento di idonee famiglie adottive. L’impossibilità
dell’affidamento non dovrebbe mai essere causata dall’inerzia dei servizi.
D’altra parte, è risaputo che le disponibilità degli
adottanti dipendono in primo luogo dalle informazioni che le famiglie e le
persone singole ricevono circa i bisogni esistenti e le concrete loro
possibilità di intervenire per risolverli.
Infine, è anche una gravissima scorrettezza nei confronti
della famiglia d’origine dichiarare adottabile un minore quando la famiglia
stessa, dalle notizie ricevute e dai comportamenti tenuti dai servizi sociali e
a volte dai Tribunali per i minorenni, ha sempre ritenuto che il figlio fosse
presso un altro nucleo a scopo di affidamento
educativo. Si corre altresì il rischio di determinare ostacoli da parte degli
altri nuclei familiari in difficoltà, ai quali viene
proposto l’affidamento in alternativa al ricovero presso una struttura
residenziale, irrigidimenti che potrebbero essere assunti anche dalle
organizzazioni (volontariato, ecc.) di tutela dei soggetti deboli.
Conclusioni
Se si vuole veramente migliorare le
condizioni di vita dell’infanzia e contare in futuro su adulti responsabili,
fra le iniziative da assumere, occorre riconoscere con atti concreti il valore
educativo dei genitori e il loro fondamentale apporto formativo (20).
Di conseguenza deve essere ammesso l’importante
significato dell’adozione e la sua caratterizzazione
di vera filiazione, vera maternità e vera paternità.
Svalorizzare l’adozione autentica, ad esempio mediante l’adozione
cosiddetta mite, significa, al di là delle intenzioni,
considerare l’adozione come un intervento socio-assistenziale che addirittura
potrebbe sostituirsi al o ai genitori che, a causa di difficoltà di vario
genere, non sono in grado di provvedere direttamente alle esigenze dei loro
figli, ma che continuano ad avere con essi rapporti affettivi, anche se
inadeguati e sporadici.
Come era già stato richiesto (21), occorrerebbe che tutte le norme di cui all’art. 44 della legge
184/1983 venissero profondamente modificate al fine di evitare ogni abuso nei
confronti dei minori e delle famiglie d’origine in difficoltà.
Ritengo, altresì, che sia estremamente
urgente una analisi approfondita dei pronunciamenti finora effettuati in
materia di adozione nei casi particolari, di cui al più volte citato art. 44
della legge 184/1983.
Infatti, come risulta dalla
tabella 1 il loro numero (4.762 dal 1995 al 2002) è estremamente elevato
rispetto alle adozioni legittimanti pronunciate nello stesso periodo di tempo
(8.365). Occorrerebbe, pertanto, verificare se esse sono state disposte nel
pieno rispetto delle norme vigenti, oppure se sono state effettuate
sfruttando smagliature delle attuali disposizioni o mediante interpretazioni di
comodo.
Allo stato attuale mancano gli elementi necessari per una
valutazione oggettiva. È quindi auspicabile che vengano
messi a disposizione con la massima urgenza i necessari elementi di conoscenza.
Tabella 1
ADOZIONI DI MINORI ITALIANI (fonte Istat)
Procedimenti e provvedimenti in materia
di adozioni di minori italiani
Anno Adozioni Adozioni
pronunciate “nei
casi particolari”
(art. 44, legge 184/1983)
1995 882 593
1996 934 621
1997 978 516
1998 1.068 543
1999 1.000 545
2000 1.078 638
2001 1.290 655 (22)
2002 1.135 651 (23)
Totale 8.365 4.762
(1) Il n. 1/2003 di Minorigiustizia
ci è stato recapitato solamente nel mese di maggio 2004.
(2) Nella circolare del Tribunale per i minorenni di Bari non è indicata la
percentuale dei soggetti ricoverati in comunità o istituto o che si sono
inseriti autonomamente nella società, nonché quelli nel frattempo dichiarati
adottabili e adottati con l’adozione legittimante.
(3) Secondo il Dizionario dei sinonimi
e dei contrari di decio
Cinti, De Agostini,
Novara, i contrari di “mite” sono “inclemente”, “crudele” e “severo”.
(4) Cfr. l’articolo 147
del codice civile.
(5) Cfr. Giacomo Perico e
Francesco Santanera, “Adozione e prassi adozionale”, Centro
Studi Sociali, Milano, 1968.
(6) Cfr. “Nuovo concetto di filiazione e diritto al
riposo giornaliero retribuito delle madri adottive: una sentenza innovativa”, Prospettive assistenziali,
n. 139, 2002.
(7) Ibidem.
(8) Cfr. la sentenza della
Corte costituzionale n. 171 del 5 maggio 1994.
(9) La possibilità del non riconoscimento è, altresì, motivata quale misura
di prevenzione degli infanticidi e come alternativa per le donne che non
intendono abortire e non se la sentono di accogliere il loro nato come figlio.
(10) Cfr. “Guida del Comune di Torino
all’affidamento familiare”, Prospettive assistenziali, n. 145, 2004.
(11) Ibidem.
(12) Ibidem.
(13) Cfr. “Delibera del Comune di Torino sugli
affidamenti di minori e sugli inserimenti di adulti
handicappati e di anziani”, Ibidem,
n. 35, 1976.
(14) La suddetta delibera è stata approvata dal Consiglio comunale di Torino
il 14 settembre 1976.
(15) Cfr. Massimo Dogliotti,
“I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà…, ‘pericolosi per l’ordine pubblico’,
hanno ancora diritto ad essere assistiti dai Comuni”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001. Si veda, altresì,
l’articolo “Come abbiamo procurato un ricovero d’emergenza a
un nostro congiunto colpito da grave handicap”, Ibidem, n. 123, 1998.
(16) Cfr. l’allegato al n.
2, 1967 di Attualità e notizie
dell’Unione per la promozione dei diritti del
minore.
(17) L’art. 3 della legge 104/1992 riguarda i soggetti colpiti da handicap. È
auspicabile che la norma venga applicata solo per i
soggetti in situazione di gravità e non siano utilizzate false dichiarazioni.
(18) Gli effetti dell’adozione in casi particolari (articoli 44 e seguenti
della legge 184/1983) sono particolarmente negativi per l’adottato. Infatti:
a) non
diventa figlio legittimo degli adottanti e non stabilisce alcun rapporto di
parentela con i componenti della famiglia adottiva;
b)
l’adottato non rompe i rapporti con la sua famiglia d’origine, ma il o gli
adottanti esercitano i poteri parentali sul minore adottato;
c)
l’adottato antepone al proprio il cognome dell’adottante salvo che si tratti di
figlio non riconosciuto. A causa del doppio cognome, è facilmente individuabile
come figlio adottivo;
d) può
essere adottato anche da una persona sola;
e) il o gli
adottanti possono essere persone anche molto anziane;
f) il
Tribunale per i minorenni può promuovere l’adozione anche contro l’assenso dei
genitori «ove ritenga il rifiuto
ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando»;
g)
l’adozione viene disposta senza nemmeno interpellare i
fratelli e le sorelle dell’adottando;
h)
l’adozione può essere revocata anche se per gravi motivi.
(19) Cfr. “La controriforma dell’adozione proposta
dalla Commissione Infanzia del Senato”, Prospettive
assistenziali, n. 131, 2000.
(20) Ovviamente detto riconoscimento dovrebbe comportare la prestazione di
aiuti reali ai nuclei familiari in difficoltà, da parte di tutte le agenzie
sociali, in primo luogo la scuola.
(21) Cfr. “La controriforma…”, op. cit.
(22) Di cui
(23) Di cui
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