Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004
CONSIDERAZIONI SUI FALLIMENTI ADOTTIVI
GABRIELLA CAPPELLARO (*)
Tutti noi, interpellati sul
significato della parola “adottare”, diciamo di conoscere bene questo concetto,
di sapere, per esperienza diretta o per acquisito, che vuol dire “assumere un
bambino nato da altri in qualità di figlio legittimo” compiendo un’azione di
grande solidarietà e di alto valore sociale.
Ma non per tutti è stato necessario
entrare nel significato profondo di questa parola.
È quanto invece appare
indispensabile per apprezzare il libro Fallimenti
adottivi, Armando, Roma 2001, a cura di Jolanda Galli e Francesco Viero, e
farlo diventare spunto di riflessione operativa per quelli che, a diverso
titolo, si muovono nel campo dell’adozione.
La radice della parola “adottare”
suggerisce infatti che significa scegliere
nel desiderio, far proprio, seguire. Inoltrandosi dunque oltre il freddo
senso letterale/giuridico del termine e immergendosi nella ricchezza dei
movimenti umani che stanno alla base dell’adozione, si scopre che si tratta di
una scelta dove mente e cuore debbono agire in sinergia, si capisce che si
tratta di far proprio in modo molto
speciale, perché non può essere il far
proprio di chi acquista un titolo di padronanza, una proprietà, bensì di un
“far proprio” che mette chi adotta nelle condizioni di seguire ciò che è stato adottato (adottare un libro vuol dire scegliere un libro e seguirne le
indicazioni, adottare un provvedimento significa
decidere una certa linea e seguirne le implicazioni). Adottare dunque come
scelta di una strada che viene indicata proprio dall’oggetto prescelto. E
l’oggetto è una persona.
Condividendo il significato
etimologico della parola “adottare”, è chiaro allora che più la posta è alta,
maggiore è il livello di consapevolezza richiesta. Fra tutte le scelte
partecipate che possono essere compiute, quella di adottare un bambino è
certamente la più delicata e complessa che si possa attuare nella vita, più
ancora che scegliere il compagno/a della propria vita, perché, mentre la scelta
di coppia è bidirezionale (io scelgo te,
tu scegli me) la decisione di un figlio adottivo è di esclusiva competenza
dell’adulto.
La competenza dell’adulto non va
però intesa nel senso che sarebbe solo l’adulto a scegliere: quando è così, ne
consegue una posizione adultocentrica, foriera di gravi rischi per l’adottato,
soprattutto nei momenti salienti della sua crescita quando esce dalla posizione
di dipendenza/sottomissione e reclama una propria originalità.
E neppure, la capacità dell’adulto a
scegliere, può essere intesa come posizione di generica e dichiarata
disponibilità ad adattarsi a tutti i cambiamenti richiesti dal cammino
adottivo, perché le vicende specifiche sistematicamente smentiscono che le
dichiarazioni di buona volontà siano sufficienti a fare una buona adozione.
La vera competenza a scegliere è in
realtà quella di sapersi prendere sulle proprie spalle di adulto anche la
responsabilità che compete al bambino, che il bambino indubbiamente ha, ma che
ovviamente il bambino non sa e non può ancora sopportare.
L’adulto che sceglie diviene così il genitore che decide anche di “farsi
scegliere” da quel bambino, e da quel momento si impegna in un percorso di
sintonizzazione emotiva-affettiva con suo figlio.
In questo modo, l’adulto si pone
alla guida della crescita del bambino avendo presente non tanto un modello
ideale di figlio, che finisce per essere il
figlio che non c’è e che il genitore vorrebbe che fosse, quel bambino del
sogno che i genitori vagheggiano per potersi sentire bravi genitori o per
compensare attraverso l’adozione la propria difficile infanzia, quel bambino
del sogno, pericolosamente irreale perchè
non corrisponde al bambino reale. È
invece il bambino reale quello che i nuovi genitori effettivamente adottano,
con le sue proprie caratteristiche, i suoi bisogni/diritti, i suoi pensieri, la
sua storia, tutto quel bagaglio, preziosissimo e spesso purtroppo anche
pesantissimo, da elaborare, alleggerire, far crescere.
Molti potrebbero obiettare: ma non è
forse attraverso un sogno che gli adulti si dispongono a diventare genitori?
Che ne è di quel bambino del sogno che sta nella mente di tutti i genitori
quando pensano ad un figlio che sia frutto della loro capacità di amare?
Questo è assolutamente vero, c’è
prima il bambino del sogno nella mente dei genitori e quando nasce il figlio i
genitori pensano “il sogno è diventato realtà!” e piano piano il bambino che
cresce li riporta nel tempo della realtà. Ma quando si adotta il cammino della
genitorialità deve essere già arrivato a questa tappa, il sogno è già stato attraversato, il bambino è
già profondamente reale, il suo tempo è già cominciato, magari già segnato da
avvenimenti fortemente incidenti la struttura di personalità e di cui occorrerà
tener conto nell’interesse del bambino, per non costringerlo a devastanti
scissioni tra il suo passato e il suo presente.
Come non pensare a questo punto a
quell’aspetto così terribilmente adultocentrico riguardo l’adozione che vede
molti adulti impegnati in una accanita battaglia politico-culturale per cercare
di garantirsi un figlio neonato o al massimo infante, spostando sempre più
indietro il livello generazionale, quaranta, quarantacinque anni, o addirittura
niente limiti alla differenza di età tra genitori e figli, per poter disporre di un figlio neonato anche
quando il tempo scandito dalla natura li ha già collocati al livello della
terza generazione, quella dei nonni. Si finisce così per ignorare colpevolmente
quei troppi bambini grandicelli, dieci anni e oltre, il cui tempo di vita è
stato drammaticamente percorso fuori di un adeguato contesto familiare e che di
genitorialità sono gravemente carenti.
Questa tendenza, sostenuta dal
pensiero che “più piccolo è il bambino, più è malleabile e così lo educo come
voglio”, lascia peraltro intravedere quanto sia ancora diffusa la convinzione,
per tutti i tipi di genitorialità, che il bambino non sia comunque, già alla
nascita, portatore di una sua personalità, che si svilupperà non solo in base
all’educazione che l’adulto gli proporrà, ma anche sulla base del suo temperamento,
delle sue tendenze innate, dei condizionamenti ambientali, della personalità
degli adulti del suo contesto di vita. Il genitore non ha quindi un potere
assoluto sul destino del figlio, ma è determinante, per come si porrà, per come
lo aiuterà nel percorso di crescita, sul destino del figlio.
Quello di sapersi porre al proprio
livello generazionale è un aspetto cruciale del rapporto con i figli. La
barriera generazionale deve essere solida (“io sono il genitore, tu sei il
figlio”) per poter davvero proteggere il figlio, e al tempo stesso trasparente
(“io sono il genitore e mi sforzo di capirti”), deve assolutamente tener
presente l’ostacolo del gap generazionale,
la differenza culturale, di diverso approccio ai valori, di tendenze, di gusti
diversi tra le generazioni. Oggi le generazioni cambiano in fretta, per capire
i giovani non si può essere troppo distanti dal loro livello generazionale. E
soprattutto, essere della generazione dei nonni e aspirare ad un figlio
piccolo, significa davvero voler fermare il tempo, ignorare che quando il
figlio adolescente avrà bisogno di un genitore pieno di forza e di risorse, il
genitore non sarà più in grado di proporgli la garanzia di una barriera
generazionale salda e protettiva.
Se è vero che l’adozione è l’incontro
di bisogni profondi e cruciali, quelli degli adulti di esprimere la propria
affettività matura come dono e come proposta di crescita ai figli, e quelli dei
bambini (0-18 anni, ricordiamolo!, secondo la Convenzione internazionale sui
diritti dell’infanzia) di fare l’esperienza di figlità per poter pervenire ad una maturità consapevole, bisogna
anche ricordare che è il bisogno del minore a far muovere la disponibilità
dell’adulto che, già presente, si attiva al momento giusto davanti a quel certo
bisogno. Possiamo allora chiederci se non sia un preoccupante segnale di
adultità mancata e di narcisismo marcato quella certa sordità e cecità davanti ai bambini già grandicelli ma ancora senza
famiglia: si preferisce ignorarne l’esistenza e accanirsi alla ricerca del
figlio piccolo, secondo canali diversi dall’adozione nazionale.
Adottare significa dunque scegliere
per sé stessi e per il bambino: una doppia responsabilità di cui troppo spesso
si perde la portata e la profondità. Infatti non si sceglie una volta per
tutte, ma si inizia un cammino dove la scelta si qualifica nel suo farsi, nel
suo divenire.
Fallimenti adottivi ripercorre in forma eloquente, con un lavoro di pensiero a posteriori,
storie drammatiche di disastri “annunciati”, di funzioni genitoriali inadeguate
alla costruzione di un legame e/o al soddisfacimento dei bisogni dei minori
descritti.
Sono storie di coppie per le quali i
servizi sembrano non “osare” di pronunciarsi o di approfondire i requisiti di
una genitorialità che, come la terapia familiare insegna, affonda le sue radici
in un “copione” che non verrà dismesso se non prima consapevolmente ridiscusso.
Nelle relazioni della coppia
genitoriale si dice: «Sembra gradualmente
riuscita a trovare una sua collocazione…i coniugi sono abbastanza consapevoli
delle difficoltà dei bambini». Non ci si preoccupa se la coppia non riesce
ad andare oltre gli aspetti formali, se si presenta solo quando convocata.
L’aspetto cruciale della sintonizzazione adulto-bambino viene completamente
ignorato, o al massimo inquadrato per aspetti comportamentali: se il bambino si
comporta in un certo modo, allora va bene. Sì, ma intanto, che cosa pensa
questo bambino? Il suo vissuto corrisponde? Accade sistematicamente che
l’adeguatezza di un bambino, che si trova in ovvie condizioni di sottomissione,
sia soltanto apparente e destinata dunque ad essere transitoria.
Nelle relazioni dei bambini, che
provengono da situazioni gravemente disfunzionali percorse ma non trascorse
nelle famiglie di provenienza, si dice: «La
bambina è cresciuta abbastanza bene…niente di grave». Non ci si preoccupa
se un bambino manifesta una facile adesività, né vi si intravedono i segnali di
una mancata separazione/individuazione.
Addirittura i segnali di disagio dei
bambini di fronte ai nuovi inserimenti adottivi vengono ignorati o al massimo
descritti come situazioni cui porre rimedio con un qualche intervento a
carattere educativo più o meno mirato: gli incubi notturni, le bugie, i
comportamenti aggressivi o trasgressivi, i rifiuti, ecc. non vengono ascoltati
come aspetti di un mondo interno lacerato da traumi antichi che fatica ad
accogliere elementi nuovi (e per di più spesso collusivi da parte dei genitori
adottivi e degli operatori) perché lo spazio interno è ancora ingombro da macerie
che solo un’attenta e doverosa cura terapeutica potrebbe rimuovere.
Così le adozioni che non arrivano a
compimento o che debbono essere interrotte divengono scenari di terribili
tragedie umane, dove si evidenziano la sofferenza degli adulti che scoprono e
spesso negano le loro incompiutezze e, soprattutto, il dolore dei bambini che
subiscono in questo modo una nuova condizione di maltrattamento, anche
istituzionale, che spesso comprometterà definitivamente la loro riuscita
esistenziale e li condannerà a diventare portatori di personalità gravemente
disturbate (chi li ripagherà di questi danni?).
Quanto il cammino adottivo sia
impegnativo e dinamico, e quanto questo impegno sia disatteso sia dai servizi
che dai genitori adottivi, viene nel libro reso con drammatica pregnanza dalle
storie di adozioni che non proseguono o di adozioni che si interrompono dopo la
conclusione della relativa procedura.
Le statistiche ufficiali riportano
percentuali tra l’1% e l’1,8% di adozioni incompiute o interrotte.
Il libro Fallimenti adottivi richiama peraltro a riflettere che tra le
adozioni con andamento drammatico, dove gli investimenti affettivi si
trasformano in dolore e sofferenza (anziché negli aspetti riparativi di cui il
bambino ha necessità per risanare le difficili esperienze sicuramente prima
percorse), e quelle adozioni dove il figlio sente l’intensità e la forza
positiva dei nuovi legami nella costruzione della sua identità, si dispongono
tante altre storie adottive più o meno riuscite, più o meno dolenti, nelle
quali, vista l’alta percentuale di minori adottivi con problemi relazionali
ricoverati in istituto, la funzione genitoriale non è stata efficace.
Esattamente come per il
maltrattamento infantile, le adozioni che non proseguono e quelle che si
interrompono rappresentano la punta di un iceberg,
dove il disagio più esteso è vastissimo e sommerso, ma dove solo alcuni aspetti
drammatici arrivano all’evidenza, perché esiste un fenomeno diffuso di
negazione sociale, di stampo adultocentrico, che ne impedisce, ai diversi
livelli, dal privato, al privato-sociale, al pubblico, una corretta presa di
coscienza.
Moltissimi problemi sorgono nel
corso di un’adozione o dopo un’adozione, problemi che esitano in situazioni a
volte difficilissime, dove il disagio viene negato e trattenuto, ma non
risolto, perché i genitori adottivi non sanno come farsi aiutare o temono una
giudizio negativo.
Tutte le scienze antropologiche
proclamano ormai incontestabilmente il bisogno di famiglia per poter crescere
con un’immagine positiva di sé, bisogno da soddisfare a maggior ragione per i
bambini che debbono essere allontanati da una famiglia gravemente
disfunzionale. Ma non è altrettanto chiaro che la proposta di attaccamenti
riparativi in una nuova famiglia è un’operazione estremamente delicata che non
può essere affidata alla sola buona volontà o alla sorte, quando gli studi
evidenziano che già nelle famiglie biologiche l’attaccamento familiare che
rende “sicuro” un bambino non è un traguardo scontato.
La “dis-cura” del preadozione e del
postadozione appare allora il frutto di una convinzione che serpeggia
silenziosa ma pervicace nella mente di molti operatori e che suona pressappoco:
ma l’adozione è davvero uno strumento utile?
Le adozioni che si interrompono o
quelle che non proseguono debbono farci riflettere che non si tratta, come
troppi vorrebbero far intendere, di “fallimento dell’adozione”, quanto
piuttosto di un uso scorretto o semplicistico di uno strumento prezioso e
indispensabile al risanamento di tanti bambini soli, tenendo presente che si
tratta di uno strumento complesso.
Per entrare in questa complessità e
usarne nel modo migliore, proviamo a capire il senso della domanda: che cosa
significa essere genitori? Una risposta importante è che significa chiedere a
sé stessi, aspiranti genitori adottivi, di svolgere la funzione di testimone,
di specchio per un bambino che di sé sa molto poco, di sé sa malamente, di sé
sa con troppo dolore, di sé ha una visione appannata.
Questa funzione di rispecchiamento,
che è una delle più importanti per la crescita, perché permette di
identificarsi e di progredire nella costruzione della propria identità,
richiede un adulto capace di essere uno specchio limpido e contemporaneamente
un testimone “soccorrevole” (A. Miller).
C’è allora bisogno di un adulto che
abbia una serena competenza autobiografica di sé, che abbia pure avuto i suoi
dolori e le sue frustrazioni, ma che abbia saputo rasserenarsi e dunque essere
adesso trasparente. Per il bambino non sarà facile decidere di rispecchiarsi nell’adulto:
troppo spesso la sua fiducia nel mondo è stata minata alla base e farà dunque
dei tentativi per vedere se si tratta proprio di uno specchio trasparente,
addirittura potrà cercare di rompere lo specchio.
E quando arriverà a rispecchiarsi
nell’adulto, porterà sicuramente la patina scura dei suoi traumi non ancora
risolti e lo specchio si appannerà. E poiché il rispecchiamento è reciproco (il
bambino nell’adulto e l’adulto nel bambino), il genitore potrà sentire
riemergere da dentro situazioni sue, antiche, che pensava risolte, ma che sono
invece ancora dolenti. E quando gli specchi diventano scuri, e le reciproche
immagini rinviate minacciose, la tentazione che invade l’adulto è esattamente
quella adultocentrica, di salvarsi a spese del bambino, di respingere
questa percezione di pericolo, di evacuarla dalla mente, di cercarne la causa
nei problemi del bambino, che invece è semplicemente stato l’occasione del
riemergere di una incompiutezza già insita nell’adulto.
Adozioni che si interrompono o che
non proseguono non significano fallimento dell’adozione, perché tale
dichiarazione contravviene tutti i principi di solidarietà e di sussidiarietà
su cui si basa la nostra crescita umana e la nostra cultura sociale più
avanzata.
Occorre invece attivarsi, a tutti i
livelli, denunciando il grave pregiudizio arrecato al minore a causa di
un’adozione non riuscita, anche con nuove iniziative legislative sul pre- e sul
post-adozione, perché la famiglia adottiva sia per i bambini soli una occasione
non casuale di crescita.
(*) Psicoterapeuta, esponente
dell’Associazione Fiaba (Associazione interventi di aiuto al bambino e alla
famiglia) di Vicenza.
www.fondazionepromozionesociale.it