Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004
CONVEGNO
INTERNAZIONALE “IL DIRITTO DI CRESCERE IN FAMIGLIA”: LEGISLAZIONI EUROPEE A
CONFRONTO VISTE DALLA PARTE DEI BAMBINI
È impegno di tutti, istituzioni e
società civile, garantire a tutti i bambini il fondamentale diritto a crescere
in famiglia: questo è stato il motivo principale del convegno che si è inserito
fra gli eventi più significativi di Genova 2004, capitale europea della
cultura.
Partendo da una lettura delle
esigenze affettive dei bambini, sono stati approfonditi gli aspetti fondanti
della relazione genitori/figli dal punto di vista sociologico, psicologico ed
esperienziale, per poi considerare le politiche sociali a sostegno delle
famiglie in alcuni Stati membri della Unione europea. Due tavole rotonde hanno
fornito un quadro della legislazione e delle tematiche emergenti a livello
europeo nel settore degli affidamenti familiari e delle adozioni nazionali e
internazionali, prendendo in esame anche la situazione nei Paesi di diritto
islamico che si affacciano sul Mediterraneo. In questo contesto è stato
importante riflettere sulle ragioni per cui è necessario salvaguardare il
diritto alla segretezza del parto, per proteggere il neonato e la partoriente.
Non poteva mancare un’attenzione particolare alla condizione dei minori
extracomunitari, mettendo a fuoco le iniziative che gli Stati membri
dell’Unione europea dovranno attivare o potenziare per il loro ricongiungimento
familiare e per stroncare l’allarmante traffico dei minori.
L’Anfaa ha organizzato il convegno
in collaborazione con Eaa, Enfance adoption accueil, la Federazione che
raggruppa le associazioni di famiglie adottive ed affidatarie operanti in
Algeria, Belgio, Francia, Italia, Olanda, Spagna e Svizzera e che ha, inoltre,
collegamenti con associazioni della Croazia, Germania, Gran Bretagna,
Portogallo e Svezia.
Hanno preso parte in qualità di
relatori Danielle Housset, presidente Eaa; Fulvio Scaparro, psicoterapeuta;
Francesco Belletti, direttore Cisf (Centro internazionale studi famiglia);
Donata Nova Micucci, presidente nazionale Anfaa; Constantinos Fotakis, capo
dell’unità di analisi demografica e sociale della Commissione europea;
Catherine Bonnet, consulente Onu, psicoterapeuta infantile e neuropsichiatra;
Ermenegildo Ciccotti, coordinatore Centro nazionale documentazione e analisi
per l’infanzia e l’adolescenza; Liliana
Carollo, presidente Associazione Fiaba (Vicenza); Jeffrey Coleman, membro
dell’Associazione britannica per l’adozione e l’affido; Isabella Dellacecca e
Paola Egidi, rappresentanti del Coordinamento nazionale servizi affido; Marina
Trento, membro del Comitato direttivo dell’Atfa (Associazione ticinese famiglie
affidatarie) (Svizzera); Lise Marie Schaffhauser, Efa (Enfance & familles
d’adoption) (Francia); Claudia Roffino, insegnante e figlia adottiva; Massimo
Dogliotti, Consigliere Corte di Cassazione e docente presso le Università di
Genova e Luiss di Roma; Kethil Lehland, Presidente onorario Euradopt
(Coordinamento europeo di enti autorizzati per l’adozione internazionale;
Janice Peyré, presidente Efa (Francia); Benedicto García, presidente di Seda
(Sociedad espagnola para el desarollo de la adopcion) (Spagna); Frida Tonizzo,
assistente sociale Anfaa; Fernanda Contri, giudice Corte costituzionale; M. Ali
Bahman, presidente di Aaefab (Associazione algerina enfance & familles
d’accueil benevole) (Algeria); Giovanni Guerriera, vice-presidente Comitato
italiano per l’Unicef; Pippo Costella,
direttore programmi di Save the Children Italia e membro del Gruppo di esperti
dell’Unione europea sul traffico di esseri umani.
I bisogni affettivi dei bambini
Fulvio Scaparro ha ricordato che «la famiglia – qualunque forma e qualità di
famiglia e anche la mancanza di una famiglia – è decisiva nella scrittura dei
primi capitoli della nostra storia. La vita inizia con una promessa che
l’essere vivente raccoglie con fiducia. Il bambino si aspetta, per così dire,
la nostra collaborazione per crescere e trovare il suo posto nel mondo, la
nostra dedizione, tempo, cura, guida, educazione all’autonomia e
all’indipendenza. Se questa promessa non è mantenuta, l’organismo perde
energia, si lascia morire o si
ribella o si umilia nell’accattonaggio
degli affetti». Ha quindi precisato che «in
altre circostanze ho affrontato questo argomento partendo dalla “teoria del
legame biologico” o “dell’attaccamento” di Bowlby e Ainsworth, secondo la quale
madre e figlio sono reciprocamente sintonizzati, fin dall’inizio, tramite
adattamenti messi a punto nel corso dell’evoluzione e per l’ulteriore sviluppo
del loro legame essi sono capaci di stringere una relazione personalizzata.
Cioè, ambedue si dimostrano dei partner attivi. Il bambino, dunque, non è
affatto un passivo ricevente di stimoli socializzanti. Fra l’altro il bambino
mostra (…) l’impulso a instaurare un legame personale con una determinata persona
di riferimento, che normalmente è la madre. Sappiamo che questa ideale famiglia fondata sull’amore e sulla
cooperazione reciproca trova molti ostacoli a realizzarsi, non sempre
imputabili ai genitori, ma questo non deve impedirci di prendere atto del fatto
che di questa famiglia i nostri figli hanno bisogno, a questa famiglia dovremmo
tendere e, se le circostanze della vita ne impediscono la realizzazione, le
soluzioni alternative devono mirare ad assicurare ai bambini per quanto
possibile un ambiente che non manchi delle caratteristiche fondamentali di una
buona famiglia: amore, collaborazione, rispetto, attenzione tra tutti i suoi
membri e un’organizzazione sociale che tuteli e sostenga le madri e i padri
durante i primi anni di vita dei loro figli.
«I bambini fin dai primi istanti di vita mostrano segnali di accanita
resistenza all’accettazione della dura legge della nostra vita che può essere
riassunta in quattro spietate parole: “nulla dura per sempre” e dunque anche la
salute, le buone relazioni con le persone che più contano per noi, tutto ciò
che più amiamo e perfino la sofferenza. Il dolore profondo ammutolisce anche
chi, come i più piccoli, non esprimendosi ancora con le parole parla con il
corpo e si trova dunque ad affrontare una situazione di non riconoscimento che
conduce a una disperazione confinante con l’umiliazione. Non è sempre vero che
il dolore fa crescere e rende più
maturi: alcune esperienze di sofferenza profonda come la perdita di alcuni legami
affettivi fondamentali per la nostra sopravvivenza possono avere esiti
distruttivi (…).
«Se l’ambiente di vita del bambino non è in grado di tutelare né la sua
sopravvivenza fisica né la sua vitalità e fertilità psicologica, ogni sforzo va
fatto innanzi tutto per intervenire su quell’ambiente per attivarne le
eventuali risorse, affinché il bambino possa continuare a vivere dove sono le
sue relazioni più importanti. Quando, però, si rende necessario il distacco da
un ambiente, in particolare dalla famiglia di origine, occorre prestare grande
attenzione ad accogliere bene il bambino: una buona accoglienza è già un
efficace inizio di cura e un buon ambiente mette chi soffre nelle migliori
condizioni per reagire positivamente. Quello che si raccomanda è la conoscenza
di ciò che è utile e positivo per il bambino, primo fra tutti il diritto alla
continuità dell’esistenza e dunque a non essere esposto a separazioni
traumatiche dai propri genitori e dal suo ambiente di origine se non per
gravissimi motivi».
Scaparro si è soffermato quindi
sulle cure di cui ha bisogno il bambino.
Secondo il relatore sono tre i «momenti
fondamentali che costituiscono la base dello sviluppo infantile e che qualunque
collettività, attraverso i suoi educatori, in famiglia e a scuola, e attraverso
i suoi amministratori, dovrebbe considerare insostituibili per garantire lo
sviluppo cognitivo, affettivo, sociale e morale del bambino. Questi tre momenti
riguardano tutti noi, non solo i bambini: accettazione, contenimento, rispetto,
ascolto (Winnicott parla di holding); cura, accudimento (handling);
introduzione al mondo e promozione delle capacità (object
presenting). Ciascuno di questi momenti è preparatorio
all’altro e tutti sono interdipendenti». Precisa inoltre: «Sono qui per testimoniare, se ce ne fosse
bisogno, quanto sia importante che nei
momenti di crisi nella vita dei bambini, quando cioè si prospetta
realisticamente la minaccia di una separazione da ciò che è loro più caro, per
malattia, gravi conflitti famigliari, guerre o calamità, si presti la massima
attenzione nell’evitare separazioni gratuite, tagli bruschi di relazioni vitali
quando non dettate da assoluta necessità. Quando parlo di gratuiti attacchi
alle relazioni del bambino, ai suoi legami, alle sue radici, intendo riferirmi non soltanto al distacco
dai famigliari o dall’ambiente di vita ma anche al modo in cui ci si rivolge al
bambino, alla ignoranza delle più elementari nozioni di psicologia dell’età
evolutiva, al disprezzo o all’indifferenza per le condizioni dell’ambiente
d’origine del bambino, in poche parole alla mancanza di rispetto per le
particolarissime esigenze della sua età e dello stato di crisi in cui si trova.
La salvaguardia della rete di relazioni del bambino o, comunque, della
continuità con il mondo dei suoi affetti, non è qualcosa in più rispetto alla
cura: è già buon accoglimento, rientra appieno nel diritto alla salute che è
fisica, psichica e relazionale. Un buon accoglimento nei diversi ambienti con
cui entrano in contatto (famiglia, vicinato, scuola, comunità, lavoro...) rende
i bambini sicuri dentro e questo si può tradurre, sul piano del comportamento,
in una maggiore fiducia nel ruolo della collaborazione e dell’aiuto reciproco,
in un accresciuto senso di appartenenza a una comunità».
Gli elementi costitutivi della filiazione e della genitorialità
Si è passati quindi con le relazioni
di Francesco Belletti e di Donata Micucci ad esaminare quelli che sono gli
elementi costitutivi della filiazione e della genitorialità. Entrambi
concordano nell’affermare come nella mentalità comune sia ancora radicata la convinzione che la
genitorialità discenda principalmente dal legame biologico, di sangue, con il
proprio nato. Ci si riferisce spesso alla maternità e alla paternità come
conseguenza unica e definitiva dell’atto procreativo. Come ha giustamente osservato Belletti: «Soprattutto l’essere figli è verità
antropologica, in un certo senso “autoevidente”, è un fatto che precede ogni
altra caratterizzazione della filiazione; le definizioni giuridiche,
filosofiche, psicologiche, sociologiche della filiazione non fanno altro che
leggere un dato “oggettivo”, scoprendone alcune caratteristiche, ma senza
riuscire mai ad abbracciarne la totalità, la sua interezza. L’inevitabilità dell’essere figli è tanto
più evidente nella specie umana, che ha
affidato alla capacità di cura dei genitori il proprio futuro evolutivo; il
cucciolo d’uomo, in effetti, è quello che rimane dipendente per un periodo
molto lungo, soprattutto se confrontato con altre specie animali, affidato per
lungo periodo alla cura di altri “umani”, che lo accudiscono in parte per un
mandato biologico (in analogia con molte altre specie animali), ma anche per un
“mandato culturale”, di cui si fanno interpreti (…). Anche la genitorialità,
quindi, ha una duplice connotazione, biologica e culturale, che in qualche modo
viene sollecitata dai bisogni dei nuovi nati; nasce e si riscopre, in un certo
senso, in modo relazionale, nell’incontro con un altro bisognoso, il figlio,
inerme e dipendente. Essa nasce, quindi, sempre in questa prospettiva, da un
duplice inizio, non sempre inevitabilmente coincidente, trova cioè la sua
origine sia nella dimensione biologica, sia in quella culturale. Si potrebbe
dire, con altre parole, che genitori si diventa attraverso un duplice percorso:
quello biologico, generativo e quello culturale, educativo, della cura,
dell’accudimento».
A sua volta Donata Micucci mette in
evidenza come «l’elemento costitutivo del
rapporto di genitorialità e di filiazione derivi dal legame affettivo-educativo
e reciprocamente formativo che si costruisce giorno per giorno, nel vivere
insieme. La personalità di ognuno di noi, a parte le caratteristiche fisiche, è
determinata non tanto dall’apporto ereditario quanto dall’ambiente, in
particolare da quello familiare che educa il figlio (sia esso procreato che
adottivo) e crea le basi della sua personalità. Mentre la procreazione è un
fatto unilaterale che coinvolge solo gli adulti, nella filiazione (biologica o
adottiva) il vero protagonista è il bambino».
Donata Micucci ha ribadito come non
sia possibile nascondere che in molte persone è ancora radicato il
convincimento che “vero” genitore sia unicamente quello biologico: «A volte i messaggi che riceve dalla
società possono condizionare il genitore
adottivo a vivere con insicurezza il suo essere padre o madre. è importante, invece, che egli sia
profondamente – con il cuore e non solo
con la ragione – convinto che vero
genitore non è chi mette al mondo un bambino e poi non risponde alle sue
esigenze affettive e materiali, ma chi lo alleva ed è legittimato dalla società
e da se stesso a svolgere questo ruolo. Adottare significa diventare padre e
madre di un minore non procreato, e l’adozione non è né deve essere confusa con
un’azione di solidarietà nei confronti di un fanciullo senza famiglia».
«L’adozione
dei minori in situazione di privazione di assistenza materiale e morale da
parte dei genitori – afferma Donata Micucci – va, pertanto, considerata una seconda nascita che non annulla la prima,
ma non ne conserva alcun legame giuridico. Non si tratta, comunque di
“cancellare” i ricordi relativi alla storia personale del bambino; occorre,
invece, aiutare questi bambini, soprattutto se adottati grandicelli, a rimarginare le ferite subite,
quasi sempre assai gravi. è importante
che i genitori adottivi sappiano aiutare il bambino ad accettare positivamente
un’immagine di sé e a imparare gradualmente ad accettare se stesso e la propria
storia, integrando così il proprio passato con il presente. Altro aspetto fondante di una corretta
relazione adottiva, riguarda la corretta e tempestiva informazione da dare al
figlio adottivo sulla sua reale situazione. Un’informazione corretta e
tempestiva (non è giusto definirla “rivelazione”, termine che fa pensare a una
verità prima tenuta nascosta e poi palesata – e generalmente – si nasconde ciò
di cui si ha paura o vergogna) presuppone, oltre ad una personale sicurezza sul
proprio amore, una capacità che non è trasmessa
culturalmente e va quindi appresa. Bisogna imparare a spiegare al figlio
le ragioni che hanno portato alla sua adozione senza incrinare la sua autostima
e a saperlo guidare a rispondere alle domande degli altri (spesse volte
maliziose e anche dispregiative) senza essere turbato. Il problema non consiste
tanto nel come dire, nel cosa dire, o nel
quando dire ai propri figli, ma nel come i genitori si pongono di fronte a
loro, nel loro atteggiamento e nella serenità con cui affrontano questo
argomento.
«Non possiamo misconoscere l’importanza che assume l’atteggiamento del
contesto familiare e sociale, a partire dalla scuola, nel processo di
identificazione del bambino con i suoi genitori. Atteggiamenti di rifiuto e di
non accettazione da parte di insegnanti e compagni di scuola possono avere
pesanti ripercussioni sul suo equilibrio, con conseguenze, a volte, anche
drammatiche. La scuola rappresenta un servizio pubblico di primaria importanza
nel campo educativo e formativo».
«Troppe volte – ha poi denunciato Micucci – ci
imbattiamo in programmi, articoli su quotidiani e riviste, in cui il ruolo e la
dignità dei genitori adottivi vengono misconosciuti e offesi. Troppe volte,
infatti, abbiamo visto trattare dai mass-media, ed in particolare nei programmi
televisivi, il tema dell’adozione in
modo scorretto e fuorviante, con inevitabili negative ripercussioni sulla
serenità dei nostri figli adottivi e non. Non possiamo accettare i
travisamenti che spesso i mass-media ci trasmettono quando trattano i temi
dell’adozione. Non possiamo accettare di vedere considerati genitori adottivi
chi si procura a tutti i costi un
bambino, ricorrendo anche a espedienti
illegali. Non possiamo neanche accettare, d’altra parte, che si considerino i
genitori adottivi come dei benefattori, come persone che operano un gesto di
grande umanità accogliendo un bambino senza famiglia, ma che comunque non
diventano i suoi “veri” genitori. Noi genitori adottivi vogliamo essere
considerati, al pari dei genitori biologici che amano, educano e proteggono i
loro bambini (e che sono per fortuna la stragrande maggioranza), i genitori dei nostri figli. Genitori a pieno titolo,
senza nessuna ulteriore specificazione».
Quanto esposto da Francesco Belletti
e Donata Micucci è stato avvalorato dall’analisi attuata da Constantinos
Fotakis, che ha relazionato in merito al ruolo della famiglia nell’ambito delle
diverse politiche sociali: una ricerca sociale, demografica, economica e
culturale ha messo in evidenza come i cambiamenti abbiano avuto notevoli
ripercussioni ed effetti sulla vita delle famiglie. I matrimoni avvengono
sempre più tardi e nel corso degli anni la percentuale dei divorzi è in
notevole aumento; molti poi optano per la convivenza ed aumentano anche coloro
che scelgono di vivere da soli. Allo stesso tempo diminuisce il numero dei
figli, aumentano i casi di sterilità e spesso la scelta di avere un figlio
viene procrastinata. Lo Stato deve dunque attuare strategie che tengano conto
dei cambiamenti e dei possibili sviluppi della famiglia per migliorarne le
condizioni a vantaggio e tutela dei minori.
La scelta di partorire in anonimato
Catherine Bonnet ha posto l’accento
sulla differenza tra una donna che partorisce in ospedale e decide di affidare
il proprio nato alle istituzioni affinché gli trovino una famiglia che lo possa
amare, e una donna che invece getta il bambino per la strada, in un cassonetto,
mettendo così a repentaglio la vita del piccolo: solo nel secondo caso si può
parlare davvero di abbandono. Spesso
le cause che spingono una donna a non tenere con sé il proprio nato non sono
economiche ma psicologiche. La Bonnet, nel
suo intervento, ha lasciato molto spazio ai contatti umani avuti nella
sua esperienza professionale, nelle zone difficili del mondo, come, per
esempio, in Afghanistan, dove ha raccolto la drammatica testimonianza di una
donna costretta a sposare un talebano; ha subito la violenza allora, e oggi che
i talebani non ci sono più, ne vive un’altra perché vessata dai vincitori. Ecco
che al dramma sociale e psicologico che in Italia conosciamo con tutte le
vicende di neonati «abbandonati nei
cassonetti» si aggiunge il problema etnico, lo scontro di culture che si va
a scaricare, inevitabilmente sui più indifesi.
In Francia, ricorda Bonnet,
nonostante i passi avanti in favore della protezione dei bambini non
riconosciuti alla nascita, vi sono ancora delle forme di resistenza rispetto
alla possibilità di partorire in anonimato. Come già Donata Micucci, esprime
anche lei il suo disappunto per questa “idealizzazione” del legame di sangue e
con forza afferma che l’essenziale per un bambino non è avere la conoscenza precisa
delle circostanze del suo concepimento e della sua nascita, ma di essere
protetto alla nascita da rischi di maltrattamento anche futuro, per crescere
nella sicurezza affettiva di una famiglia, biologica o adottiva che sia.
Lise Marie Schaffhauser ha ribadito
l’importanza per un bambino del diritto di vivere in seno ad una famiglia
portando l’esempio delle attività svolta dall’Eaa affinché ciò avvenga
attraverso azioni di sostegno: ha avuto esperienze dirette in merito e ritiene che non sia una “missione
impossibile”; allo scopo l’associazione ha recentemente istituito un comitato
etico di professionisti particolarmente qualificati, quali giuristi, filosofi,
psichiatri, sociologi.
L’affidamento familiare a scopo educativo
Aprendo i lavori della tavola
rotonda, Ermenegildo Ciccotti ha messo in evidenza il ruolo determinante che
l’affidamento familiare dovrà assumere in Italia in vista del superamento del
ricovero in istituto entro il 2006 e ha preannunciato alcune iniziative
dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, tra cui una
campagna sull’affidamento.
«Risulta
quantomeno paradossale – esordisce Liliana Carollo – che si senta definire da più parti come residuale l’affidamento familiare, proprio l’istituto previsto dalla legge
per rispondere al diritto alla famiglia dei bambini, tanto più quando tale
affermazione viene fatta da operatori preposti alla tutela dei minori. Il
termine residuale ha una valenza negativa, svalutativa, significa intervento di
ripiego quando nessun altro intervento più adeguato è praticabile, da evitare e
da superare. Questa considerazione dell’affido è emblematica della cultura
dell’infanzia ancora diffusa in Italia e spiega lo scarso utilizzo dell’affido
familiare in questi vent’anni di vigenza della legge, e il suo prevalente
utilizzo, appunto, come residuale, come “ultima spiaggia”.
«Gli istituti dell’affido e dell’adozione non sono alternativi ad una
famiglia che può funzionare (se sostenuta e curata), ma sono previsti per
assicurare un ambiente familiare positivo anziché un luogo “neutro” ai bambini
temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo (con l’affido) o privi di
assistenza materiale e morale da parte dei genitori o dei parenti (con
l’adozione); affido e adozione costituiscono un “continuum” della famiglia di
origine, mentre istituti e comunità sono organizzazioni del tutto diverse.
Purtroppo una concezione arcaica del
legame del sangue e la concezione del bambino come propaggine dei genitori
induce ancora molti adulti a rifiutare, anche se in forma mascherata e
adducendo varie giustificazioni,
l’inserimento del minore maltrattato in un’altra famiglia preferendo, in caso di
allontanamento, una struttura.
«In realtà la stragrande
maggioranza degli affidi effettuati negli anni, dal 1984 ad oggi in Italia, non
appartengono alle due tipologie di affidamento previste dalla legge 184/1983
(affidi consensuali o affidi decretati dal tribunale per mancanza di assenso
dei genitori) bensì riguardano minori già allontanati a scopo protettivo dalla
famiglia per decreto del tribunale, bambini spesso già grandicelli aventi alle
spalle lunghi anni di permanenza in situazioni familiari maltrattanti, bambini
danneggiati in modo più o meno grave nel loro sviluppo sociale, psichico,
mentale. In molti casi, al momento dell’affidamento, ai danni causati da
carenze o violenze familiari, si sono aggiunti quelli riportati da una
istituzionalizzazione prolungata, magari presso più strutture, dato che (come
già detto prima) gli operatori in questi anni hanno fatto spesso ricorso all’affido familiare come “ultima spiaggia” in una sorta di
applicazione inversa delle priorità stabilite dalla legge.
«Da una ricerca svolta dall’Osservatorio nazionale sull’infanzia e
l’adolescenza di Firenze risultavano, nel 1999, 4.200 affidi eterofamiliari; i
minori inseriti in strutture di ricovero nello stesso periodo risultavano da
una indagine dell’Istat più di 28.000. È dunque evidente che le priorità
definite dalla legge 184/1983 e successive modifiche sono state largamente
disattese e che si è continuato negli anni a privilegiare l’inserimento dei
minori in strutture. Se in questi ultimi tempi c’è una inversione di tendenza
(ma i numeri relativi ai minori inseriti nelle strutture delle Regioni che
hanno una anagrafe al riguardo sembrano più o meno stabili) non è dato sapere
in quanto non esistono dati aggiornati sul numero degli affidamenti (nessuna
Regione ha ancora avviato in merito una raccolta sistematica) e anche questo è
un segno dello scarso interesse per l’applicazione della legge e della scarsa
preoccupazione per una violazione sistematica e continuativa del diritto ad una
famiglia dei bambini (…). Nella prospettiva della chiusura ormai prossima degli istituti
(se non verrà procrastinata anche gli istituti hanno i loro estimatori, specie
tra i Senatori della nostra Repubblica che in ben 55 hanno presentato una
proposta di legge perché gli istituti continuino ad operare e a svolgere la
loro importante opera educativa…), prevedendo che per molti dei minori
istituzionalizzati dovranno essere reperite sistemazioni alternative, vengono
programmati da parte di molte Regioni progetti per il rilancio e un maggior
utilizzo dell’affidamento familiare. Emergono anche, negli ultimi tempi, nuove
risposte alternative all’affidamento
familiare. Si tratta degli affidi familiari professionali e dell’adozione mite,
ma entrambe queste nuove risposte al bisogno di famiglia di un minore suscitano
perplessità«.
Conclude la Carollo affermando che «una mentalità affidataria è senz’altro una
spia importante della cultura dell’infanzia di un Paese. Una società che
sceglie di offrire al bambino privo temporaneamente di una famiglia idonea (per
un periodo più o meno lungo, secondo le sue necessità) un’altra famiglia
anziché un istituto o una struttura, dimostra di essere diventata capace di
anteporre i bisogni di crescita dei bambini ai pregiudizi, alle esigenze, ai
timori degli adulti, significa che sceglie di rispondere con l’accoglienza, il
calore, l’affetto, il rispetto, anziché con un ulteriore maltrattamento. Nei
prossimi anni vedremo dunque se la nostra società si sta incamminando verso
questa nuova cultura dell’infanzia, invertendo la rotta involutiva che sembra
aver imboccato in questi ultimi anni, oppure se le esigenze del mondo adulto e
una concezione della potestà genitoriale come potere anziché come servizio per
la crescita dei figli continueranno ad
impedire l’applicazione di una legge dello Stato posta a tutela del diritto
alla famiglia dei bambini».
Si collega a quanto esposto da
Carollo il contributo di Paola Egidi e Isabella Dellacecca, intervenute a nome
del Coordinamento nazionale dei servizi affidi, cui aderiscono una cinquantina
di enti locali. Presentando il documento “Sensibilizzazione e modalità di
pubblicazione dell’affidamento” (1), scaturito dal confronto con le
associazioni più rappresentative operanti in questo settore, hanno messo in
evidenza che «i presupposti fondamentali
per lo sviluppo del rapporto tra servizio sociale locale e privato sociale
nell’ambito della promozione dell’affido, possono essere evidenziati in:
1) il servizio sociale che ha in carico il caso è titolare del progetto
per il bambino e per la sua famiglia;
2) le associazioni del privato sociale rivestono un ruolo fondamentale e
primario nella promozione di una cultura concreta di solidarietà;
3) il rapporto deve svilupparsi attraverso azioni coordinate a rete tra
i vari soggetti pubblici e privati in cui si confrontino produttivamente un
servizio sociale locale forte delle proprie funzioni di garante, di indirizzo e
di verifica degli interventi di promozione ed un associazionismo competente e
qualificato.
«Riteniamo che la promozione dell’affido possa essere efficacemente
realizzata solo in un contesto in cui pubblico e privato si riconoscono
reciprocamente quali portatori di competenze e funzioni diverse, trovando
sinergie e linguaggi comuni, rispetto a obiettivi chiari e definiti, basati su
principi e valori condivisi, da esplicitare, quali: caratteristiche emergenti
dei minori sui quali orientare prioritariamente la campagna, chiarezza e
condivisione degli obiettivi e del percorso di affido, consapevolezza che si
sta lavorando per gli stessi obiettivi, costruzione di alleanze sui
principi/valori fondamentali, definizione di messaggi/linguaggi omogenei, chiarezza
su compiti e ruoli. Nel processo di
coprogettazione il servizio sociale locale porterà la conoscenza dei bisogni
espressi dalle situazioni in carico e le associazioni la conoscenza del
territorio nel quale la campagna deve essere realizzata. Indispensabile è
definire insieme a chi ci si vuole rivolgere, chi è in nostro target, i
contenuti che si vogliono sviluppare e le modalità. Nella gestione delle
iniziative di promozione, accanto a
iniziative comuni in cui rendere visibile la coprogettazione e la promozione
condivisa, il valore aggiunto di un sistema di interrelazione tra pubblico e
privato è rappresentato dal
moltiplicarsi di occasioni e modi di diffusione della cultura dell’affido».
Le relatrici hanno concluso
sottolineando che «il rapporto tra pubblico
e privato nell’ambito della promozione ha un suo naturale proseguo nella fase
informativa/formativa alle famiglie che sono state sensibilizzate dalle
iniziative proposte. Infine si riconosce la competenza dell’associazionismo nel
collaborare per il mantenimento della motivazione all’affido nelle famiglie,
attraverso progetti specifici condivisi e una continua sollecitazione al
pubblico rispetto alle responsabilità che gli sono proprie».
Marina Trento ha segnalato che in
Svizzera le leggi sull’affidamento dei minori sono diverse da Cantone a
Cantone, ma gli articoli di legge più importanti, comuni a tutti i Cantoni,
prevedono «l’obbligo
dell’autorizzazione per cui chi accoglie
nella propria casa per la cura e l’educazione, durante più di tre mesi o a
tempo indeterminato, gratuitamente o attraverso compenso, un minorenne che sia
ancora sottoposto all’obbligo scolastico o che non abbia ancora compiuto i 15
anni d’età, deve essere autorizzato dall’autorità; l’obbligo
dell’autorizzazione sussiste anche se il collocamento del minorenne è ordinato
da un’autorità; i Cantoni possono abrogare l’obbligo dell’autorizzazione per
l’accoglimento di minorenni da parte di loro congiunti (nel nostro Cantone il
limite di età è posto a 16 anni anziché 15). L’autorizzazione può essere
rilasciata soltanto se i genitori affidatari e i loro conviventi, per la loro
personalità, salute e idoneità a educare l’affidato, come pure per le
condizioni d’abitazione, offrono garanzie per la cura, l’educazione e la
formazione dell’affidato e se non è messo in pericolo il bene degli altri figli
che vivono nella famiglia affidataria. L’autorità deve indagare sulle
circostanze in maniera adeguata soprattutto con visite in casa e, se
necessario, facendo ricorso a periti. I genitori affidatari devono
richiedere l’autorizzazione prima di
accogliere l’affidato».
Per quanto concerne il Canton
Ticino, la legge che regolamenta gli affidamenti risale al 1963, da questa è
partito un nuovo disegno di legge che è stato approvato nel settembre 2003 e che
verrà reso operativo entro il 2005. «Nel
Canton Ticino – ha riferito Marina Trento – l’autorità competente in materia di affidamento è costituita
dall’Ufficio del servizio sociale che sta a capo dei cinque servizi sociali di
base distribuiti sul territorio (composti in tutto da 29 assistenti sociali, 2
capo-équipe, 1 capo-ufficio). A questo Ufficio compete quindi: promuovere
l’indagine, decretare l’idoneità della famiglia candidata per l’affidamento,
rilasciare l’autorizzazione al collocamento del bambino, ideare un progetto
educativo e vigilare sull’affidamento. L’ autorizzazione viene rilasciata ad
una famiglia ritenuta idonea per un determinato minorenne. Negli anni 70 la
valutazione delle famiglie candidate era denominata “inchiesta sociale”; dall’inizio
degli anni 90 si è introdotto il concetto di “valutazione d’idoneità”;
attualmente però si sta gradualmente passando ad un nuovo approccio (“percorso
di conoscenza”) che vuole dare una svolta alla concezione di famiglia
affidataria come utente per passare a quella di famiglia affidataria come
partner di un progetto condiviso. All’Ufficio dei servizi sociali compete anche
la promozione, il coordinamento o l’attuazione diretta della formazione e della
consulenza per gli affidatari. In Ticino tale compito è stato delegato alla
nostra associazione (Atfa) a cui spetta il reperimento, il coordinamento dei
gruppi d’incontro tra famiglie e il servizio di consulenza. Gli affidamenti di
tipo consensuale sono una minoranza; nella maggior parte dei casi si tratta di
affidamenti decisi dall’autorità. Nel Canton Ticino, l’autorità che decreta
l’allontanamento di un minorenne dalla sua famiglia di origine è costituita
dalle Commissioni tutorie regionali che agiscono in stretta collaborazione con
i servizi sociali cantonali. In Ticino il 50% circa dei collocamenti di minori
avviene presso parenti. In generale possono diventare affidatari le coppie
sposate, i conviventi e i singles. Le situazioni che determinano
l’allontanamento di un minorenne dalla propria famiglia in genere riguardano
maltrattamenti fisici, psicologici, abuso o grave trascuratezza. L’affidamento
viene comunque preso in considerazione solo dopo il fallimento di altri
provvedimenti quali l’armonizzazione familiare e il sostegno alla famiglia a
diversi livelli, da quello finanziario a quello sociale o psico-sociale. Il
sistema svizzero, per la sua natura di stato federale, presenta dunque problemi
di armonizzazione dell’impianto legislativo».
Anche nel Regno Unito è stata
avviata in questi ultimi anni, secondo quanto ha riferito Jeffrey Coleman, «la sperimentazione, di tipologie nuove di
affidamento, sempre più perfezionate e mirate per rispondere alle realtà
emergenti”. Nel suo Paese l’affidamento
è diventato l’intervento più praticato: “I
minori affidati sono, attualmente,
41.000 su un totale di 60.800 in carico ai servizi sociali; ben due terzi di
questi hanno subito gravi maltrattamenti o abusi (con un aumento del 15%
rispetto al 1999!). La loro durata può essere variabile: gli affidamenti
possono essere a breve, medio e lungo termine e sono stati sperimentati anche
affidi “short breaks”»
(assimilabili ai nostri “diurni”). Le maggiori difficoltà che incontrano gli
affidatari, anche nel Regno Unito sono quelle derivanti, secondo Coleman, da
una scarsa conoscenza delle condizioni del bambino da parte loro o l’incapacità
far fronte agli affidamenti di minori con problematiche troppo complesse. Una
realtà particolarmente sentita, con cui ci si confrontando in questi ultimi
tempi, è quella dell’inserimento dei minori di altre etnie: per loro si stanno
sperimentando affidamenti a famiglie della stessa etnia. Anche il relatore
inglese, guardando al futuro, sottolinea la necessità di un ulteriore
riconoscimento del ruolo degli affidatari, che non solo devono ricevere un
rimborso spese adeguato ma devono essere considerati su un piano di parità con
gli operatori dei servizi.
L’adozione in Italia e in alcuni Paesi stranieri
La tavola rotonda sull’adozione è
stata introdotta da Massimo Dogliotti che ha sostenuto il valore dell’adozione,
entrata in vigore nel 1967 e poi migliorata con la legge 184/1983. «è un’autentica
rivoluzione copernicana, come allora è stata definita, in quanto ha affermato
come prioritario il diritto del minore in accertato stato di adottabilità ad
essere adottato, diventando figlio degli adottanti a tutti gli effetti».
Dopo un richiamo ai limiti delle modifiche apportate alla legge 184/1983 nel
2001 (e relative alla elevata differenza di età fra adottanti e adottato e alla
possibilità di accesso all’identità dei genitori biologici da parte degli
adottati adulti), Dogliotti ha richiamato l’attenzione sui rischi per i minori
derivanti da un utilizzo “estensivo” dell’adozione nei casi particolari (art.
44, lettera d).
Ioan Marin Dambeanu della Fondazione
internazionale per il bambino e la famiglia di Bucarest riferisce in merito
alla drammatica situazione dei bambini in stato di abbandono o trascuratezza
che in Romania ha caratteristiche e numeri agghiaccianti: «Sono ben 84.383 i bambini negli istituti con gravi problemi di
crescita perché mancanti delle cure e degli affetti necessari al loro sviluppo,
sono condannati per lo più, a diventare portatori di handicap e, quindi,
esclusi dalla possibilità di essere adottati nel loro Paese, anche se deve essere
ritenuto incoraggiante il fatto che sono state realizzate 2.826 adozioni
nazionali solo nell’ultimo anno».
Sul fronte delle adozioni
internazionali viene segnalata la preoccupante prospettiva che la nuova
normativa in materia di adozione in discussione in Parlamento pregiudichi la
possibilità di realizzare adozioni di minori rumeni all’estero poiché verrebbe
consentita solo ai parenti residenti in altri Stati. Al riguardo Dambeanu ha
rilevato che se da una parte deve essere fatto ogni sforzo per contrastare il
traffico dei minori, dall’altra proibire le adozioni internazionali dei bambini
in effettivo stato di adottabilità, se realizzate correttamente, sarebbe
contrario al loro stesso interesse. L’adozione non è una questione politica ma
uno strumento di protezione per i bambini senza famiglia. Perciò deve essere
difesa dalla strumentalizzazione di gruppi di pressione, nonché dall’uso
politico, economico o diplomatico, e deve garantire la preminenza
dell’interesse del bambino attraverso la professionalità e il rispetto dei
principi etici da parte di coloro che operano nel settore.
Questi temi sono stati evidenziati
anche da Katil Lehland, secondo il quale l’adozione di minori provenienti da
altri Paesi deve essere realizzata attraverso organismi autorizzati, escludendo
la possibilità di una ricerca personale del bambino da parte dei genitori
adottivi, che potrebbero, anche involontariamente, trovarsi coinvolti in
traffici di minori.
Janice Peyré ha messo in evidenza le
sue forti preoccupazioni sul futuro dell’adozione in Francia. Ha fatto
riferimento all’ampio dibattito in corso sui criteri di valutazione
dell’idoneità degli aspiranti genitori adottivi (2). Per Peyré l’incremento di «richieste di adozione di bambini piccoli
da parte di genitori maturi rappresenta certamente una pressione che i nostri
politici nazionali e qualche intermediario poco scrupoloso all’estero sarebbero
tentati di soddisfare». Precisa che non solo adottati adolescenti e maggiorenni dell’Efa, ma anche di
associazioni amiche, sostengono il principio di una adeguata differenza d’età, sottolineando che «i bambini non sono là per essere “regalati” a degli adulti privi di
figli».
Ha poi segnalato alcuni recenti
preoccupanti provvedimenti della magistratura minorile dai quali emergono
posizioni ostili all’adozione. Questa situazione mette in evidenza che la
filiazione adottiva è ritenuta, ancora da alcuni, inferiore a quella biologica
e potrebbe influenzare anche le disposizioni legislative e amministrative che
regolano la materia.
Benedicto Garcia ha così
sintetizzato la situazione nel suo Paese: «La
legislazione spagnola si è adattata alle esigenze prioritarie del “superiore
bene del minore”, stabilendo meccanismi di controllo adeguati che garantiscono
in tutto il processo di adozione i diritti fondamentali del minore. Il figlio
adottivo ha gli stessi diritti e doveri del figlio biologico, acquisisce il
cognome ed è erede legittimo degli adottanti. Secondo il diritto spagnolo l’adozione è irrevocabile. In Spagna si è
avuto un “boom” di adozioni ultimamente: nel 2002 sono state 1.145 le
adozioni nazionali e 3.400 quelle
internazionali. La nostra amministrazione non ha saputo però rispondere
adeguatamente alle richieste che la società presentava, quali ad esempio
rapidità e certezze giuridiche nei procedimenti adottivi, controllo adeguato
degli Ecai (Enti collaboratori all’adozione internazionale), servizi di formazione e informazione,
ecc.».
Maggiori difficoltà sorgono poi dal
confronto con la legislazione in materia di adozione dei paesi islamici.
L’intervento di Alì Bahman ha sottolineato che la normativa che tutela i minori
abbandonati è, nei paesi islamici, di origine coranica. Ha, quindi, illustrato
il concetto di Kafala che alcuni
traducono impropriamente con “adozione legale”. Infatti non si tratta di
adozione legittimante, non si tratta neppure di adozione, tanto che, ad esempio
in Francia, la Kafala ottenuta in un
Paese di diritto coranico non solo non è riconosciuta come adozione “piena”
(cioè legittimante) ma non sempre può esserlo come adozione “semplice” (cioè
non legittimante). L’associazione Aaefab sta lavorando per migliorare la
legislazione algerina e renderla sempre più garante del diritto del bambino ad
avere una famiglia, ma gli ostacoli che incontrano sono notevoli.
Frida Tonizzo si è soffermata sulla
situazione in Italia, richiamando i limiti delle modifiche introdotte nel 2001
con la legge n. 149, che ha affermato il diritto del minore a crescere in
famiglia ma nel contempo ha previsto che lo Stato, le Regioni e gli Enti locali
sono tenuti a sostenere le famiglie d’origine, gli affidi e le adozioni
difficili solamente «nei limiti delle
disponibilità finanziarie dei rispettivi bilanci». È quindi un diritto che
resta sulla carta, non esigibile. Ha inoltre stigmatizzato la mancanza di
adeguati sostegni alle adozioni “difficili”, mettendo in evidenza il
preoccupante divario fra il numero dei minori dichiarati adottabili e quelli
adottati (sempre inferiore ogni anno). È questa una questione che richiede una
ricognizione attenta ed approfondita da parte delle istituzioni preposte, per
attivare un sistema di rilevazione (banca dati), peraltro previsto e non ancora
realizzato dal Ministero per la giustizia, .attraverso cui individuare i minori
adottabili non ancora inseriti in famiglie e promuovere quindi le necessarie
iniziative per permettere il loro inserimento e supportando le famiglie che li
accolgono.
Le adozioni internazionali
Giovanni Guerrera ritiene che le
adozioni internazionali devono rientrare in un ampio quadro di interventi di
aiuto e sostegno nei confronti dell’infanzia con una maggiore attività di
cooperazione e solidarietà internazionale. Ne deriva la necessità per gli Stati
che accolgono bambini adottati ad impegnarsi in attività di cooperazione
internazionale. Segnala al riguardo che il 14 maggio 2004 è stato celebrato il
giorno delle famiglie, in quell’occasione l’Unicef ha richiamato l’attenzione sui bambini che
crescono privi di cure affettive e che sono a maggiore rischio di violenza,
discriminazione, traffico e sfruttamento. La famiglia, infatti, costituisce un
fattore fondamentale sia per il sano sviluppo dei bambini, sia per quello della
società.
Pippo Costella ha evidenziato come i bambini siano
particolarmente vulnerabili e più facilmente sfruttati per traffici illeciti,
come ad esempio per scopi sessuali (pedofilia), spaccio di droga, adozioni
illegali, ecc. Ha quindi affrontato questa grave realtà nella sua complessità,
facendo un’analisi delle condizioni che portano una persona (non solo i minori)
a essere oggetto di traffici illeciti, indicando anche i vari livelli di
responsabilità. Bisogna dunque che ci siano procedure per annullare questi
traffici e perché ciò possa accadere serve la cooperazione di tutti gli Stati.
Nel corso del convegno, inoltre,
sono intervenuti alcuni protagonisti dell’adozione nazionale e internazionale,
che hanno raccontato le loro storie, le loro esperienze, diverse, ma tutte
incentrate sul concetto che i genitori adottivi sono dei genitori veri. Alcuni
hanno parlato in merito alla ricerca delle radici, e tutti si sono comunque
messi in gioco focalizzando l’attenzione sul fatto che anche e soprattutto la
loro esperienza deve essere di aiuto ai bambini di oggi: non devono prevalere
le esigenze degli adulti, ma servire a migliorare l’adozione attuale.
Claudia Roffino, figlia adottiva non
riconosciuta alla nascita, ha poi rilevato l’importanza di salvaguardare la
legge che consenta il non riconoscimento e che permetta, quindi, alle donne di
affidare i propri nati alle istituzioni, evitando gli infanticidi e gli
“abbandoni nei cassonetti”. Inoltre ha sostenuto che permettere ad un bambino
non riconosciuto di cercare a distanza di anni i propri procreatori è la
negazione della vera natura dell’adozione e cioè: vera filiazione, vera maternità
e vera paternità.
Conclusioni
Si è trattato di due giornate di
studio e di confronto. Come era precisato nel titolo del convegno, e così come
è stato sostenuto da tutti i partecipanti: le leggi devono essere predisposte
“dalla parte dei bambini”, non solo per difenderli, come siamo abituati a fare,
ma anche per imparare, o meglio re-imparare, a vivere le cose come le vivono
loro: con trasporto emotivo e, se capita, con gioia: una gioia di cui non ci
dobbiamo vergognare. L’Anfaa ha regalato a “Genova 2004 - Capitale europea
della cultura” la possibilità di essere, per due giorni, capitale
internazionale (europea e mediterranea) della cultura della solidarietà e
capitale delle famiglie accoglienti, quali sono le famiglie adottive e
affidatarie che l’associazione e le altre organizzazioni convenute, ben
rappresentano. Si può dire che si è trattato soprattutto di un incontro di
associazioni e di famiglie accoglienti che riflettono insieme sulla situazione
dei loro paesi, che hanno molte cose da chiedere ai loro legislatori e ai loro
governanti.
Un ringraziamento particolare va
rivolto a Giovanni Battista Minuto, Vice presidente nazionale dell’Anfaa, che
ha organizzato il convegno.
(1) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 145/2004.
(2) Attualmente in Francia bisogna
essere sposati da almeno due anni o avere più di 28 anni. In tutti i casi
occorre avere più di 15 anni del bambino che si adotta (salvo nel caso del
bambino del coniuge, nel qual caso la differenza minima scende a 10 anni).
www.fondazionepromozionesociale.it