Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004
Interrogativi
È RAGIONEVOLE INSISTERE SULL’ATTUAZIONE DELLA LEGGE
328/2000?
Cristiano Gori, nell’articolo
“L’attuazione della 328” pubblicato sul n. 16, 2004 di Prospettive sociali e sanitarie rileva che «quattro anni sono trascorsi dall’approvazione della legge 328/2000
“Realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”» e
che «lontano paiono le grandi attese da
essa suscitate e il fermento che ha toccato il mondo del sociale nel periodo
successivo alla sua approvazione», per cui «le aspettative iniziali si sono progressivamente affievolite,
lasciando spazio a uno scenario ricco di contraddizioni».
In particolare, l’Autore constata
che non sono state attuate le «indicazioni
finalizzate alla riforma dei servizi e interventi sociali a livello nazionale,
pensate come parte di un più ampio cambiamento del complesso sistema di welfare
in Italia», le quali riguardavano
«l’introduzione del reddito minimo
d’inserimento, il riordino delle erogazioni monetarie per gli invalidi civili e
l’introduzione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali». Ne
consegue che finora non è stata ridotta «la
forte eterogeneità territoriale dei servizi e interventi sociali italiani».
Chiediamo al Professor Gori: non
ritiene che la causa vera della mancata attuazione della legge 328/2000 debba
essere ricercata nel fatto che le relative disposizioni non prevedono alcun
diritto esigibile da parte dei cittadini? (1).
Affinché una legge sia valida e
quindi applicabile, non deve esplicitare le esigenze delle persone e dei nuclei
familiari ai quali gli enti preposti alla programmazione (Regioni) e alla
gestione (Comuni singoli e associati) devono dare risposte concrete entro
termini temporali prefissati?
I contenuti della legge 328/2000 non
sono semplici e vuote dichiarazioni di principio adatte ad un documento sui
massimi sistemi, ma non ad una legge con obiettivi operativi?
Non è giunto il momento di
riconoscere che la legge 328/2000 è una scatola vuota da sostituire con norme
prescrittive sui «diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», come prevede
l’articolo 3 della legge costituzionale n. 3/2001 “Modifiche al Titolo V della
parte seconda della Costituzione”? Se «errare
humanum est» per avere considerato valida la legge 328/200, non è «diabolicum perseverare» nel chiederne
l’impossibile adeguata attuazione?
AGISCONO CORRETTAMENTE GLI OPERATORI CHE NON SEGNALANO AGLI
UTENTI I DIRITTI?
Nell’articolo “Gestione delle liste
d’attesa per l’accesso alle Rsa”, apparso sul n. 16, 15 settembre 2004 di Prospettive sociali e sanitarie, gli
assistenti sociali dell’Asl Provincia di Milano 1 Elisabetta Aiello, Lucia
Carnovali, Marcella Distaso, Lucia Fornara, Maria Giorgetti, Daniela
Magistroni, Rita Marino, Alessandra Marnati, Silvia Marra, Lina Paganini, Maria
Grazia Ruscino, Mariagrazia Stefanoni, Carla Zuffinetti, lo psicologo Gianmario
Rozzi e il medico pediatra Angelamaria Sibilano illustrano le iniziative
assunte per la determinazione della graduatoria d’accesso alle Rsa degli anziani
cronici non autosufficienti.
Le domande di ricovero prese in
esame nel 2003 sono state 414 e l’attività svolta ha coinvolto «sei enti gestori di Rsa per un totale di
nove strutture».
Gli Autori segnalano che lo
strumento di valutazione inizialmente utilizzato «determinava, di fatto, l’ingresso in struttura di anziani con un carico assistenziale molto elevato causando
disagi all’interno della Rsa». Di conseguenza è stato «messo a punto un nuovo strumento di valutazione che aveva come
obbiettivo una più equilibrata distribuzione degli ingressi e soprattutto una
rilevazione adeguata degli aspetti socio-familiari riferiti all’anziano».
Sulla base delle citazioni sopra
riportate, sorgono spontanei alcuni interrogativi. In primo luogo perché mai
viene ricordato dagli operatori l’obbligo del Servizio sanitario di garantire
la continuità delle cure sanitarie e socio-sanitarie? La lista di attesa per
l’accesso alle Rsa degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non
autosufficienza, che abbisognano – com’è evidente – di prestazioni
indilazionabili, non è un abuso praticato dalle Asl? Perché i vecchi malati ed
i loro congiunti devono sopportare le spese di degenza (anche 100-120 euro al
giorno) quando le disposizioni vigenti (legge 833/1978 e l’articolo 54 della
legge 289/2001) pongono detto onere a carico della sanità per quanto riguarda
le prestazioni mediche, sanitarie e infermieristiche, e cioè per la quota del
50%? È giuridicamente ed eticamente accettabile che gli Autori dell’articolo
affermino che «mai veniva contrastato il
desiderio di ricovero se l’anziano presentava caratteristiche compatibili con
l’inserimento in Rsa»? Se le caratteristiche erano “incompatibili”,
l’anziano malato veniva e viene ricoverato in quale struttura? E dopo quanto
tempo? I criteri di accesso alle Rsa devono essere calibrati sulla base delle
esigenze delle Rsa o tenendo conto dei bisogni e dei diritti dei vecchi malati?
Gli operatori dell’Asl Provincia di
Milano 1 forniscono informazioni scritte (e quindi controllabili) agli utenti
ed ai loro congiunti o si limitano a trasmettere indicazioni verbali e quindi
non verificabili?
SONO GIUSTIFICATE LE ATTESE DI CAMBIAMENTO SOCIALE DEL
NONPROFIT?
La rivista Politiche sociali e servizi, semestrale a cura del Centro studio e
documentazione sui servizi alla persona, Dipartimento di sociologia
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha ospitato nel n. 1, 2002
l’articolo di Luca Fazzi “L’incerto destino del settore ‘nonprofit’ in Italia”.
Premesso che «secondo i dati Istat si
contano ormai in Italia circa 220.000 organizzazioni nonprofit», l’Autore
precisa che «una parte quantitativamente
significativa, stimata intorno alle 10.000 unità, produce servizi a tutti gli
effetti sostitutivi di quelli pubblici».
Un primo interrogativo: si tratta
veramente di «servizi a tutti gli effetti
sostitutivi di quelli pubblici» e quindi anche per quel che riguarda il
loro finanziamento, oppure i 10 mila enti nonprofit svolgono attività
programmate e sovvenzionate dal settore pubblico? Pertanto, non sono «a tutti gli effetti» interventi
pubblici?
Luca Fazzi sostiene, altresì, che «gli enti pubblici sono strutturalmente
limitati a essere organizzazioni che (…) di principio forniscono soluzioni
asettiche e limitate ai problemi dei cittadini». Sulla base di quali
esperienze l’Autore afferma che solo gli interventi delle organizzazioni
nonprofit «possono essere definiti
relazionali» in quanto si connotano «per
la capacità di far scattare processi di assunzione di responsabilità che si
diffondono a livello sociale e arrivano a coinvolgere reti, attori e risorse
più o meno ampie a seconda della credibilità e della legittimazione che essi
sono in grado di attivare?».
Premesso che tutte le attività in
materia di adozione, di affidamenti e di inserimenti familiari sono state
finora svolte, salvo rarissime eccezioni, esclusivamente dal settore pubblico,
non è forse vero che esse hanno determinato notevoli cambiamenti nella società
per quanto riguarda non solo il diverso comportamento dei genitori nei
confronti dei loto figli (in particolare, maggiore attenzione agli aspetti
educativi e minore ricorso all’istituzionalizzazione), ma anche nei confronti
delle persone in difficoltà?
Non è forse opportuno evitare
giudizi generici sui servizi del settore pubblico e delle organizzazioni
nonprofit? Non bisognerebbe procedere sulla base di valutazioni oggettive
riferite alle attività svolte dai suddetti enti nei medesimi campi di azione
(ad esempio, gestione di comunità alloggio) in modo da poter comparare i
risultati effettivamente conseguiti?
Perché
Sul numero di giugno 2004 del Messaggero di Sant’Antonio è descritto
il progetto che la Caritas antoniana intende realizzare a Bagdad, in Iraq:
acquistare con le contribuzioni che riceverà dai lettori una struttura da
adibire a orfanotrofio per bambini handicappati, che sia più ampia di quella
attuale. Secondo i promotori, tale iniziativa «permetterà di avere spazi più adeguati e, soprattutto, di aumentare il
numero di bambini accolti. Molti piccoli con gravi handicap oggi vegetano senza
cure adatte alla loro condizione negli orfanotrofi della capitale». La
struttura, gestita dalle suore missionarie della carità, attualmente ospita 24
bambini dai 2 ai 12 anni.
Come avevamo già rilevato a
proposito di un’altra analoga iniziativa della Caritas antoniana (1), per la
programmazione dell’ampliamento della struttura di Bagdad è stato considerato
il diritto dei bambini ad avere una famiglia o almeno vivere in una struttura parafamiliare
com’è la comunità alloggio? È stato tenuto conto che la carenza di cure
familiari ed i ricoveri in istituto provocano nella personalità dei bambini,
ovviamente compresi quelli che si trovano in situazione di handicap, seri
traumi che difficilmente vengono superati nell’arco della loro vita? Non è
forse vero che più le strutture di ricovero sono capienti, meno sono
personalizzate?
Perché la Caritas antoniana non
approfondisce l’esperienza positiva che è stata realizzata in Zambia dal
Servizio Missioni della Comunità Papa Giovanni XXIII, presieduta da don Benzi?
Il progetto, denominato “Rainbow” (2), si pone i seguenti obiettivi:
raggiungere ed aiutare il maggior numero possibile di bambini e sostenere sia
psicologicamente che materialmente le famiglie di parenti o di altre persone
che accolgono gli orfani e gli altri fanciulli in situazione di disagio.
Secondo il Servizio Missioni della
Comunità Papa Giovanni XXIII il progetto “Rainbow”, sostenuto dalla Diocesi di
Ndola, è molto meno costoso rispetto alla costruzione di istituti. Non sarebbe
opportuno tener conto di questa esperienza innovativa?
(1) Ricordiamo che sul n. 14/2000 di Prospettive sociali e sanitarie,
commentando la legge 328/2000, Emanuele Ranci Ortigara, direttore della
suddetta rivista, aveva segnalato fra «le
previsioni più innovative» del testo, la «affermazione di un vero e proprio diritto dei cittadini a usufruire
delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato», diritto che, come
era e come è noto, è purtroppo inesistente.
(1) Cfr. “Perché la Caritas antoniana
costruisce in Kenia un istituto per bambini?”, Prospettive assistenziali, n. 138, 2002.
(2) Cfr. “L’intervento in Zambia
della Comunità Papa Giovanni XXIII a sostegno del diritto dei minori alla
famiglia”, Ibidem, n. 125, 1999.
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