Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004
L’ACCREDITAMENTO DELLE STRUTTURE
RESIDENZIALI: UNA PROCEDURA UTILIZZABILE ANCHE PER NEGARE DIRITTI AGLI UTENTI
FRANCESCO SANTANERA
Per poter operare nel campo
socio-assistenziale, le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale a
gestione pubblica o privata devono essere autorizzate dai Comuni ai sensi
dell’art. 11 della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza.
Lo stesso art. 11 prevede anche
l’accreditamento, quale provvedimento sine
qua non per la corresponsione da parte dei Comuni singoli o associati delle
«tariffe per le prestazioni erogate
nell’ambito della programmazione regionale e locale».
Inoltre, è stabilito (art. 11, comma
4 della legge 328/2000) che le Regioni, nell’ambito degli indirizzi definiti
dal Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali, «disciplinano le modalità per il rilascio da
parte dei Comuni (...) delle autorizzazioni alle erogazioni di servizi
sperimentali e innovativi, per un periodo massimo di tre anni» anche in
deroga ai requisiti minimi nazionali.
Infine, spetta alle Regioni definire
«gli strumenti per la verifica dei
risultati» conseguiti dai sopra menzionati servizi sperimentali e
innovativi.
Il possibile uso
dell’accreditamento nel settore dei malati cronici non autosufficienti e dei
soggetti con handicap
Nel settore socio-sanitario,
concernente le persone (non solo anziane) colpite da patologie invalidanti e da
non autosufficienza, vi sono iniziative da parte di istituzioni volte ad
utilizzare l’accreditamento per scaricare, in tutta la misura del possibile,
responsabilità e oneri economici sugli utenti e sui loro congiunti. È assai
probabile che la stessa finalità venga assunta nei confronti dei soggetti con
handicap e dei loro familiari.
Criteri di rilevante
importanza non inseriti nella procedura dell’accreditamento
Fra le condizioni stabilite dalle
leggi vigenti a livello nazionale e regionale per l’accreditamento, non compare
mai l’obbligo della partecipazione di delegati delle organizzazioni dell’utenza
nella definizione dei criteri che devono essere soddisfatti in materia, nonché
per i successivi adeguamenti e per l’azione di vigilanza.
In parole povere, tutta la procedura
dell’accreditamento è un fatto interno delle amministrazioni pubbliche e dei
loro addetti.
Non conosco esperienze del nostro
Paese in cui siano stati effettuati accreditamenti di servizi residenziali o
diurni coinvolgendo significative rappresentanze dell’utenza in tutto il corso
del processo autorizzativo, assegnando alle stesse organizzazioni il diritto di
partecipare alle verifiche con la necessaria autonomia, ad esempio per quanto
riguarda la scelta delle strutture da controllare.
D’altra parte, non mi risulta
nemmeno che le istituzioni segnalino agli utenti ed ai loro congiunti per
iscritto, e cioè secondo l’unica modalità che consente la verifica da parte
degli interessati (singoli cittadini e loro associazioni) della rispondenza
delle informazioni alla realtà dei fatti e alle disposizioni di legge.
Mi riferisco, ad esempio, alle
prestazioni che le strutture accreditate devono fornire a titolo gratuito:
alzare, vestire e imboccare i soggetti incapaci di farlo autonomamente,
trasportarli mediante idoneo accompagnamento presso ospedali e altri centri
sanitari nei casi in cui non sia possibile assicurare le cure dove il soggetto è
ricoverato, fornire un’alimentazione rispondente alle prescrizioni dietetiche,
ecc. (1).
Inoltre, non conosco Rsa i cui
responsabili siano tenuti dai Comuni e dalle Asl a fornire indicazioni, ad
esempio mediante tabelloni posti all’interno della struttura, circa il numero
del personale che deve essere presente durante i periodi di servizio diurni e
notturni, la loro qualifica professionale (la cui visibilità dovrebbe apparire
da appositi cartellini posti sugli abiti indossati nei turni di lavoro), il massimo
turnover ammesso per il personale a
diretto contatto degli utenti.
Infatti, è ovvio che la qualità
delle prestazioni dipende non solo dalla quantità e capacità professionale
degli operatori addetti, ma anche dalla continuità della loro presenza.
Nonostante la questione del turnover rivesta una enorme importanza
soprattutto per gli utenti delle strutture residenziali (minori e soggetti con
handicap inseriti in comunità alloggio, anziani ricoverati in Rsa, ecc.),
questa problematica non viene mai inserita fra i criteri dell’accreditamento.
Non mi risulta neanche che negli
accordi stipulati dai Comuni e dalle Asl con gli enti pubblici e privati,
cooperative sociali comprese, siano previste disposizioni volte a garantire la
possibilità di verificare se viene messo a disposizione degli utenti tutto il
personale concordato e il cui costo è stato, ovviamente, posto a carico
dell’ente appaltante. Ciò nonostante che, fatto di assoluta evidenza, la
quantità (oltre che la qualità) degli addetti sia uno degli elementi
fondamentali per garantire prestazioni idonee.
Al riguardo, sarebbe sufficiente
prevedere fra le clausole contrattuali l’obbligo dell’ente gestore di fornire
mensilmente fotocopia del libro matricola, dei versamenti effettuati all’Inps e
delle fatture emesse dal personale a rapporto professionale (2).
Per quanto riguarda le possibilità
di controllo da parte delle organizzazioni dell’utenza, ricordo la delibera
promossa dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base)
approvata dal Consiglio provinciale di Torino in data 5 ottobre 1978(3), quella
varata dal Consiglio comunale di Torino il 28 febbraio 1983 (4), nonché il
provvedimento del Cisap, Consorzio intercomunale dei servizi alla persona dei
Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino) del 21 novembre 2002 (5).
L’aprioristico ottimismo di molti esperti
Immancabilmente, tutte le volte che
nel campo socio-assistenziale sono approvate nuove disposizioni (com’è
successo, ad esempio, in occasione dell’entrata in vigore delle leggi 104/1992
sull’handicap e la 328/2000 di riforma dell’assistenza) (6), vi sono esperti
che esprimono giudizi favorevoli, senza considerare gli aspetti negativi per
gli utenti ed i rischi possibili, come se in questo settore le iniziative delle
istituzioni fossero sempre e solo assunte a favore dei soggetti deboli.
Ad esempio, Gianmaria Gioga,
dirigente dei servizi sociali dell’Ulss 16 di Padova, e Alessandro Pompei,
coordinatore di progetti della Fondazione Zancan, nell’articolo “Linee guida
per l’accreditamento: dalla teoria alla sperimentazione”, apparso sulla rivista
Studi Zancan - Politiche e servizi alla
persona, n. 4, 2003, sostengono che l’istituto dell’accreditamento «è da considerarsi uno strumento essenziale
di garanzia e di tutela per la salute dei cittadini e strategico per le
prospettive evolutive della qualità dei servizi alla persona e alla famiglia».
Inoltre, per i suddetti Autori,
l’accreditamento «è uno strumento per
verificare livelli di qualità e appropriatezza del sistema di offerta e per
rendere più incisiva la capacità di tutela della salute delle persone». Inoltre
«è utile per garantire i destinatari dei
servizi, indipendentemente da quale sia il soggetto erogatore e per rendere
fattiva la partecipazione dei cittadini alla definizione e alla valutazione
della qualità dei servizi». Infine «è
uno strumento per dare trasparenza alle scelte dei servizi, promovendo
l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni qualificandone la
professionalità».
Gioga e Pompei arrivano addirittura
ad affermare che «l’accreditamento
rappresenta una condizione di esigibilità dei diritti della persona», senza
tener conto che i diritti sono azionabili solamente nei casi in cui i
provvedimenti (leggi nazionali o regionali o delibere degli enti locali) li
stabiliscano in modo esplicito.
Aspetti fondamentali
dell’autorizzazione e dell’accreditamento
Da decenni, è arcinoto anche ai
non esperti che per garantire un idoneo
funzionamento delle strutture di accoglienza e di ricovero occorre tenere in
attenta considerazione i seguenti aspetti:
1. la definizione dell’utenza ammissibile. Se non si rispetta questo
fondamentale e prioritario principio, le conseguenze possono essere disastrose.
Ad esempio, il Comune di Torino ha rilasciato in data 18 novembre 1997
l’autorizzazione alla società a responsabilità limitata “Assiogen” di aprire a
Torino, corso Gabetti 18, due comunità alloggio socio-assistenziali. Nella
prima erano accolti minori di età compresa fra 8 e 12 anni, nella seconda
adolescenti. La presenza nello stesso stabile delle due strutture e il ricovero
nella seconda comunità anche di soggetti aventi disturbi psichiatrici sono
state le condizioni che hanno consentito ai più grandi di infliggere violenze,
anche di natura sessuale, ai più piccini (7). Ricordiamo, inoltre, che la mancata
definizione delle caratteristiche dell’utenza secondo criteri di buon senso ha
determinato anche l’uccisione di ricoverati da parte di altri degenti (8);
2. la collocazione territoriale delle strutture. È evidente che le strutture
dovrebbero essere inserite nel vivo del contesto sociale e situate in modo da
consentire in tutta la misura del possibile i rapporti degli utenti con la
comunità circostante e da essere facilmente raggiungibili non solo dai
congiunti, ma anche dagli operatori. Purtroppo, ancora attualmente sono
numerose le situazioni di vera e propria “deportazione” assistenziale degli
assistiti. Molto spesso, invece di individuare la collocazione delle strutture
rispettando le esigenze degli utenti, vengono aperti presidi assistenziali per utilizzare
fabbricati situati in zone depresse, scarsamente abitate e non destinabili a
funzioni più redditizie;
3. il numero dei posti letto. Anche la capienza massima della struttura dovrebbe essere
definita tenendo conto delle necessità degli utenti. Pertanto, come andiamo
ripetendo da anni, per i minori ed i soggetti con handicap, se non assistibili
a livello familiare, dovrebbero essere previste comunità alloggio di 8-10
posti; le Rsa per gli anziani malati cronici non autosufficienti, la cui
capienza massima è di 120 posti letto, dovrebbero essere dimensionate
esclusivamente secondo i bisogni esistenti nel territorio in cui sono situate;
4. la qualificazione professionale e il numero del personale addetto. Non occorrono molte parole per
riaffermare l’estrema importanza della questione del personale, soprattutto
qualora si tratti di strutture residenziali. Occorre ricordare che in tutti i
casi in cui sono stati riscontrati abusi e maltrattamenti, sempre vi era
carenza di operatori sia sotto il profilo numerico che in merito alla loro
preparazione professionale (9);
5. i criteri di accesso. Questo aspetto è quasi sempre ignorato, nonostante sia
determinante per gli utenti. Infatti, i criteri di accesso ai servizi sono
strettamente legati ai diritti dei cittadini in difficoltà. Detti criteri –
com’è facilmente comprensibile – dovrebbero essere ricavati sulla base delle
vigenti disposizioni legislative. Ad esempio, l’accesso alle comunità alloggio
per i soggetti con handicap, per i quali non sono praticabili gli interventi
domiciliari (aiuti ai nuclei familiari di origine, inserimenti presso terzi,
ecc.) dovrebbe essere previsto tenendo conto degli articoli 154 e 155 del regio
decreto 773/1931 che obbligano i Comuni a provvedere (10). Per i criteri di
accesso degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza
bisognerebbe fare riferimento alle norme che non consentono l’interruzione
delle cure sanitarie, per cui l’ammissione alle Rsa, salva diversa decisione da
parte del soggetto malato e/o dei suoi congiunti, deve essere prevista in tutti
i casi in cui non sono praticabili per qualsiasi motivo (compresa la non
disponibilità dei familiari) le cure domiciliari. Nell’attuale realtà accade,
invece, che pur in presenza del diritto esigibile alla continuità delle cure
socio-sanitarie, essi siano inseriti in liste d’attesa, per un periodo di tempo
anche superiore ai due anni.
La presunta
possibilità di scelta dei servizi da parte degli utenti
Nel citato articolo “Linee guida per
l’accreditamento: dalla teoria alla sperimentazione”, Gioga e Pompei affermano
che l’accreditamento sarebbe necessario anche «per promuovere il diritto alla libera scelta» del servizio da
parte dell’utenza.
È innanzitutto necessario osservare
che, affinché vi sia una effettiva possibilità di scelta, vi è l’assoluta
necessità che vi siano posti liberi e che agli utenti ed alle loro
rappresentanze (organizzazioni di tutela e associazioni di volontariato)
vengano forniti i dati occorrenti per conoscere quali sono le prestazioni fornite
e le loro caratteristiche, la quantità e la qualifica professionale del
personale durante i vari turni di lavoro, nonché la dimensione del turnover.
Purtroppo, allo stato attuale delle
cose, la scelta della struttura per la degenza dei propri congiunti colpiti da
handicap grave o da patologie invalidanti e da non autosufficienza viene
effettuata quasi sempre accettando il primo posto disponibile.
Per gli anziani cronici, dopo averlo
aspettato per 18-24 mesi, periodo durante il quale sono stati costretti a
versare da 80 a 110 euro al giorno, e cioè complessivamente da 40 a 80 mila
euro, la situazione economica dell’interessato e dei suoi congiunti è tale da
imporre l’accettazione di qualsiasi soluzione che alleggerisca il loro impegno
economico (11).
L’illusione della
concorrenza fra i diversi produttori di servizi
Un altro elemento, sostenuto da
Gioga e Pompei a favore dell’accreditamento, è l’introduzione di «elementi di concorrenza fra i diversi
produttori», fatto che dovrebbe di per sé migliorare la qualità delle
prestazioni.
Mentre il principio della
concorrenza, entro giusti limiti, è fondamentale nel campo delle attività
materiali, la sua semplice trasposizione nel settore dei servizi alla persona
non può che condurre a conseguenze negative per l’utenza.
Nella fabbricazione di oggetti, ad
esempio di parti di auto, un ruolo di fondamentale importanza è assolto dalle
attrezzature. Per un adeguato svolgimento del lavoro è spesso sufficiente che
il personale addetto sia solamente capace di sorvegliare il corretto
funzionamento del macchinario. D’altra parte i pezzi non conformi sono
scartati. Il danno è esclusivamente di natura economica.
Inoltre, l’aumento della
produttività può essere realizzato sia con una maggiore scomposizione del
lavoro (e quindi con la presenza di mano d’opera meno qualificata e pertanto
meno pagata), sia mediante l’aumento delle ore di attività passando, ad
esempio, da uno a due o tre turni giornalieri, oppure assumendo personale anche
per periodi limitati nel tempo. Tutto ciò può essere realizzato senza inficiare
la qualità della produzione.
Analoghe sono le possibilità nel
caso di riduzione dell’attività lavorativa. La cassa integrazione è un
ulteriore strumento utilizzabile.
Ben diversa è la situazione dei
servizi alla persona per il cui corretto funzionamento è assolutamente
indispensabile – lo ripetiamo – non solo la presenza qualitativa e quantitativa
del personale necessario, ma anche la sua stabilità.
Ne deriva che il numero degli utenti
delle strutture di degenza non dovrebbe subire troppe forti oscillazioni.
Infatti, com’è evidente, una notevole riduzione (ad esempio nella misura del
20-30%) rispetto alla capienza programmata dall’ente gestore privato, determina
una consistente diminuzione delle entrate, diminuzione che nei fatti può essere
fronteggiata o con il pagamento da parte degli enti pubblici dei posti vuoti di
una quota corrispondente agli stipendi del personale inutilizzato, oppure con
il licenziamento degli addetti in esubero.
Occorre pertanto ripensare alla questione
della concorrenza, tenendo nella dovuta considerazione le esigenze reali
dell’utenza, nonché i vincoli imposti all’imprenditoria privata da una gestione
economica non fallimentare.
Molto differenti sono le
problematiche delle strutture pubbliche, i cui eventuali passivi possono essere
scaricati sulla collettività.
Una clausola sfavorevole per gli utenti
Il terzo comma dell’articolo 29
della legge della Regione Piemonte 8 gennaio 2004, n. 1 “Norme per la
realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e
riordino della legislazione di riferimento” prevede quanto segue: «Le strutture autorizzate ed accreditate
sono convenzionabili con il sistema pubblico senza impegno di utilizzo e di
remunerazione dei posti letto convenzionati, ma solo di quelli utilizzati dai
cittadini assistibili nei limiti previsti del piano socio-sanitario regionale e
in base alle spese programmate dall’Asl di competenza, in attuazione e nel
pieno rispetto dei principi dettati dall’articolo 3, comma 2, lettera a [e
cioè differenziazione degli interventi e dei servizi per garantire la pluralità
di offerta e il diritto di scelta da parte degli interessati, n.d.r.] per quanto attiene, in special modo, il
diritto di scelta da parte degli utenti».
A prima vista la sopra riportata
disposizione può sembrare positiva in quanto ha lo scopo di evitare che vengano
corrisposte rette per ricoveri non effettuati e, magari, nemmeno previsti in
concreto.
Tuttavia, in base a quanto abbiamo
osservato in precedenza, il mancato impegno di assicurare l’occupazione di
tutti i posti letto concordati, determina inevitabilmente la necessità per le
strutture private, al fine di evitare perdite di esercizio, di dover ricorrere
– come abbiamo già osservato – all’assunzione temporanea, a seconda delle
mutevoli esigenze, di una parte non indifferente del personale occorrente.
I contratti
sottoscritti dagli utenti: conseguenze anche devastanti
Come abbiamo affermato all’inizio di
questo articolo, l’accreditamento viene molto spesso utilizzato dalle
istituzioni per «scaricare, in tutta la
misura del possibile, responsabilità e oneri economici sugli utenti e sui loro
congiunti».
Nella prassi abituale succede che,
ottenuta dall’Asl l’impegnativa relativa al pagamento della quota sanitaria, il
soggetto interessato o un congiunto si rivolga alla struttura scelta o a quella
indicata dalla stessa Asl.
A questo punto, condizione sine qua non per ottenere il ricovero è
la sottoscrizione da parte del soggetto interessato o di un suo parente o di altro
garante dell’impegnativa predisposta dall’ente gestore della Rsa.
Con la suddetta sottoscrizione,
viene a tutti gli effetti stipulato un contratto di natura privata di cui non
sono parte in causa né le Asl, né i Comuni, compresi gli enti che hanno provveduto
all’accreditamento.
Ne consegue che le suddette
istituzioni non assumono alcuna specifica responsabilità nei confronti del
soggetto assistito: difesa del suo diritto ad ottenere prestazioni adeguate
alle sue esigenze, trasferimento a cura e spese delle Asl presso strutture
sanitarie qualora gli interventi occorrenti non vengano assicurati dalla
struttura in cui è ricoverato, diritto di accesso ad altra Rsa nei casi di
chiusura di quella in cui è degente, ecc.
Le Asl ed i Comuni si limitano, come
avviene attualmente, a provvedere ad una attività di vigilanza in merito alle
condizioni previste dall’accreditamento. Tuttavia, com’è noto i controlli delle
Asl e dei Comuni sono, in genere, estremamente carenti, com’è anche dimostrato
dall’attività dei Nas. Infatti, su 842 ispezioni effettuate nel 2002 in
Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia
Giulia e Valle d’Aosta, sono state accertate ben 473 violazioni penali e 151
amministrative (12).
Per quanto concerne gli oneri economici,
mentre le Asl versano le quote sanitarie direttamente alle strutture di degenza
(Rsa e simili), i Comuni si comportano in modo diverso, scaricandone l’onere
sulla persona interessata o sul parente
o sul garante che ha sottoscritto l’impegnativa con l’ente gestore della
residenza. In questo modo il Comune ha ampie possibilità di sottrarsi ai suoi
precisi obblighi di legge (13).
Avendo sottoscritto un contratto
privato, i congiunti del ricoverato sono tenuti a corrispondere l’intera quota
alberghiera, anche nei casi in cui le risorse economiche del degente non sono
sufficienti a coprire l’intero importo. A questo punto i Comuni possono (e lo
fanno assai sovente) rifiutarsi di provvedere all’integrazione economica della
retta (14), asserendo – il che è falso come abbiamo ripetutamente rilevato su
questa rivista – che i parenti sono obbligati ad intervenire in base alle
vigenti norme del codice civile sugli alimenti.
Anche se, com’è ovvio, occorre
promuovere la permanenza a casa loro dei soggetti in difficoltà a causa di
handicap o di malattie invalidanti e agire per la prioritaria ricerca di
soluzioni domiciliari (15), non si può dimenticare che l’obbligo di assistenza
è attribuito dalla legge ai Comuni, mentre analogo vincolo giuridico non è
previsto per i congiunti (16).
D’altra parte, il coinvolgimento di
parenti e di non parenti non dovrebbe mai comportare conseguenze insopportabili
sotto il profilo dell’impegno personale e degli oneri economici.
La strada maestra per favorire una
cultura ed una prassi favorevoli alla domiciliarità è costituita dalla
precisazione, la più puntuale possibile, dei compiti del settore pubblico e
delle responsabilità assunte dai congiunti o da terze persone (17).
Affinché permanga tutta la
responsabilità attribuita dalle leggi vigenti agli enti pubblici (Asl e
Comuni), occorre che il ricovero venga disposto dai suddetti enti, i quali
ovviamente si comportano correttamente se tengono conto della scelta della
struttura fatta dall’utente o da suoi congiunti, sempre che ciò non determini
costi aggiuntivi per gli stessi enti pubblici.
Allo scopo di evitare che possano
essere sollevati dubbi sulla competenza del Comune che ha disposto il ricovero,
occorre inoltre che la retta a carico dell’assistito venga consegnata al Comune
stesso e non all’ente gestore della struttura. I versamenti potrebbero essere
effettuati dall’utente all’ente gestore solamente secondo procedure tali da
evitare che il Comune possa avanzare pretesti per sottrarsi alle sue
responsabilità.
Ad esempio, il Comune (o il
Consorzio di Comuni) potrebbe segnalare
per iscritto al soggetto interessato di versare la retta direttamente all’ente
gestore, precisando che la richiesta viene fatta esclusivamente per i motivi di
semplificazione burocratica.
In sostanza, occorre evitare
l’assunzione di iniziative e di impegni che possano essere utilizzati dai
Comuni e dai Consorzi - come purtroppo spesso avviene – allo scopo di eludere
le responsabilità ad essi attribuite dalle leggi vigenti (18).
La stipula delle convenzioni
Le vigenti disposizioni in materia
di accreditamento non vietano certamente la stipula di convenzioni fra il
settore pubblico (Comuni singoli e associati, Asl, ecc.) e gli enti gestori
pubblici e privati delle strutture ricettive per minori, soggetti con handicap,
anziani cronici non autosufficienti, malati di Alzheimer, ecc.
In dette convenzioni le Asl ed i
Comuni singoli o associati dovrebbero precisare i compiti assegnati agli enti
gestori in base alle vigenti disposizioni di legge, definire le caratteristiche
dell’utenza ammissibile ed i relativi criteri di accesso, nonché i vincoli
stabiliti per la collocazione territoriale delle strutture ricettive, i
contenuti delle prestazioni e le modalità del loro espletamento, la quantità e
la qualificazione professionale del personale addetto in relazione ai periodi
di lavoro diurni e notturni, le misure dirette a contenere il turn over in limiti accettabili e le
disposizioni relative agli eventuali trasferimenti dei ricoverati in altre
strutture, le norme concernenti la vigilanza, gli accreditamenti relativi
all’osservanza delle prescrizioni impartite, la contestazione delle
inadempienze contrattuali, l’esame dei reclami presentati dai degenti o dai
loro congiunti, ecc.
Nelle convenzioni dovrebbero anche
essere precisate le possibilità di accesso delle organizzazioni di volontariato
e delle organizzazioni di tutela degli utenti e il loro ruolo, compresa la loro
partecipazione alle attività di vigilanza spettanti ai Comuni e alle Asl.
Se gli enti pubblici ed i gestori privati
agissero, come sempre ripetono, per il benessere degli utenti, dovrebbero
essere ben lieti che le forze sociali possano prendere atto del loro corretto
operato tramite gli accertamenti diretti compiuti da propri rappresentanti.
(1) Il regolamento della Rsa “Cinque
torri” di Settimo Torinese, inserita nell’albo dei prestatori dei servizi
socio-sanitari del Comune di Torino con delibera della Giunta del capoluogo
piemontese del 26 novembre 2002 stabilisce quanto segue: «Le diete particolari devono essere proposte dal medico di fiducia
dell’ospite ed elaborate dal dietista; saranno gratuite o a pagamento secondo
il giudizio discrezionale della direzione».
(2) Analoga richiesta era contenuta
nella petizione popolare, sottoscritta da 7.458 cittadini, consegnata alla
Presidenza del Consiglio regionale piemontese il 21 giugno 2001. In data 5
febbraio 2002 erano state consegnate altre 5.108 firme.
(3) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 50, 1980.
(4) Cfr. Maria Grazia Breda e
Francesco Santanera, Handicap oltre la
legge quadro - Riflessioni e proposte, Utet Libreria.
(5) Cfr. “Controllo dei servizi
socio-assistenziali da parte dei movimenti di base: una valida delibera”, Prospettive assistenziali, n. 141, 2003.
In merito all’attività svolta dalla Commissione deliberata dal Comune di
Torino, si veda l’articolo di Maria Grazia Breda “Come le associazioni di
volontariato possono tutelare gli utenti dei servizi assistenziali”, Ibidem, n. 140, 2002.
(6) Come è stato rilevato su questa
rivista, alcuni esperti hanno sostenuto che nella leggi 104/1992 e 328/2000
erano previsti diritti esigibili, nonostante la loro evidente inesistenza.
(7) In un prossimo articolo forniremo
notizie dettagliate riguardanti i processi che hanno portato alla condanna
penale del responsabile amministrativo delle due comunità e di due educatori a
cui era stato affidata la gestione. Alcune informazioni sulla vicenda sono
contenute nella nota “Tutelate i minori ricoverati nelle comunità alloggio
perché non subiscano più abusi e maltrattamenti”, Prospettive assistenziali, n. 143, 2003.
(8) Cfr. gli articoli “Perché nella
casa di riposo ‘Via Roma’ di Bologna sono ricoverati anche malati di mente?”, Ibidem, n. 122, 1998 e “Tragica
conseguenza del trasferimento di pazienti psichiatrici dalla sanità all’assistenza”,
Ibidem, n. 138, 2002.
(9) Cfr. i seguenti articoli
pubblicati su Prospettive assistenziali:
“Allucinanti condizioni di vita di anziani ricoverati in una casa di riposo”,
n. 128, 1999; “Condannati i gestori di una pensione abusiva: disumane le
condizioni di vita degli anziani ricoverati”, n. 132, 2000; “Gestore e
operatori di una casa di riposo condannati dal Tribunale di Mondovì”, n. 135,
2001; “Comunicato stampa dei Nas sui controlli eseguiti in campo nazionale alle
strutture ricettive di anziani” e “Letti a turno nella casa di riposo”, n. 136,
2001; “Un esempio di malasanità piemontese”, n. 137, 2002; “Allarmante la
situazione dei minori della Campania”, n. 138, 2002; “Secondo comunicato stampa
dei Nas sulle strutture ricettive per anziani: nuove gravi infrazioni penali e
amministrative”, n. 139, 2002; “Sevizie inflitte ai bambini ricoverati in un
istituto della Provincia di Lecce”, n. 140, 2002; “Violenze e sevizie sui
bambini ricoverati in istituto: siamo ancora il Paese dei Celestini” e “Altre
violenze inflitte ad anziani ricoverati in istituto”, n. 141, 2003; “Ancora
violenze ad anziani istituzionalizzati”, n. 142, 2003; “Controlli effettuati
dai Nas sulle strutture residenziali per anziani: altre allarmanti infrazioni
penali e amministrative”, n. 143, 2003; “Quarta indagine dei Nas sulle
strutture ricettive per anziani: accertate altre gravi irregolarità” e
“Trentadue ospedali della Lombardia dicono no al ricovero urgente di una
anziana di ottantacinque anni”, n. 145, 2004.
(10) Cfr. Massimo Dogliotti, “I
minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà…‘pericolosi per
l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere assistiti dai Comuni”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.
(11) Accertata la non autosufficienza
e stabilita la necessità del ricovero presso le rsa, le Asl inseriscono gli
anziani cronici non autosufficienti in una lista di attesa. Durante questo
periodo, esse non versano la quota sanitaria che, di conseguenza, è interamente
a carico dell’utente e/o dei suoi congiunti insieme a quella alberghiera. A
loro volta, i Comuni, fino a quando l’Asl non corrisponde la quota sanitaria,
non provvedono all’integrazione della retta per i soggetti che non dispongono
di risorse economiche sufficienti per la sua totale copertura. In questi casi
gli oneri sono molto sovente sostenuti
dai parenti che, per ottenere il ricovero, sottoscrivono l’impegno di
corrispondere l’intero importo richiesto dall’ente.
(12) Si veda la nota n. 9.
(13) Cfr. la nota n. 10.
(14) Cfr. “L’integrazione delle rette
di ricovero assistenziale da parte degli enti pubblici - Un altro imbroglio”, Ibidem, n. 142, 2003.
(15) Ricordiamo che le organizzazioni
aderenti al Csa hanno sempre operato a favore della domiciliarità, superando
spesso resistenze anche molto forti. Ricordiamo, ad esempio, le leggi 431/1967
e 184/1984 sull’adozione a favore dei fanciulli privi di assistenza materiale e
morale da parte dei loro congiunti, l’istituzione a Torino nel 1971 del primo
servizio italiano di affidamento familiare di minori a scopo educativo, le
iniziative concernenti gli aiuti psico-sociali ai nuclei familiari di origine
dei minori, con particolare riguardo a quelli con soggetti colpiti da handicap, la creazione insieme
all’Istituto di geriatria dell’Università di Torino del servizio di
ospedalizzazione a domicilio (1984).
(16) Non vi sono, infatti, sanzioni
penali, pecuniarie o di altra natura nei confronti dei congiunti anche
conviventi che si rivolgono agli enti di assistenza per il ricovero dei loro
familiari.
(17) Il Csa ritiene indispensabile
per lo sviluppo della domiciliarità che le leggi stabiliscano un vero e proprio
diritto delle cure domiciliari (cfr. “Bozza di proposta di legge sulle cure
domiciliari”, Prospettive assistenziali, n.
140, 2002). Occorre, inoltre, che gli enti pubblici competenti in materia
stipulino accordi scritti con i nuclei familiari interessati, di modo che siano
precisati i relativi diritti e doveri.
(18) Cfr. “L’integrazione delle rette
di ricovero assistenziale...”, op. cit.
www.fondazionepromozionesociale.it