Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004

 

L’ACCREDITAMENTO DELLE STRUTTURE RESIDENZIALI: UNA PROCEDURA UTILIZZABILE ANCHE PER NEGARE DIRITTI AGLI UTENTI

FRANCESCO SANTANERA

 

 

Per poter operare nel campo socio-assistenziale, le strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale a gestione pubblica o privata devono essere autorizzate dai Comuni ai sensi dell’art. 11 della legge 328/2000 di riforma dell’assistenza.

Lo stesso art. 11 prevede anche l’accreditamento, quale provvedimento sine qua non per la corresponsione da parte dei Comuni singoli o associati delle «tariffe per le prestazioni erogate nell’ambito della programmazione regionale e locale».

Inoltre, è stabilito (art. 11, comma 4 della legge 328/2000) che le Regioni, nell’ambito degli indirizzi definiti dal Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali, «disciplinano le modalità per il rilascio da parte dei Comuni (...) delle autorizzazioni alle erogazioni di servizi sperimentali e innovativi, per un periodo massimo di tre anni» anche in deroga ai requisiti minimi nazionali.

Infine, spetta alle Regioni definire «gli strumenti per la verifica dei risultati» conseguiti dai sopra menzionati servizi sperimentali e innovativi.

 

Il possibile uso dell’accreditamento nel settore dei malati cronici non autosufficienti e dei soggetti con handicap

 

Nel settore socio-sanitario, concernente le persone (non solo anziane) colpite da patologie invalidanti e da non autosufficienza, vi sono iniziative da parte di istituzioni volte ad utilizzare l’accreditamento per scaricare, in tutta la misura del possibile, responsabilità e oneri economici sugli utenti e sui loro congiunti. È assai probabile che la stessa finalità venga assunta nei confronti dei soggetti con handicap e dei loro familiari.

 

Criteri di rilevante importanza non inseriti nella procedura dell’accreditamento

 

Fra le condizioni stabilite dalle leggi vigenti a livello nazionale e regionale per l’accreditamento, non compare mai l’obbligo della partecipazione di delegati delle organizzazioni dell’utenza nella definizione dei criteri che devono essere soddisfatti in materia, nonché per i successivi adeguamenti e per l’azione di vigilanza.

In parole povere, tutta la procedura dell’accreditamento è un fatto interno delle amministrazioni pubbliche e dei loro addetti.

Non conosco esperienze del nostro Paese in cui siano stati effettuati accreditamenti di servizi residenziali o diurni coinvolgendo significative rappresentanze dell’utenza in tutto il corso del processo autorizzativo, assegnando alle stesse organizzazioni il diritto di partecipare alle verifiche con la necessaria autonomia, ad esempio per quanto riguarda la scelta delle strutture da controllare.

D’altra parte, non mi risulta nemmeno che le istituzioni segnalino agli utenti ed ai loro congiunti per iscritto, e cioè secondo l’unica modalità che consente la verifica da parte degli interessati (singoli cittadini e loro associazioni) della rispondenza delle informazioni alla realtà dei fatti e alle disposizioni di legge.

Mi riferisco, ad esempio, alle prestazioni che le strutture accreditate devono fornire a titolo gratuito: alzare, vestire e imboccare i soggetti incapaci di farlo autonomamente, trasportarli mediante idoneo accompagnamento presso ospedali e altri centri sanitari nei casi in cui non sia possibile assicurare le cure dove il soggetto è ricoverato, fornire un’alimentazione rispondente alle prescrizioni dietetiche, ecc. (1).

Inoltre, non conosco Rsa i cui responsabili siano tenuti dai Comuni e dalle Asl a fornire indicazioni, ad esempio mediante tabelloni posti all’interno della struttura, circa il numero del personale che deve essere presente durante i periodi di servizio diurni e notturni, la loro qualifica professionale (la cui visibilità dovrebbe apparire da appositi cartellini posti sugli abiti indossati nei turni di lavoro), il massimo turnover ammesso per il personale a diretto contatto degli utenti.

Infatti, è ovvio che la qualità delle prestazioni dipende non solo dalla quantità e capacità professionale degli operatori addetti, ma anche dalla continuità della loro presenza.

Nonostante la questione del turnover rivesta una enorme importanza soprattutto per gli utenti delle strutture residenziali (minori e soggetti con handicap inseriti in comunità alloggio, anziani ricoverati in Rsa, ecc.), questa problematica non viene mai inserita fra i criteri dell’accreditamento.

Non mi risulta neanche che negli accordi stipulati dai Comuni e dalle Asl con gli enti pubblici e privati, cooperative sociali comprese, siano previste disposizioni volte a garantire la possibilità di verificare se viene messo a disposizione degli utenti tutto il personale concordato e il cui costo è stato, ovviamente, posto a carico dell’ente appaltante. Ciò nonostante che, fatto di assoluta evidenza, la quantità (oltre che la qualità) degli addetti sia uno degli elementi fondamentali per garantire prestazioni idonee.

Al riguardo, sarebbe sufficiente prevedere fra le clausole contrattuali l’obbligo dell’ente gestore di fornire mensilmente fotocopia del libro matricola, dei versamenti effettuati all’Inps e delle fatture emesse dal personale a rapporto professionale (2).

Per quanto riguarda le possibilità di controllo da parte delle organizzazioni dell’utenza, ricordo la delibera promossa dal Csa (Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) approvata dal Consiglio provinciale di Torino in data 5 ottobre 1978(3), quella varata dal Consiglio comunale di Torino il 28 febbraio 1983 (4), nonché il provvedimento del Cisap, Consorzio intercomunale dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco (Torino) del 21 novembre 2002 (5).

 

L’aprioristico ottimismo di molti esperti

Immancabilmente, tutte le volte che nel campo socio-assistenziale sono approvate nuove disposizioni (com’è successo, ad esempio, in occasione dell’entrata in vigore delle leggi 104/1992 sull’handicap e la 328/2000 di riforma dell’assistenza) (6), vi sono esperti che esprimono giudizi favorevoli, senza considerare gli aspetti negativi per gli utenti ed i rischi possibili, come se in questo settore le iniziative delle istituzioni fossero sempre e solo assunte a favore dei soggetti deboli.

Ad esempio, Gianmaria Gioga, dirigente dei servizi sociali dell’Ulss 16 di Padova, e Alessandro Pompei, coordinatore di progetti della Fondazione Zancan, nell’articolo “Linee guida per l’accreditamento: dalla teoria alla sperimentazione”, apparso sulla rivista Studi Zancan - Politiche e servizi alla persona, n. 4, 2003, sostengono che l’istituto dell’accreditamento «è da considerarsi uno strumento essenziale di garanzia e di tutela per la salute dei cittadini e strategico per le prospettive evolutive della qualità dei servizi alla persona e alla famiglia».

Inoltre, per i suddetti Autori, l’accreditamento «è uno strumento per verificare livelli di qualità e appropriatezza del sistema di offerta e per rendere più incisiva la capacità di tutela della salute delle persone». Inoltre «è utile per garantire i destinatari dei servizi, indipendentemente da quale sia il soggetto erogatore e per rendere fattiva la partecipazione dei cittadini alla definizione e alla valutazione della qualità dei servizi». Infine «è uno strumento per dare trasparenza alle scelte dei servizi, promovendo l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni qualificandone la professionalità».

Gioga e Pompei arrivano addirittura ad affermare che «l’accreditamento rappresenta una condizione di esigibilità dei diritti della persona», senza tener conto che i diritti sono azionabili solamente nei casi in cui i provvedimenti (leggi nazionali o regionali o delibere degli enti locali) li stabiliscano in modo esplicito.

 

Aspetti fondamentali dell’autorizzazione e dell’accreditamento

 

Da decenni, è arcinoto anche ai non  esperti che per garantire un idoneo funzionamento delle strutture di accoglienza e di ricovero occorre tenere in attenta considerazione i seguenti aspetti:

1. la definizione dell’utenza ammissibile. Se non si rispetta questo fondamentale e prioritario principio, le conseguenze possono essere disastrose. Ad esempio, il Comune di Torino ha rilasciato in data 18 novembre 1997 l’autorizzazione alla società a responsabilità limitata “Assiogen” di aprire a Torino, corso Gabetti 18, due comunità alloggio socio-assistenziali. Nella prima erano accolti minori di età compresa fra 8 e 12 anni, nella seconda adolescenti. La presenza nello stesso stabile delle due strutture e il ricovero nella seconda comunità anche di soggetti aventi disturbi psichiatrici sono state le condizioni che hanno consentito ai più grandi di infliggere violenze, anche di natura sessuale, ai più piccini (7). Ricordiamo, inoltre, che la mancata definizione delle caratteristiche dell’utenza secondo criteri di buon senso ha determinato anche l’uccisione di ricoverati da parte di altri degenti (8);

2. la collocazione territoriale delle strutture. È evidente che le strutture dovrebbero essere inserite nel vivo del contesto sociale e situate in modo da consentire in tutta la misura del possibile i rapporti degli utenti con la comunità circostante e da essere facilmente raggiungibili non solo dai congiunti, ma anche dagli operatori. Purtroppo, ancora attualmente sono numerose le situazioni di vera e propria “deportazione” assistenziale degli assistiti. Molto spesso, invece di individuare la collocazione delle strutture rispettando le esigenze degli utenti, vengono aperti presidi assistenziali per utilizzare fabbricati situati in zone depresse, scarsamente abitate e non destinabili a funzioni più redditizie;

3. il numero dei posti letto. Anche la capienza massima della struttura dovrebbe essere definita tenendo conto delle necessità degli utenti. Pertanto, come andiamo ripetendo da anni, per i minori ed i soggetti con handicap, se non assistibili a livello familiare, dovrebbero essere previste comunità alloggio di 8-10 posti; le Rsa per gli anziani malati cronici non autosufficienti, la cui capienza massima è di 120 posti letto, dovrebbero essere dimensionate esclusivamente secondo i bisogni esistenti nel territorio in cui sono situate;

4. la qualificazione professionale e il numero del personale addetto. Non occorrono molte parole per riaffermare l’estrema importanza della questione del personale, soprattutto qualora si tratti di strutture residenziali. Occorre ricordare che in tutti i casi in cui sono stati riscontrati abusi e maltrattamenti, sempre vi era carenza di operatori sia sotto il profilo numerico che in merito alla loro preparazione professionale (9);

5. i criteri di accesso. Questo aspetto è quasi sempre ignorato, nonostante sia determinante per gli utenti. Infatti, i criteri di accesso ai servizi sono strettamente legati ai diritti dei cittadini in difficoltà. Detti criteri – com’è facilmente comprensibile – dovrebbero essere ricavati sulla base delle vigenti disposizioni legislative. Ad esempio, l’accesso alle comunità alloggio per i soggetti con handicap, per i quali non sono praticabili gli interventi domiciliari (aiuti ai nuclei familiari di origine, inserimenti presso terzi, ecc.) dovrebbe essere previsto tenendo conto degli articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931 che obbligano i Comuni a provvedere (10). Per i criteri di accesso degli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza bisognerebbe fare riferimento alle norme che non consentono l’interruzione delle cure sanitarie, per cui l’ammissione alle Rsa, salva diversa decisione da parte del soggetto malato e/o dei suoi congiunti, deve essere prevista in tutti i casi in cui non sono praticabili per qualsiasi motivo (compresa la non disponibilità dei familiari) le cure domiciliari. Nell’attuale realtà accade, invece, che pur in presenza del diritto esigibile alla continuità delle cure socio-sanitarie, essi siano inseriti in liste d’attesa, per un periodo di tempo anche superiore ai due anni.

 

La presunta possibilità di scelta dei servizi da parte degli utenti

 

Nel citato articolo “Linee guida per l’accreditamento: dalla teoria alla sperimentazione”, Gioga e Pompei affermano che l’accreditamento sarebbe necessario anche «per promuovere il diritto alla libera scelta» del servizio da parte dell’utenza.

È innanzitutto necessario osservare che, affinché vi sia una effettiva possibilità di scelta, vi è l’assoluta necessità che vi siano posti liberi e che agli utenti ed alle loro rappresentanze (organizzazioni di tutela e associazioni di volontariato) vengano forniti i dati occorrenti per conoscere quali sono le prestazioni fornite e le loro caratteristiche, la quantità e la qualifica professionale del personale durante i vari turni di lavoro, nonché la dimensione del turnover.

Purtroppo, allo stato attuale delle cose, la scelta della struttura per la degenza dei propri congiunti colpiti da handicap grave o da patologie invalidanti e da non autosufficienza viene effettuata quasi sempre accettando il primo posto disponibile.

Per gli anziani cronici, dopo averlo aspettato per 18-24 mesi, periodo durante il quale sono stati costretti a versare da 80 a 110 euro al giorno, e cioè complessivamente da 40 a 80 mila euro, la situazione economica dell’interessato e dei suoi congiunti è tale da imporre l’accettazione di qualsiasi soluzione che alleggerisca il loro impegno economico (11).

 

L’illusione della concorrenza fra i diversi produttori di servizi

 

Un altro elemento, sostenuto da Gioga e Pompei a favore dell’accreditamento, è l’introduzione di «elementi di concorrenza fra i diversi produttori», fatto che dovrebbe di per sé migliorare la qualità delle prestazioni.

Mentre il principio della concorrenza, entro giusti limiti, è fondamentale nel campo delle attività materiali, la sua semplice trasposizione nel settore dei servizi alla persona non può che condurre a conseguenze negative per l’utenza.

Nella fabbricazione di oggetti, ad esempio di parti di auto, un ruolo di fondamentale importanza è assolto dalle attrezzature. Per un adeguato svolgimento del lavoro è spesso sufficiente che il personale addetto sia solamente capace di sorvegliare il corretto funzionamento del macchinario. D’altra parte i pezzi non conformi sono scartati. Il danno è esclusivamente di natura economica.

Inoltre, l’aumento della produttività può essere realizzato sia con una maggiore scomposizione del lavoro (e quindi con la presenza di mano d’opera meno qualificata e pertanto meno pagata), sia mediante l’aumento delle ore di attività passando, ad esempio, da uno a due o tre turni giornalieri, oppure assumendo personale anche per periodi limitati nel tempo. Tutto ciò può essere realizzato senza inficiare la qualità della produzione.

Analoghe sono le possibilità nel caso di riduzione dell’attività lavorativa. La cassa integrazione è un ulteriore strumento utilizzabile.

Ben diversa è la situazione dei servizi alla persona per il cui corretto funzionamento è assolutamente indispensabile – lo ripetiamo – non solo la presenza qualitativa e quantitativa del personale necessario, ma anche la sua stabilità.

Ne deriva che il numero degli utenti delle strutture di degenza non dovrebbe subire troppe forti oscillazioni. Infatti, com’è evidente, una notevole riduzione (ad esempio nella misura del 20-30%) rispetto alla capienza programmata dall’ente gestore privato, determina una consistente diminuzione delle entrate, diminuzione che nei fatti può essere fronteggiata o con il pagamento da parte degli enti pubblici dei posti vuoti di una quota corrispondente agli stipendi del personale inutilizzato, oppure con il licenziamento degli addetti in esubero.

Occorre pertanto ripensare alla questione della concorrenza, tenendo nella dovuta considerazione le esigenze reali dell’utenza, nonché i vincoli imposti all’imprenditoria privata da una gestione economica non fallimentare.

Molto differenti sono le problematiche delle strutture pubbliche, i cui eventuali passivi possono essere scaricati sulla collettività.

 

Una clausola sfavorevole per gli utenti

Il terzo comma dell’articolo 29 della legge della Regione Piemonte 8 gennaio 2004, n. 1 “Norme per la realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e riordino della legislazione di riferimento” prevede quanto segue: «Le strutture autorizzate ed accreditate sono convenzionabili con il sistema pubblico senza impegno di utilizzo e di remunerazione dei posti letto convenzionati, ma solo di quelli utilizzati dai cittadini assistibili nei limiti previsti del piano socio-sanitario regionale e in base alle spese programmate dall’Asl di competenza, in attuazione e nel pieno rispetto dei principi dettati dall’articolo 3, comma 2, lettera a [e cioè differenziazione degli interventi e dei servizi per garantire la pluralità di offerta e il diritto di scelta da parte degli interessati, n.d.r.] per quanto attiene, in special modo, il diritto di scelta da parte degli utenti».

A prima vista la sopra riportata disposizione può sembrare positiva in quanto ha lo scopo di evitare che vengano corrisposte rette per ricoveri non effettuati e, magari, nemmeno previsti in concreto.

Tuttavia, in base a quanto abbiamo osservato in precedenza, il mancato impegno di assicurare l’occupazione di tutti i posti letto concordati, determina inevitabilmente la necessità per le strutture private, al fine di evitare perdite di esercizio, di dover ricorrere – come abbiamo già osservato – all’assunzione temporanea, a seconda delle mutevoli esigenze, di una parte non indifferente del personale occorrente.

 

I contratti sottoscritti dagli utenti: conseguenze anche devastanti

 

Come abbiamo affermato all’inizio di questo articolo, l’accreditamento viene molto spesso utilizzato dalle istituzioni per «scaricare, in tutta la misura del possibile, responsabilità e oneri economici sugli utenti e sui loro congiunti».

Nella prassi abituale succede che, ottenuta dall’Asl l’impegnativa relativa al pagamento della quota sanitaria, il soggetto interessato o un congiunto si rivolga alla struttura scelta o a quella indicata dalla stessa Asl.

A questo punto, condizione sine qua non per ottenere il ricovero è la sottoscrizione da parte del soggetto interessato o di un suo parente o di altro garante dell’impegnativa predisposta dall’ente gestore della Rsa.

Con la suddetta sottoscrizione, viene a tutti gli effetti stipulato un contratto di natura privata di cui non sono parte in causa né le Asl, né i Comuni, compresi gli enti che hanno provveduto all’accreditamento.

Ne consegue che le suddette istituzioni non assumono alcuna specifica responsabilità nei confronti del soggetto assistito: difesa del suo diritto ad ottenere prestazioni adeguate alle sue esigenze, trasferimento a cura e spese delle Asl presso strutture sanitarie qualora gli interventi occorrenti non vengano assicurati dalla struttura in cui è ricoverato, diritto di accesso ad altra Rsa nei casi di chiusura di quella in cui è degente, ecc.

Le Asl ed i Comuni si limitano, come avviene attualmente, a provvedere ad una attività di vigilanza in merito alle condizioni previste dall’accreditamento. Tuttavia, com’è noto i controlli delle Asl e dei Comuni sono, in genere, estremamente carenti, com’è anche dimostrato dall’attività dei Nas. Infatti, su 842 ispezioni effettuate nel 2002 in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta, sono state accertate ben 473 violazioni penali e 151 amministrative (12).

Per quanto concerne gli oneri economici, mentre le Asl versano le quote sanitarie direttamente alle strutture di degenza (Rsa e simili), i Comuni si comportano in modo diverso, scaricandone l’onere sulla persona interessata  o sul parente o sul garante che ha sottoscritto l’impegnativa con l’ente gestore della residenza. In questo modo il Comune ha ampie possibilità di sottrarsi ai suoi precisi obblighi di legge (13).

Avendo sottoscritto un contratto privato, i congiunti del ricoverato sono tenuti a corrispondere l’intera quota alberghiera, anche nei casi in cui le risorse economiche del degente non sono sufficienti a coprire l’intero importo. A questo punto i Comuni possono (e lo fanno assai sovente) rifiutarsi di provvedere all’integrazione economica della retta (14), asserendo – il che è falso come abbiamo ripetutamente rilevato su questa rivista – che i parenti sono obbligati ad intervenire in base alle vigenti norme del codice civile sugli alimenti.

Anche se, com’è ovvio, occorre promuovere la permanenza a casa loro dei soggetti in difficoltà a causa di handicap o di malattie invalidanti e agire per la prioritaria ricerca di soluzioni domiciliari (15), non si può dimenticare che l’obbligo di assistenza è attribuito dalla legge ai Comuni, mentre analogo vincolo giuridico non è previsto per i congiunti (16).

D’altra parte, il coinvolgimento di parenti e di non parenti non dovrebbe mai comportare conseguenze insopportabili sotto il profilo dell’impegno personale e degli oneri economici.

La strada maestra per favorire una cultura ed una prassi favorevoli alla domiciliarità è costituita dalla precisazione, la più puntuale possibile, dei compiti del settore pubblico e delle responsabilità assunte dai congiunti o da terze persone (17).

Affinché permanga tutta la responsabilità attribuita dalle leggi vigenti agli enti pubblici (Asl e Comuni), occorre che il ricovero venga disposto dai suddetti enti, i quali ovviamente si comportano correttamente se tengono conto della scelta della struttura fatta dall’utente o da suoi congiunti, sempre che ciò non determini costi aggiuntivi per gli stessi enti pubblici.

Allo scopo di evitare che possano essere sollevati dubbi sulla competenza del Comune che ha disposto il ricovero, occorre inoltre che la retta a carico dell’assistito venga consegnata al Comune stesso e non all’ente gestore della struttura. I versamenti potrebbero essere effettuati dall’utente all’ente gestore solamente secondo procedure tali da evitare che il Comune possa avanzare pretesti per sottrarsi alle sue responsabilità.

Ad esempio, il Comune (o il Consorzio di Comuni)  potrebbe segnalare per iscritto al soggetto interessato di versare la retta direttamente all’ente gestore, precisando che la richiesta viene fatta esclusivamente per i motivi di semplificazione burocratica.

In sostanza, occorre evitare l’assunzione di iniziative e di impegni che possano essere utilizzati dai Comuni e dai Consorzi - come purtroppo spesso avviene – allo scopo di eludere le responsabilità ad essi attribuite dalle leggi vigenti (18).

 

La stipula delle convenzioni

Le vigenti disposizioni in materia di accreditamento non vietano certamente la stipula di convenzioni fra il settore pubblico (Comuni singoli e associati, Asl, ecc.) e gli enti gestori pubblici e privati delle strutture ricettive per minori, soggetti con handicap, anziani cronici non autosufficienti, malati di Alzheimer, ecc.

In dette convenzioni le Asl ed i Comuni singoli o associati dovrebbero precisare i compiti assegnati agli enti gestori in base alle vigenti disposizioni di legge, definire le caratteristiche dell’utenza ammissibile ed i relativi criteri di accesso, nonché i vincoli stabiliti per la collocazione territoriale delle strutture ricettive, i contenuti delle prestazioni e le modalità del loro espletamento, la quantità e la qualificazione professionale del personale addetto in relazione ai periodi di lavoro diurni e notturni, le misure dirette a contenere il turn over in limiti accettabili e le disposizioni relative agli eventuali trasferimenti dei ricoverati in altre strutture, le norme concernenti la vigilanza, gli accreditamenti relativi all’osservanza delle prescrizioni impartite, la contestazione delle inadempienze contrattuali, l’esame dei reclami presentati dai degenti o dai loro congiunti, ecc.

Nelle convenzioni dovrebbero anche essere precisate le possibilità di accesso delle organizzazioni di volontariato e delle organizzazioni di tutela degli utenti e il loro ruolo, compresa la loro partecipazione alle attività di vigilanza spettanti ai Comuni e alle Asl.

Se gli enti pubblici ed i gestori privati agissero, come sempre ripetono, per il benessere degli utenti, dovrebbero essere ben lieti che le forze sociali possano prendere atto del loro corretto operato tramite gli accertamenti diretti compiuti da propri rappresentanti.

 

 

 

(1) Il regolamento della Rsa “Cinque torri” di Settimo Torinese, inserita nell’albo dei prestatori dei servizi socio-sanitari del Comune di Torino con delibera della Giunta del capoluogo piemontese del 26 novembre 2002 stabilisce quanto segue: «Le diete particolari devono essere proposte dal medico di fiducia dell’ospite ed elaborate dal dietista; saranno gratuite o a pagamento secondo il giudizio discrezionale della direzione».

(2) Analoga richiesta era contenuta nella petizione popolare, sottoscritta da 7.458 cittadini, consegnata alla Presidenza del Consiglio regionale piemontese il 21 giugno 2001. In data 5 febbraio 2002 erano state consegnate altre 5.108 firme.

(3) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 50, 1980.

(4) Cfr. Maria Grazia Breda e Francesco Santanera, Handicap oltre la legge quadro - Riflessioni e proposte, Utet Libreria.

(5) Cfr. “Controllo dei servizi socio-assistenziali da parte dei movimenti di base: una valida delibera”, Prospettive assistenziali, n. 141, 2003. In merito all’attività svolta dalla Commissione deliberata dal Comune di Torino, si veda l’articolo di Maria Grazia Breda “Come le associazioni di volontariato possono tutelare gli utenti dei servizi assistenziali”, Ibidem, n. 140, 2002.

(6) Come è stato rilevato su questa rivista, alcuni esperti hanno sostenuto che nella leggi 104/1992 e 328/2000 erano previsti diritti esigibili, nonostante la loro evidente inesistenza.

(7) In un prossimo articolo forniremo notizie dettagliate riguardanti i processi che hanno portato alla condanna penale del responsabile amministrativo delle due comunità e di due educatori a cui era stato affidata la gestione. Alcune informazioni sulla vicenda sono contenute nella nota “Tutelate i minori ricoverati nelle comunità alloggio perché non subiscano più abusi e maltrattamenti”, Prospettive assistenziali, n. 143, 2003.

(8) Cfr. gli articoli “Perché nella casa di riposo ‘Via Roma’ di Bologna sono ricoverati anche malati di mente?”, Ibidem, n. 122, 1998 e “Tragica conseguenza del trasferimento di pazienti psichiatrici dalla sanità all’assistenza”, Ibidem, n. 138, 2002.

(9) Cfr. i seguenti articoli pubblicati su Prospettive assistenziali: “Allucinanti condizioni di vita di anziani ricoverati in una casa di riposo”, n. 128, 1999; “Condannati i gestori di una pensione abusiva: disumane le condizioni di vita degli anziani ricoverati”, n. 132, 2000; “Gestore e operatori di una casa di riposo condannati dal Tribunale di Mondovì”, n. 135, 2001; “Comunicato stampa dei Nas sui controlli eseguiti in campo nazionale alle strutture ricettive di anziani” e “Letti a turno nella casa di riposo”, n. 136, 2001; “Un esempio di malasanità piemontese”, n. 137, 2002; “Allarmante la situazione dei minori della Campania”, n. 138, 2002; “Secondo comunicato stampa dei Nas sulle strutture ricettive per anziani: nuove gravi infrazioni penali e amministrative”, n. 139, 2002; “Sevizie inflitte ai bambini ricoverati in un istituto della Provincia di Lecce”, n. 140, 2002; “Violenze e sevizie sui bambini ricoverati in istituto: siamo ancora il Paese dei Celestini” e “Altre violenze inflitte ad anziani ricoverati in istituto”, n. 141, 2003; “Ancora violenze ad anziani istituzionalizzati”, n. 142, 2003; “Controlli effettuati dai Nas sulle strutture residenziali per anziani: altre allarmanti infrazioni penali e amministrative”, n. 143, 2003; “Quarta indagine dei Nas sulle strutture ricettive per anziani: accertate altre gravi irregolarità” e “Trentadue ospedali della Lombardia dicono no al ricovero urgente di una anziana di ottantacinque anni”, n. 145, 2004.

(10) Cfr. Massimo Dogliotti, “I minori, i soggetti con handicap, gli anziani in difficoltà…‘pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno ancora diritto ad essere assistiti dai Comuni”, Prospettive assistenziali, n. 135, 2001.

(11) Accertata la non autosufficienza e stabilita la necessità del ricovero presso le rsa, le Asl inseriscono gli anziani cronici non autosufficienti in una lista di attesa. Durante questo periodo, esse non versano la quota sanitaria che, di conseguenza, è interamente a carico dell’utente e/o dei suoi congiunti insieme a quella alberghiera. A loro volta, i Comuni, fino a quando l’Asl non corrisponde la quota sanitaria, non provvedono all’integrazione della retta per i soggetti che non dispongono di risorse economiche sufficienti per la sua totale copertura. In questi casi gli oneri sono  molto sovente sostenuti dai parenti che, per ottenere il ricovero, sottoscrivono l’impegno di corrispondere l’intero importo richiesto dall’ente.

(12) Si veda la nota n. 9.

(13) Cfr. la nota n. 10.

(14) Cfr. “L’integrazione delle rette di ricovero assistenziale da parte degli enti pubblici - Un altro imbroglio”, Ibidem, n. 142, 2003.

(15) Ricordiamo che le organizzazioni aderenti al Csa hanno sempre operato a favore della domiciliarità, superando spesso resistenze anche molto forti. Ricordiamo, ad esempio, le leggi 431/1967 e 184/1984 sull’adozione a favore dei fanciulli privi di assistenza materiale e morale da parte dei loro congiunti, l’istituzione a Torino nel 1971 del primo servizio italiano di affidamento familiare di minori a scopo educativo, le iniziative concernenti gli aiuti psico-sociali ai nuclei familiari di origine dei minori, con particolare riguardo a quelli con soggetti  colpiti da handicap, la creazione insieme all’Istituto di geriatria dell’Università di Torino del servizio di ospedalizzazione a domicilio (1984).

(16) Non vi sono, infatti, sanzioni penali, pecuniarie o di altra natura nei confronti dei congiunti anche conviventi che si rivolgono agli enti di assistenza per il ricovero dei loro familiari.

(17) Il Csa ritiene indispensabile per lo sviluppo della domiciliarità che le leggi stabiliscano un vero e proprio diritto delle cure domiciliari (cfr. “Bozza di proposta di legge sulle cure domiciliari”, Prospettive assistenziali, n. 140, 2002). Occorre, inoltre, che gli enti pubblici competenti in materia stipulino accordi scritti con i nuclei familiari interessati, di modo che siano precisati i relativi diritti e doveri.

(18) Cfr. “L’integrazione delle rette di ricovero assistenziale...”, op. cit.

 

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