Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004
PIERANTONIO CRIVELLI
Era il giorno 22 giugno dell’anno
1999. In quell’anonimo pomeriggio di inizio estate era stata emessa, da parte
di alcuni solerti educatori di un centro di avviamento al lavoro per ragazzi
handicappati, una crudele sentenza all’apparenza irrevocabile i cui termini,
sapientemente nascosti tra le righe di una studiata relazione, dicevano nella
sostanza che mio figlio Piero non aveva né la capacità né la costanza per
sostenere un ruolo attivo nel mondo del lavoro.
Dopo tante speranze, sapientemente
coltivate dai vari interlocutori che si erano avvicendati nel corso degli anni
all’arduo compito di riabilitare la personalità di Piero, questa inattesa
sentenza fu per noi, genitori di un ragazzo affetto da handicap intellettivo,
una vera mazzata che stava distruggendo un obiettivo perseguito con estrema
determinazione.
In quel momento amaro non ho potuto
evitare di ripensare alle varie tappe della nostra vita familiare e di
analizzare le scelte educative e comportamentali che di comune accordo io e mia
moglie avevamo di volta in volta selezionato e tenacemente perseguito per
migliorare le capacità intellettive di Piero, al fine di renderlo capace di
badare a se stesso. Erano state scelte giuste?
Ho ripensato al momento in cui il
problema intellettivo di Piero (diagnosi dubbia di autismo infantile) era
caduto sulle nostre teste come un evento inatteso e sconosciuto di cui eravamo
privi della preparazione e degli strumenti necessari per affrontarne i vari
aspetti in modo costruttivo. Ho ripensato alle risorse fisiche, psichiche ed
economiche spese negli anni della prima infanzia di Piero per cercare di
individuare la natura del suo deficit intellettivo e trovarne i rimedi. Ho
ripensato agli anni di scuola elementare di Piero durante i quali, insieme agli
altalenanti ma significativi progressi, ci era toccato di assistere alle
desolanti diatribe tra gli psicologi dei centri dei servizi assistenziali e la
psicoterapeuta privata circa l’utilità di proseguire o di sospendere le sedute
di psicoterapia a cui mio figlio veniva trat-tato.
Ho ripensato agli anni di scuola
media in cui alle buone intenzioni verbali erano seguiti programmi
raffazzonati, messi insieme alla vigilia degli incontri dagli insegnanti solo
per tacitare le legittime aspettative dei genitori, presto dimenticati dagli
stessi promotori dopo poche settimane. Ho ripensato al vuoto di indicazioni da
parte degli enti competenti su come orientare la vita di Piero per il periodo
successivo alla scuola dell’obbligo ed al mio affannato girovagare tra le varie
direzioni didattiche della Regione per mendicare un posto di scuola. Ho
ricordato l’incontro, dopo tanti rifiuti ricevuti, con un vero insegnante che,
vincendo le resistenze del direttore di una scuola professionale ad accettare
l’iscrizione di mio figlio, si prendeva di fatto sulle spalle l’impegno di
guidarlo nella vita scolastica. Ho ripensato infine al tempo trascorso da mio
figlio nei centri diurni di avviamento al lavoro dove, ad un primo periodo, in
cui era stata individuata un’occupazione di suo interesse, era seguito un lento
degrado della qualità delle mansioni assegnate, anche se gonfiate con
un’enfatica carica di importanza, a mio parere tesa a nascondere la scarsa
consistenza delle soluzioni proposte e la mancanza di volontà di pensare ed
attuare metodi di recupero più dispendiosi per le casse delle pubbliche
amministrazioni.
Alla rievocazione di questi lontani
eventi non mi stupisco ora se, dopo un giudizio così negativo delle capacità di
Piero formulato per giunta da persone che credevo esperte, fosse subentrata in
me una certa rassegnazione. Si stava prospettando per mio figlio il futuro che
aveva tanto turbato i miei sonni di padre e che vedevo materializzato in tanti
giovani handicappati: un lento declino delle capacità intellettive, favorito
dal forzato ozio in un anonimo centro diurno, e la successiva emarginazione in
uno di quei tanti spersonalizzati istituti residenziali dove decine di malati mentali
venivano ammassati in condizioni di vita disumane.
Ma quando credevo tutto perduto ecco
la svolta insperata, casualmente scaturita dal trasferimento del nostro nucleo
famigliare da Borgodoro (1), importante centro della cintura torinese, a
Villasana (1), ridente paese collinare decentrato rispetto alla grande città.
L’ambiente più famigliare e meno rigido offerto dal centro di servizi presente
sul territorio consortile di Villasana è sembrato fin dall’inizio favorire il
positivo inserimento di Piero nella nuova realtà. Sta di fatto che, dopo una
breve permanenza nel centro diurno del territorio, Piero venne presto
rivalutato ed inserito in un servizio di educativa territoriale dove dimostrò
residue capacità di apprendimento ed una notevole responsabilità nel portare a
termine gli incarichi assegnati. Il logico passo successivo fu la presa in carico
di Piero dal Sil (Servizio di inserimento
lavorativo) locale dove iniziò un tirocinio di lavoro come addetto ad una mensa
scolastica sotto la guida di un valido tutore.
Nel frattempo con il mio passaggio
alla vita di pensionato realizzai di disporre di molto tempo libero da dedicare
ad attività culturali e hobby vari.
Nuovi interessi, che erano rimasti sopiti durante l’intenso periodo di attività
lavorativa, si affacciarono alla mia mente. Fu in quel momento che, guardandomi
intorno, venni a conoscenza della presenza sul territorio di tante associazioni
che, con le più svariate finalità, si occupavano dei problemi degli
handicappati. Quasi senza rendermene conto mi trovai coinvolto nel volontariato
attivo in una associazione locale che da un lato svolgeva attività didattiche,
ludiche, ricreative e di sostegno psicologico a favore delle persone con
handicap e dei loro parenti e dall’altro lato si occupava anche di vigilare sul
rispetto dei diritti fondamentali di queste persone contro i ricorrenti abusi
perpetrati nei più svariati modi da enti pubblici e privati.
Nello svolgimento di questo secondo
tipo di attività tuttavia i promotori della nostra associazione si erano già da
tempo resi conto che non bastava la buona volontà per affrontare concretamente
i problemi, ma occorreva ricercare l’appoggio, la solidarietà ed il lavoro in
sinergia con gli altri movimenti di volontariato che perseguivano sul
territorio nazionale obiettivi similari. Nella ricerca di questa sinergia la
nostra associazione ha sempre riconosciuto il ruolo storico svolto dal Csa
(Coordinamento sanità e assistenza fra i movimenti di base) nella presentazione
organica delle proposte, formulate dalla base, alle autorità politiche e
nell’esercizio delle pressioni necessarie a tradurle in leggi dello Stato.
Proprio dai contatti con questa nota organizzazione mi fu offerta l’opportunità
di conoscere molte persone che stavano dedicando a tempo pieno le loro
conoscenze professionali e le loro risorse umane per mantenere vivo un
movimento, avviato nell’anno 1970, che si propone l’obiettivo di tutelare i
diritti delle persone con handicap sia sul piano propositivo, partecipando alla
formulazione delle leggi e delle delibere a livello nazionale, regionale,
provinciale e comunale, sia in campo pratico organizzando conferenze, convegni,
petizioni e manifestazioni varie per sensibilizzare l’opinione pubblica
sull’argomento. Con l’aiuto di queste persone mi fu più agevole l’apprendimento
dei primi rudimenti di quell’arduo e poco conosciuto settore legislativo che si
occupa della difesa dei diritti delle persone deboli.
Tra i diversi argomenti trattati
venni a conoscenza delle varie iniziative, concepite agli albori del movimento,
per attuare quell’ambizioso progetto che si proponeva l’obiettivo di avviare al
lavoro le persone con handicap intellettivo con sufficienti capacità, tramite
l’istituzione di corsi e di tirocini prelavorativi, in un contesto in cui le leggi
allora vigenti e la pubblica opinione non erano certo favorevoli a questa
apertura. Apprezzai non solo la costanza con cui fu perseguito e si continua a
perseguire questo obiettivo, ma anche il metodo applicato per cui alle
obiezioni di carattere economico e legislativo sulla difficoltà di risoluzione
di questi problemi si trovasse e si contrapponesse sempre una base giuridica su
cui fondare le richieste, non ultima la Costituzione, madre di tutte le leggi.
Trovai conforto nel rilevare che, in fondo, buona parte delle istanze
presentate avevano trovato accoglimento nella stesura della legge n. 68 del 12
marzo 1999. Scoprii infine alcuni strumenti (Match e Por) adottati dalla
Provincia di Torino, titolare del collocamento al lavoro, le cui funzioni (rilievo delle attitudini dell’aspirante
lavoratore e loro confronto con le esigenze del datore di lavoro) si sarebbero
rilevate utili per accertare le residue capacità lavorative di mio figlio.
Nel frattempo mio figlio acquisiva
una sempre maggior padronanza nei suoi compiti di addetto mensa, che stava
degnamente svolgendo oramai da circa due anni presso le scuole elementari di
Villasana, dimostrando di accettare la disciplina e gli orari di lavoro imposti
dai superiori e di possedere un’invidiabile docilità di carattere.
Confortato da questi progressi presi
infine la decisione di contattare da un lato un funzionario del Sil del Comune
di Villasana e dall’altro lato il responsabile del centro per l’impiego allo
scopo di richiedere una verifica circa le capacità di Piero per un lavoro vero.
Entrambi convennero che la mia richiesta era fondata e predisposero le pratiche
burocratiche affinché anche Piero fosse ammesso a quelle prove attitudinali che
rientrano nel programma denominato “Match” e che, come ho accennato prima, si
prefiggono l’obiettivo di trovare un punto di incontro tra l’aspirante
lavoratore ed il datore di lavoro. Dopo aver sostenuto con successo le prove
attitudinali, Piero fu segnalato al Comune di Villasana come candidato per un
posto di aiuto cuoco e, dopo un ulteriore tirocinio di sei mesi, fu infine
assunto al lavoro presso i locali in cui venivano preparati i pasti per il
servizio di mensa.
Tale assunzione fu resa possibile,
da un lato dall’esigenza del Comune di ottemperare alla legge 68/1999 e dall’altro
dalla recente delibera della Provincia di Torino (3 giugno 2003) che definiva i
criteri della convenzione che gli Enti pubblici non economici avrebbero potuto
stipulare per mettersi in regola con la legge ottemperando all’obbligo di
assunzione. Il Comune adottò questa metodologia che permetteva di fare
inserimenti mirati per quelle categorie di persone con un handicap intellettivo
indubbiamente più difficilmente collocabili in contesti profit.
Non nascondo che, nel periodo in cui
l’assunzione di Piero stava poco a poco diventando realtà, la determinazione
mia e di mia moglie di avviare mio figlio al lavoro fu messa a dura prova. Da
un lato si stava materializzando il nostro sogno, inseguito per lunghi anni, di
vedere nostro figlio impiegato in un lavoro vero, da un altro lato ci
spaventava l’idea di fare un salto nel buio abbandonando la strada
assistenziale che, poco fiduciosi delle risorse offerte dalla società a favore
dell’inserimento lavorativo dei giovani con handicap intellettivo, avevamo cercato
di percorrere quando non scorgevano altre certezze sul futuro di Piero. Questi
dubbi passeggeri furono presto fugati dall’espressione di felicità dipinta sul
viso di mio figlio nel momento in cui venne a sapere della sua assunzione. Ci
rendemmo in quel momento conto di quanto importante può diventare per un
giovane portatore di handicap il ruolo di lavoratore nella società e con quanto
entusiasmo e gratificazione questa esperienza possa essere vissuta a confronto
con le tradizionali alternative assistenziali nei centri diurni.
La vicenda, che ha avuto per
protagonista mio figlio Piero alla ricerca di un lavoro, si è ora indirizzata
in una strada favorevole al cui esito bisogna riconoscere la concomitanza di
alcuni elementi favorevoli, frutto comunque di un lungo lavoro delle
associazioni affinché non ci si dimenticasse del diritto al lavoro anche delle
persone con handicap intellettivo. In
questo successo inoltre non vorrei
trascurare il ruolo sostenuto dalla nostra famiglia attraverso la ricerca del
dialogo con gli interlocutori più disponibili ad affrontare i problemi
dell’handicap nel settore pubblico, attraverso il contatto nel settore privato
con collaboratori disposti ad aggregarsi in associazioni e con l’apprendimento
delle leggi fondamentali a tutela dei diritti essenziali delle persone deboli.
Alla luce di tutta la mia esperienza
restano i seguenti rammarichi:
- se avessi dedicato più tempo e
attenzione ai problemi di mio figlio di quanto avevo invece speso per dare una
sicurezza materiale alla mia famiglia con il mio lavoro, valutando molto
improbabile la possibilità di inserimento di soggetti con handicap intellettivo
nel mondo del lavoro;
- se nel periodo della mia vita
lavorativa mi fossi guardato intorno per ricercare la solidarietà di associazioni
a tutela degli handicappati intellettivi anziché chiudermi in un assurdo
isolamento;
- se non mi fossi in certi momenti
ciecamente affidato agli esperti anche quando i loro giudizi erano in palese
contrasto con il comune buon senso… forse avrei permesso a mio figlio di
esprimere meglio e per più tempo le sue capacità nel lavoro attivo.
Ed ora un appello ai genitori che
hanno la responsabilità di indirizzare le scelte di vita di quelle persone la
cui residua capacità lavorativa è incerta: ascoltate il giudizio degli esperti
ma, prima di decidere il futuro della persona a voi cara, affidatevi alla
vostra sensibilità poiché non c’è nessuno al mondo che conosce meglio di voi
vostro figlio e, in caso di forzature o imposizioni di soluzioni preordinate da
parte di pubbliche autorità, ricercate, prima di arrendervi, l’aiuto del Ggl
(Gruppo genitori per il diritto al lavoro delle persone con handicap
intellettivo) che fa parte del Csa e che, insieme ad altre associazioni, si
prendono cura del diritto al lavoro degli handicappati.
(1)
Borgodoro e Villasana sono località di fantasia.
www.fondazionepromozionesociale.it