Prospettive assistenziali, n. 148, ottobre - dicembre 2004
riflessioni sulla sofferenza
ROBERTO TARDITI - ANTONINO PUGLISI
Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di Roberto Tarditi e Antonino
Puglisi riguardanti l’articolo di Suor M. Angela Urbani “La sofferenza, semente
di Dio”, apparso sul n. 12/2003 di Nuova Proposta (1).
Roberto Tarditi ha speso gran parte
dei ventitre anni della sua vita fuori dall’istituto a mettere in discussione
il ruolo degli istituti d’assistenza, sia laici che cattolici.
Dopo trentacinque anni dentro il
Cottolengo (2), nel quale è stato ricoverato subito dopo la nascita a causa
della cultura bigotta della provincia degli anni quaranta, ne è uscito per
ricominciare e affrontare autonomamente i problemi che ogni nuovo giorno porta
con sé.
Come lui è il suo amico Piero, con
cui ha condiviso la scelta spaventevole di lasciare l’istituto: entrambi hanno
cercato stimoli e ragioni di vivere in interessi e passioni che possono essere
diversi ma che in comune hanno l’incommensurabile valore di ciò che non è
imposto ma scelto, scaturito all’interno di se stessi, sentito ed elaborato
come proprio, per quanto rischioso possa essere.
È facile quindi immaginare che
quelli di Roberto non sono solo atteggiamenti frutto di radicati e ragionati
principi, ma conseguenze di vita vissuta, di ricordi dolorosi, ma anche, seppur
più rari, d’impensabili bei ricordi… fiori che non si crederebbe possibile
veder sbocciare in certi posti.
È con queste convinzioni e questi
ricordi che, insieme a Piero e ad altri amici con cui è il cofondatore, Roberto
ha accettato di diventare il presidente dell’associazione “Mai più istituti
d’assistenza” Onlus il cui scopo è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica
sui tragici e indelebili effetti psicologici che una vita reclusa all’interno
di un istituto ha sulla personalità di bambini e adolescenti, e sull’inutilità
di una tale esistenza segregata quando importante sarebbe invece realizzare una
prospettiva che si contrapponga ad una simile condizione.
Il concetto
d’assistenza, infatti, non dovrebbe in alcun modo essere collegato ad un’idea
di privazione della libertà e di svilimento della dignità umana, come invece
accade all’interno degli istituti. Il prendersi carico della propria esistenza,
se si è concordi su quanto dovrebbe significare “assistere”, non può che
partire da un luogo che ci accolga come casa.
Il nostro approccio è
improntato a un diverso concetto di normalità/diversità, ad uno sforzo per il
superamento di un’idea di normalità e di diversità quali elementi di
categorizzazione degli individui.
Veniamo al motivo di
questa “lettera”.
Ciò che abbiamo
percepito, e che ci ha indotti a questa risposta, nell’articolo di Suor M.
Angela Urbani pubblicato su Nuova
Proposta nel numero del 12/2003, è una mentalità in cui abbiamo avuto modo
di imbatterci spesso in quegli anni d’istituto e di stretto contatto con il
mondo cattolico: la commiserazione, il compatimento nei confronti di chi si
ritiene debba essere una sorta di simulacro della sofferenza umana da parte di
chi, molto spesso, non ha neppure conoscenza della vita reale delle persone con
handicap.
Perché è questo che
rintracciamo nelle parole di suor Urbani. Per lei la sofferenza è volontà di
Dio e a Dio ci avvicina, è non solo «una
“prova”, ma è anche una “testimonianza d’amore”». È l’idea di una
sofferenza santificata per il suo essere santificante. Una sofferenza, che,
come in ogni cosa esistente «è “dono”
offerto da Dio non per uso personale, ma in funzione della crescita
dell’umanità», frutto quindi non della casualità o conseguenza del libero
arbitrio che Dio ci avrebbe concesso. Un soffrire, invece, che di Dio sarebbe
espressione e incarnazione. Un Dio molto diverso dal comune sentire della
maggior parte dei cattolici che lo sentono invece come un Padre che ci avrebbe
lasciati sì liberi di sbagliare ma che comunque ci osserva con amore e con
tristezza per i nostri errori. E non si capisce d’altronde perché l’amore debba
passare per la sofferenza: nell’amore umano un rapporto sadomasochistico o che
si trascina nel reciproco star male sarebbe considerato insano. Perché dovremmo
allora pensare che è proprio ciò che Dio si aspetta da noi? Non eravamo a Sua
immagine e somiglianza? Non è più facile pensare ad un rapporto di amore puro e
consapevole e non inquinato dall’ottundimento dei sensi?
Le argomentazioni della
suora ci portano ancora oltre. Perché la sofferenza non solo sarebbe volontà di
Dio, non solo sarebbe il Suo modo per farci capire, riflettere sulla nostra
umana condizione, ma sarebbe un modo per salvare l’anima. Un tempo si pagava in
moneta alla Chiesa il diritto d’accesso al Paradiso, ora la valuta è una
soggettivistica sofferenza cieca e non voluta, quasi che per amare Dio si debba
essere drogati di dolore. Quasi che (continuando ad interpretare il diverso
modo di sentire della maggior parte dei cristiani) per espiare i nostri peccati
dovessimo banalizzare e sciupare la scelta consapevole e voluta di Gesù, e
trasformare quell’atto d’amore supremo per l’uomo in una colpa da espiare per
sempre, in un obolo di sofferenza da versare in nome di un debito inestinguibile
che Gli dobbiamo, un tributo non fatto per consapevole amore ma per dovere
trascendente, una sorta di divin tassa dal sapore feudale e medioevale.
Ma al di là delle
motivazioni “teologiche” di cui non possiamo che essere pessimi portavoce e che
comunque ci porterebbero a discussioni interminabili, preferiamo continuare
invece eccependo a quanto detto da suor Urbani da un punto di vista più
pratico, più laico, più umano in un certo senso.
La sofferenza, sia essa
fisica o psicologica, è qualcosa che fa parte dell’uomo come tale,
indipendentemente dal fatto che esso sia handicappato o “normale”. Ci sono
sempre stati per tutti gli uomini momenti felici e momenti di sofferenza, a
prescindere dallo stato sociale cui si appartiene o da eventuali handicap fisici,
sensoriali o intellettivi.
Roberto e Piero, ad
esempio, si sentono due normali cittadini italiani che devono confrontarsi con
un problema di handicap fisico che può complicare alcuni aspetti della vita
quotidiana, ma che gioiscono e soffrono esattamente come tutti voi… come tutti
noi. Non sono né vogliono essere considerati dei simboli di sofferenza. Il
voler far credere che loro rappresentano un disegno di Dio significa voler
uccidere la loro capacità di ragionare sulla condizione in cui vivono. Noi consideriamo
la sofferenza l’obiettivo da eliminare, non il mezzo per far conoscere la
grandezza divina.
Far discendere
l’esistenza dell’handicap da un “disegno divino” è grave, ma più grave è il
disegno, in verità di nuovo tutto umano, di proteggere i
soggetti “forti” dalla commistione con il disagio generato dalla scoperta della
diversità o della
malattia.
Mantenere nella
sofferenza è spesso soltanto un mezzo per confortare il bisogno d’essere buoni
di molti, ma questo non aiuta chi la sperimenta in prima persona. Noi siamo
persone con handicap ma non per questo siamo necessariamente sofferenti e
nemmeno siamo necessariamente handicappati. Lo diventiamo se si costruisce una
scala che non possiamo salire. Eliminate la scala invece di chiederci con pietà
cosa vogliamo raggiungere. È facile lasciare che gli altri decidano per noi. Ma
noi
vogliamo assumerci la responsabilità delle nostre scelte; per molti di voi è
più semplice decidere al nostro posto: comporta meno discussioni e vi salva
l’anima.
Non avremmo voluto (e
speriamo ancora di evitarlo) cadere nella facile trappola di far diventare la
discussione un dibattito sulla religione. Fa rabbia pensare che certi
atteggiamenti delle persone di fede non lasciano quasi spazio ad alternative.
È in questo mondo che
viviamo, e il tentativo è di viverci al meglio. Noi non vogliamo espiare i
peccati di nessuno. È già faticoso accettare che i nostri handicap non abbiano
senso. Figurarsi accettare che abbiano un senso trascendente…
Certo, suor Urbani ci spiega che chi soffre «non è “inutile” e “ozioso”». Salvo però
aggiungere poi «che il suo “lavoro” è di
“essere lavorato”», intendendo che nella sofferenza dell’handicappato opera
la mano divina. Il non essere inutile e ozioso del sofferente e della persona
handicappata si limita allora all’essere terreno coltivato da mani sovraumane:
un po’ poco, se non addirittura in contrasto con quanto scritto da suor Angela
Urbani.
Alla persona con
handicap e al sofferente è assegnato l’utile ruolo di strumento di
testimonianza.
Anni di lotte perché le
persone con handicap potessero essere considerate dei soggetti attivi che
possono dare il proprio contributo in ogni società, anni di lotte per uscire da
recinti metaforici e non (si pensi agli istituti per i diversi di vario genere
e “fattezza”), ed invece ancora una volta li si vuole icona di qualcosa, senza
meriti o demeriti al di là della bastante sofferenza. E neanche si chiede loro
se questo ruolo lo accettino. Perché la verità non alberga nel loro corpo, che
è sì incarnazione di una verità ma non della nostra, non del loro sentire è
incarnazione, quasi che la loro carne fosse di altri, di altri nonostante noi.
Ma che la nostra
sofferenza sia resa “ideologicamente” preghiera a loro, a noi non sta bene.
Come non sta bene che eventualmente qualcun altro la voglia immaginare quale
bestemmia o testimonianza di un dio che non c’è. La nostra sofferenza è nostra,
è di ognuno di noi, e per ognuno ha una storia e un significato.
E soprattutto che la si
smetta di considerare le persone con handicap dei meri contenitori di dolore. A
volte possono essere felici quanto voi, a volte sanno esserlo di più, e non per
grazia divina… ma ognuno per il proprio personalissimo percorso. Il volere
costringere ad essere simulacro di una trascendente verità fa sembrare la loro
vita senza un intrinseco valore, quasi che valesse solo per il suo essere
contenitore di un messaggio, rendendo questo contenitore troppo simile ad un
sudario.
C’è poi il rischio che
le persone meno “aperte” colgano nelle parole di suor Urbani l’implicito
messaggio che la testimonianza degli handicappati debba essere per i “normali”
simile ad un balsamo che renda più sopportabili le pene di ognuno, qualcosa del
tipo: «C’è chi è molto più sfortunato».
Ma perché devono essere ostia per la comunione di altri? E perché il “corpo
come ostia vivente” deve essere sempre un corpo lacerato e mai goduto, proprio
perché “ostensorio dell’anima”? E ancora, perché, suor Angela, è necessario «il distacco da se stessi per offrirsi agli
altri»? Non è opera più grande offrirsi agli altri proprio per ciò che
ognuno è, con le proprie irrinunciabili e arricchenti idiosincrasie, nonostante
non ci sia un corpo mortificato che renda questo slancio più scontato? Ma
perché tutto ciò che vi è di fecondo deve per forza nascere dal marcescente?
Caricare di significati
impropri la sofferenza può anche svuotare di forza le giuste rivendicazioni di
chi cerca di vivere nel miglior modo possibile nonostante handicap più o meno
gravi. Se queste
persone con handicap sono testimoni di un progetto divino, che diritto ha
l’uomo di rendere loro l’esistenza più vivibile, di svilire il messaggio che
Dio ha voluto comunicare all’umanità tutta? Perché impegnarsi a prevenire
malformazioni come a volte i mezzi moderni consentirebbero di fare? Se è
volontà del Signore che nasca un figlio handicappato perché l’uomo deve
metterci mano? Dovremmo allora forse augurare ad una donna di partorire un
figlio handicappato, augurargli quest’attenzione divina? E quando una madre
partorisce un figlio handicappato dovremmo forse pensare che il suo amore per
quel figlio è amore verso la grazia divina? Abbiamo il sospetto che queste
madri coraggiose amino i loro figli per la loro umanità e con tutta la loro
umanità, per il bastante motivo che è il proprio piccolo, che ha ancor più
bisogno di protezione di altri bimbi, e pensarla diversamente sarebbe di nuovo
svilire quanto d’incredibilmente bello gli uomini sanno fare: svilire l’amore
di una madre per il proprio figlio e il diritto di quel bambino ad essere amato
per quello che è e non per quello che Dio ha voluto che fosse.
Forse sarebbe meglio
lasciare che il dolore acquisti il significato sempre diverso che ad ognuno la
propria storia suggerirà, e impegnarsi invece a fare ogni possibile sforzo al
fine di evitare che i genitori abbandonino i propri figli o li recludano, usare
tutti i mezzi che la medicina ci mette a disposizione per prevenire
malformazioni al nascituro, e che comunque ad ogni donna sia lasciata la libera
scelta d’interrompere la gravidanza o meno: per non consegnare altre vittime
alla nostra carnefice ottusità. E, se si ha il coraggio di affrontare la scelta
così difficile di tenere quel bimbo che è stato così sfortunato, si dia a
questa madre silenziosa ammirazione e pratico aiuto.
Per carità, suor
Angela, mai più una frase come: «Quale
dono, allora, l’handicappato nella nostra società»! Il dono che facciamo di
noi trascende il nostro handicap, il dono di una storia che nello svolgersi si
racconta, il dono sono io, è lui, è lei, non di certo un handicap che prescinde
da noi, da cui non possiamo prescindere è vero, ma che non ci esaurisce: non
siamo tutto lì, siamo un creato di possibilità a cui fate un grande torto
dicendo certe cose.
(1) Il testo
dell’articolo di Suor M. Angela Urbani è il seguente: «Mi è stato chiesto di scrivere un pensiero sulla figura dell’“handicappato” – argomento non facile – un
pensiero che sgorga dal cuore di una persona, come me, che – per un errore di
un medico – è claudicante. Dirò subito che l’essere umano è una unità, un corpo
animato, un’anima incarnata, un “tutt’uno”. Il corpo è la parte visibile della
persona. È l’“io” con il quale ci
esprimiamo e, grazie al quale, attraverso i gesti e i movimenti, traspira la
nostra anima, ardente, adorante, amante. È il “vento” dello Spirito che fa
vivere in maniera attiva sentimenti ed emozioni di ogni persona, anche se non
ne è pienamente cosciente. C’è chi vive questo “vento” dello Spirito in maniera
attiva, nel servizio sociale o politico, inserendosi nelle “cose” del mondo per
ridefinirle secondo le parole del Vangelo, illuminandole di un nuovo chiarore,
per prospettare un avvenire, permeato da una nuova speranza. Altri vivono
questo “vento” dello Spirito, secondo altri carismi. C’è un “principio”, però,
che unifica tutti: il principio secondo il quale tutto è “dono” offerto da Dio
non per uso personale, ma in funzione della crescita dell’umanità, perché i
frutti dell’albero del Vangelo non sono fini a se stessi, ma servono per
nutrire il prossimo, altrimenti sono inutili. Ciascuna delle manifestazioni di
questi “doni”, quindi, ha una dimensione sociale che non può deludere: a motivo
di esistere, solo perché è “per” gli altri. Alla luce di questo principio, lo
Spirito fa nuovamente “centro”, trasformando – col soffio del suo “vento” –
ogni “handicap” in un “dono”, offerto per illuminare la stanza buia del proprio
e dell’altrui cuore. Perciò, quando dal nostro corpo – tormentato dalla
sofferenza – affiora alla nostra mente la domanda che le riassume tutte:
“Perché? Perché proprio a me? Perché gli altri corrono, lavorano, godono questo
mondo, seguono una carriera, formano una famiglia, ed io resto immobile? Perché
sono impotente, inutile, inchiodato ad una carrozzina, o comunque sono limitato
nei miei movimenti e alterato nel mio aspetto?”. Paul Claudel ci risponde:
“Trova la soluzione di questo terribile problema – il più antico dell’umanità –
nel Signore Gesù Cristo, Verbo del Padre, Colui che l’ha potuto affrontare non
fornendo una spiegazione, ma offrendo una presenza. La Sua, non per distruggere
il dolore umano, ma soffrendo con l’uomo, insegnandoci a trasformare ogni
patimento fisico o morale in una offerta al Padre”. Quindi chi soffre, non è
“inutile” e “ozioso”. Collaborando con la mano di Dio che opera in Lui, acquista
dei beni assoluti ed universali. Il suo “lavoro” è di “essere lavorato”. La
sofferenza – allora – agisce in chi soffre come una “semente” che marcisce nel
terreno della vita, per divenire feconda. Qualunque forma di “handicap” è
simile a questa “decomposizione” necessaria alla realizzazione di un’opera più
completa: il distacco da se stessi, per offrirsi agli altri. La sofferenza,
allora, non è solo una “prova”, ma è anche una “testimonianza d’amore”, è un
“bagno” che ringiovanisce, perché – direbbe Maurice Blondel – “è l’infinito che
attraversa la vita come una spada rivelatrice”, trasformando il corpo umano,
dolorante, nell’ostensorio dell’anima, immerso nella ininterrotta preghiera
della sofferenza, per diventare una vivente “trasparenza di Dio”, realizzando
così l’esortazione di S. Paolo che dice: “Vi esorto, fratelli, per la
misericordia di Dio, ad offrire il vostro corpo come ostia vivente, santa,
gradita a Dio, in culto spirituale, quale si addice a voi” (Rom 12,i). Quale
“dono”, allora, l’“handicappato”
nella nostra società! Un “dono carico di grazia”. Egli è la presenza
dell’Eterno stesso in questo mondo che dice: “Questo è il mio Figlio diletto,
nel quale mi sono compiaciuto” (Lc 3,22)».
(2) Cfr.Emilia De Rienzo e Claudia De
Figueiredo, Anni senza vita al Cottolengo
- Il racconto e le proposte di due ex ricoverati,Rosenberg & Sellier.
www.fondazionepromozionesociale.it