Prospettive assistenziali, n. 149, gennaio - marzo 2005
COMMISSIONE PARLAMENTARE PER
L’INFANZIA: PROPOSTE INIDONEE IN MATERIA DI AFFIDI PROFESSIONALI E DI
INTERMEDIAZIONE
FRANCESCO SANTANERA
Nel documento su “Adozione e
affidamento”, approvato nella seduta del 27 ottobre 2004 dalla Commissione
parlamentare sull’infanzia (1), viene affermato che «l’esperienza realizzata nei venti anni
circa di applicazione dell’istituto dell’affidamento familiare ha posto in
evidenza le importanti possibilità di realizzare la protezione dei minori con
il superamento dell’istituzionalizzazione, che questo istituto ha avuto ed ha,
ma ha anche consentito di rilevare il perpetuarsi di aree di intervento in
relazione alle quali l’affidamento incontra difficoltà di realizzazione». Viene, inoltre, asserito che «il discorso riguarda in particolare i minori grandicelli,
quelli portatori di handicap, quelli con gravi disturbi psicologici,
maltrattati o abusati e quelli che abbiano avuto precedenti affidamenti
familiari falliti» (2). Poiché l’affidamento familiare è uno degli interventi
praticabili nei riguardi dei minori in difficoltà, ritengo necessario prendere
in esame i vari aspetti del problema.
Le “dimenticanze”
della Commissione parlamentare sull’infanzia
Stupisce, in primo luogo, che la
Commissione parlamentare sull’infanzia, nel documento in oggetto composto da ben 65 pagine, non abbia dedicato una sola parola né agli
interventi di prevenzione del disagio minorile, né alle negative conseguenze
dovute alle carenze dei servizi primari (sanità, casa, scuola, ecc.) e
socio-assistenziali.
Come ripetiamo
da quasi 40 anni, il minore ha l’esigenza fondamentale di crescere in una
famiglia. Quindi, se il suo nucleo d’origine presenta
difficoltà, è necessario fare il possibile per metterla in condizione di
superarle. Ciò significa che gli enti tenuti a provvedere devono attuare gli
interventi di cui abbisogna: può essere la mancanza di un lavoro, oppure un
problema abitativo o una questione sanitaria. Inoltre, abbastanza spesso, detti interventi devono essere integrati dalle prestazioni
aggiuntive (e non sostitutive) del settore socio-assistenziale.
Il fatto che la Commissione
parlamentare sull’infanzia, composta interamente da senatori e da deputati, non
abbia preso in considerazione le suddette problematiche, assolutamente
prioritarie, non dà molto spazio alla speranza che il nostro legislatore abbia
intenzione di intervenire con iniziative efficaci in materia di prevenzione
dell’emarginazione sociale, in particolare di quella minorile.
C’è, invece, la tendenza,
sostenuta anche da Regioni e Comuni, di non affrontare le cause del disagio e
di ricercare per i minori in difficoltà le soluzioni assistenziali
più economiche anche se meno valide. Questo mio parere è confermato dal fatto
che nella relazione della Commissione parlamentare sull’infanzia, in cui erano
presenti i rappresentanti di tutte le forze politiche italiane, non vi sono
analisi, e quindi nemmeno valutazioni, circa le conseguenze spesso disastrose provocate dell’assenza nella legislazione nazionale di norme
che obblighino gli enti gestori del settore socio-assistenziale ad intervenire
nei confronti dei nuclei familiari privi dei mezzi indispensabili per vivere
(3).
Ricordo che, nonostante le
ripetute, documentate e accorate sollecitazioni rivolte dal Csa
(Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base) e da questa
rivista, il Parlamento non ha nemmeno stabilito il dovere degli enti pubblici
competenti in materia di servizi sociali di intervenire nei confronti dei
minori e degli altri soggetti che «se non
ricevono anche le prestazioni assistenziali non
possono vivere o sono inevitabilmente condannati all’emarginazione sociale»
(4). Analoghe pressioni erano state rivolte ai Parlamentari in occasione della
discussione relativa alle modifiche apportate in
materia di adozione e di affidamento (legge 149/2001) incontrando, anche in
questo caso, la netta opposizione all’inserimento di norme dirette a garantire
il diritto esigibile alle prestazioni occorrenti per i minori privi in tutto o
in parte dell’indispensabile sostegno da parte dei loro genitori e degli altri
congiunti.
Di conseguenza, «il diritto del minore alla famiglia» è attualmente una semplice dichiarazione di principio anche
perché il primo articolo della suddetta legge 149/2001, che ha modificato non
sempre a favore dei minori in gravi difficoltà la legge relativa all’adozione e
all’affido (la numero 184/1983), prevede al 2° comma che «al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere
educato nell’ambito della propria famiglia», lo Stato, le Regioni e gli Enti locali devono sostenere i nuclei familiari a rischio solamente «nei limiti delle risorse disponibili». Dunque,
gli Enti locali possono assolvere ai loro impegni
anche con stanziamenti insufficienti rispetto al bisogno reale. E non importa se i soggetti in difficoltà restano a mani
vuote! Su questa questione, certamente importante, la Commissione parlamentare
sull’infanzia si è limitata, nel capitolo “Nodi problematici
e possibili soluzioni” a rilevare quanto segue: «L’ente locale, in particolare, nei limiti delle proprie competenze e
risorse, interviene con misure specifiche atte a rimuovere le cause economiche,
personali e sociali che impediscono alla famiglia di svolgere i propri compiti»,
dando per scontato che dette iniziative siano sempre assunte e siano sempre
adeguate alle esigenze.
Rendere esigibile
il diritto all’assistenza dei nuclei familiari a rischio di emarginazione
Prima di analizzare le proposte
avanzate dalla Commissione parlamentare sull’infanzia in merito agli
affidamenti professionali e all’attribuzione di compiti di intermediazione
in materia di affido ad enti privati, ritengo che il primo, urgentissimo e
fondamentale provvedimento legislativo del Parlamento dovrebbe riguardare il
riconoscimento effettivo, e quindi esigibile, alle prestazioni occorrenti per
garantire sul serio il diritto alla famiglia del minore in condizioni di
disagio. Si tratta, in sostanza, dell’assunzione di provvedimenti diretti ad
assicurare anche ai soggetti deboli l’utilizzo dei servizi di
interesse generale (sanità, casa, istruzione, scuola).
Per quanto riguarda gli
interventi socio-assistenziali, essi dovrebbero essere erogati, sulla base di diritti esigibili (5), a seguito di una
attenta valutazione psico-sociale e, a seconda delle
situazioni, mediante concreti sostegni al nucleo familiare in cui il fanciullo
vive o con un adeguato e tempestivo inserimento in un nucleo affidatario capace di rispondere alle sue esigenze o presso
una valida famiglia adottiva qualora sia totalmente privo di assistenza morale
e materiale da parte dei suoi genitori e degli altri congiunti. In definitiva
si chiede che, per quanto concerne le attività socio-assistenziali, il
Parlamento approvi almeno ciò che
La necessità del suddetto
provvedimento nazionale sarebbe risultata evidente se
la Commissione parlamentare sull’infanzia avesse svolto una indagine anche
sommaria per accertare se, come e dove i servizi primari e quelli del settore
socio-assistenziale intervengono in modo inadeguato nei confronti dei soggetti
deboli (7).
Obiettivi
dell’affidamento familiare a scopo educativo e il concetto di temporaneità
Nel documento in oggetto, la
Commissione parlamentare sull’infanzia segnala la necessità di un effettivo
coordinamento tra l’autorità giudiziaria ed i servizi sociali «diretto a distinguere i casi di affidamento familiare effettivi (cioè quelli che sono
realmente temporanei e comportano una seria previsione che alla scadenza
dell’affidamento il minore ritorni nella famiglia di origine) da quelli nei
quali vi è l’alto rischio che alla scadenza il minore non rientri in famiglia
(ad esempio, quelli relativi a nuclei del tutto disgregati o con genitori
disturbati psichicamente e incapaci di svolgere funzioni educative adeguate,
anche se legati ai figli)». Mentre è pienamente condivisibile un effettivo
coordinamento fra l’autorità giudiziaria ed i servizi sociali (a condizione
però che vengano rispettate le competenze degli uni e
degli altri e non si verifichino situazioni di prevaricazione), va osservato
che fin dagli anni 70, nel promuovere l’istituzione dell’affidamento familiare
a scopo educativo, l’Anfaa (Associazione nazionale famiglie adottive e
affidatarie) e l’Ulces (Unione per la lotta contro
l’emarginazione sociale) avevano chiarito che, sulla base delle esigenze reali
da soddisfare, detto intervento non poteva e non doveva avere una
caratterizzazione esclusivamente temporanea. Infatti
era stato precisato che «l’affidamento
intende essere una risposta ai problemi del bambino il cui nucleo familiare
eccezionalmente o temporaneamente o definitivamente non è in grado di
provvedere al suo allevamento, educazione, istruzione e d’altra parte la
situazione non è risolvibile con un aiuto economico e/o sociale alla famiglia
d’origine o con l’adozione, a seconda dei casi» (8).
Dunque già trent’anni
fa veniva puntualizzato, come d’altronde era ed è
ovvio, che gli affidamenti dei minori a scopo educativo possono avere una
caratteristica di eccezionalità (ad esempio per un ricovero ospedaliero di una
madre sola priva di congiunti disponibili), di breve decorso (citiamo il caso
degli affidamenti diurni dal lunedì al venerdì con rientro in famiglia nelle
giornate prefestive e festive) o di lunga durata (come succede per la maggior
parte dei casi) oppure con permanenza (almeno) fino al raggiungimento della
maggiore età, qualora sia evidente fin dall’inizio l’impossibilità del rientro
del minore presso i suoi congiunti oppure questa situazione si manifesti nel
corso dell’affidamento.
Le esperienze ormai ultra
trentennali in materia di affidamenti familiari (la
prima delibera in Italia è stata approvata dalla Provincia di Torino il 17
maggio 1971) (9) hanno dimostrato sempre e ovunque che una quota rilevante di
essi ha una durata non solo prolungata negli anni, ma che non si conclude al
raggiungimento della maggiore età del soggetto.
Ad esempio, dalla ricerca
effettuata dal Centro nazionale di documentazione per l’infanzia e
l’adolescenza sugli affidamenti eterofamiliari conclusisi alla data del 30 giugno 1999, risultano i
seguenti dati relativi alla loro durata: fino a 1 anno 54,9%, da
Anche il Coordinamento nazionale
dei servizi di affidamento familiare, nel documento
consegnato il 2 luglio 1999 alla Commissione speciale “Infanzia” del Senato
aveva precisato che «una definizione
temporale rigida contrasta con l’esperienza maturata in questi anni sia dagli
operatori che dai giudici minorili che hanno verificato la positività
dell’affido anche a lungo tempo» (11).
Alla luce delle esperienze è
inaccettabile la rigida interpretazione data dalla Commissione parlamentare
sull’infanzia in merito alla durata degli affidamenti. Infatti,
la vigente disciplina in materia consente ai Tribunali per i minorenni di
disporre affidamenti anche a lungo termine. A questo proposito sono molto
valide le seguenti precisazioni contenute nella delibera della Giunta regionale
piemontese n. 79/11035 del 17 novembre 2003: «Si ritiene necessario distinguere fra prevedibile durata
dell’affidamento, che presuppone una valutazione tempestiva e realistica della
situazione familiare e dei possibili sviluppi della stessa, e la periodica revisione dell’andamento dell’affidamento da parte del
Tribunale stesso sulla base della relazione semestrale del servizio sociale
referente e dell’audizione-ascolto degli stessi servizi sociali e sanitari e
degli affidatari, della famiglia d’origine e del
minore, come previsto dalla normativa citata. L’affidamento, pertanto, non
cessa automaticamente alla scadenza del termine indicato nel provvedimento
poiché la legge richiede una apposita decisione al riguardo, fondata
sulla valutazione dell’interesse del minore. Del resto, la durata
dell’affidamento prevista sin dall’inizio o nelle successive proroghe è
determinata sulla base di una prognosi, cioè di una
valutazione per il futuro, circa il tempo occorrente per portare a termine
utilmente il programma di assistenza alla famiglia».
Di fronte alla complessità di
buona parte delle situazioni personali e familiari dei minori,
l’interpretazione data dalla Commissione parlamentare sull’infanzia rischia di
condizionare negativamente la gestione attuale e futura degli affidamenti;
alimenta, inoltre, nei congiunti dei minori e negli stessi
fanciulli illusioni e aspettative sulla scadenza dell’affido (“al
massimo fra due anni torni a casa...”). Un affidamento non può essere giudicato
riuscito in base alla sua durata o al rientro del soggetto nella sua famiglia
d’origine: è valido se risponde alle reali esigenze del minore e gli ha
consentito di sviluppare le sue potenzialità e di
affrontare i rapporti con i congiunti nel modo più collaborativo
e meno conflittuale possibile.
Condizioni per la
corretta attuazione degli affidamenti familiari a scopo educativo
Per la corretta attuazione degli
affidamenti familiari a scopo educativo è assolutamente necessario accertare in
via preliminare che la situazione dei minori in difficoltà non sia risolvibile con l’utilizzo – se necessario anche tramite
apposito accompagnamento – dei servizi primari, nonché mediante aiuti psico-socio-economici ai suoi genitori o ai congiunti che
li accolgono, sempre che non vi siano le condizioni per la dichiarazione di adottabilità. Com’è evidente, occorre che le relative
prestazioni vengano disposte con assoluta urgenza e
con estrema accuratezza. Infatti, i ritardi e le carenze
non solo producono danni ai bambini, ma determinano spesso situazioni sempre
più difficili da risolvere.
Per consentire o facilitare
l’accesso alle prestazioni è sovente necessaria la messa in atto di apposite misure di accompagnamento da parte dei servizi
socio-assistenziali (o del volontariato o di altre organizzazioni) volte a
fornire ai soggetti interessati, soprattutto se si tratta di persone con scarsa
dimestichezza con le procedure burocratiche, adeguate informazioni in merito ai
loro diritti. Le iniziative d’accompagnamento dovrebbero, inoltre, essere
perseguite per sollecitare i servizi primari (sanità, casa, istruzione, ecc.)
ad erogare tempestivamente e compiutamente le prestazioni di loro competenza
(12). Per la realizzazione delle attività sopra indicate, è assolutamente
necessario che gli enti gestori del settore socio-assistenzale
(Comuni singoli e associati, ecc.) si impegnino
mediante l’approvazione di una o più delibere riguardanti i servizi di
assistenza garantendone l’esigibilità da parte degli utenti. Attualmente dette
iniziative possono essere assunte anche dalle Regioni mediante l’approvazione
di una adeguata legislazione in materia e la messa a
disposizione degli enti gestori dei necessari finanziamenti.
Inoltre, occorre che i
provvedimenti regionali e locali stabiliscano le priorità di intervento,
di modo che agli operatori sia fornita la bussola delle loro prestazioni con la
chiara indicazione delle precedenze da rispettare (13).
Altra negativa conseguenza delle carenze e dei ritardi è provocata dalle lacunose o
approssimative relazioni dei servizi. A causa della mancanza o insufficienza di
dati concreti e verificabili, molto spesso le autorità giudiziarie (in
particolare le Procure ed i Tribunali per i minorenni) non sono in grado di
assumere i provvedimenti di competenza.
Fatte le precisazioni di cui
sopra e tenuto conto dell’attuale situazione parlamentare, resta evidente che,
al fine di garantire ai minori in difficoltà l’effettiva possibilità di
crescere circondati dall’affetto e dalla protezione di una famiglia, è
necessario promuovere adeguati provvedimenti da parte delle Regioni, delle
Province autonome, nonché dei Comuni singoli e
associati, volti ad assicurare il rispetto delle esigenze affettive ed
educative dei minori che vivono presso nuclei familiari problematici. In detti
provvedimenti dovrebbe essere chiarito che gli affidamenti dei minori a scopo
educativo possono avere le già precisate caratteristiche di eccezionalità,
temporaneità e definitività ponendo termine alle
attuali fuorvianti interpretazioni circa la durata del periodo di affidamento
che, ai sensi della legge 184/1983, così come risulta modificata dalla legge
149/2001, «non può superare la durata di
ventiquattro mesi».
Al riguardo occorre tener conto
che in base all’articolo 4 della succitata legge, il
termine suddetto «è prorogabile dal
Tribunale per i minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi
pregiudizio al minore». Inoltre, è stabilito che «l’affidamento cessa con provvedimento della stessa autorità che lo ha
disposto, valutato l’interesse del minore, quando sia venuta meno la situazione
di difficoltà temporanea della famiglia d’origine che lo ha determinato, ovvero nel casi in cui la prosecuzione di esso rechi
pregiudizio al minore». Dunque, anche sulla base
dell’interpretazione della Regione Piemonte citata in precedenza, la durata
dell’affidamento deve essere considerata alla luce delle reali esigenze del minore.
Pertanto, i provvedimenti
regionali e locali dovrebbero stabilire, sull’esempio di quanto deliberato dal
Comune di Torino, la possibilità della prosecuzione «degli interventi assistenziali a favore di
giovani oltre il diciottesimo anno di età fino al raggiungimento dell’autonomia»
(14). Questa iniziativa del Comune di Torino è stata ampiamente migliorata con
l’approvazione avvenuta in data 18 aprile 2001 della delibera “Progetto
autonomia per giovani in affidamento familiare” in cui è stato deciso (15):
- «per i giovani già in affidamento nella minore età, che a causa delle
condizioni psico-fisiche certificate (invalidità civile con patologie afferenti
alla disabilità) non sono in grado di intraprendere
percorsi di completa autonomia e che possono continuare a vivere nella stessa
famiglia affidataria anche oltre il ventunesimo anno,
è possibile l’ulteriore prosecuzione dell’intervento in atto secondo le
modalità e le procedure previste per l’affidamento di persone disabili e la
richiesta di accesso ad altri interventi diurni»;
- la proroga dell’affidamento
fino al compimento del 25° anno dell’affidato, nonché
l’erogazione «alla famiglia affidataria, che assume le funzioni di garante dello stesso
nei confronti del giovane e del Comune di Torino di una quota straordinaria di
affidamento per il rimborso delle spese vive fissata sperimentalmente in lire
10.000.000 (euro 5164,57) di cui il 70% all’avvio del progetto e il
restante 30% a conclusione dello stesso previa presentazione della relativa
dichiarazione e documentazione delle spese sostenute».
Nella stessa delibera viene precisato che la citata quota di euro 5.164,57 deve
riguardare le somme «relative alla
sistemazione abitativa, alla vita di relazione, alla frequenza a scuole e corsi
compresi quelli universitari, nonché altre spese per il mantenimento personale
qualora non previste e/o non erogabili attraverso il contributo di assistenza
economica». Inoltre, è stabilito che il progetto rivolto all’autonomia
dell’affidato «deve essere avviato entro
il 21° anno di età e deve concludersi non oltre il
compimento del 25° anno» (16).
Infine, occorrerebbe che le
Regioni che ancora non vi hanno provveduto, assumessero
i provvedimenti di loro competenza per dare attuazione all’ultimo comma
dell’articolo 80 della legge 184/1983 così redatto: «Le Regioni determinano le condizioni e modalità di sostegno alle
famiglie, persone e comunità di tipo familiare che hanno minori in affidamento
affinché tale affidamento si possa fondare sulla
disponibilità e l’idoneità all’accoglienza indipendentemente dalle condizioni
economiche». La suddetta norma è ancora in vigore (e quasi ovunque disapplicata) anche dopo l’entrata in vigore della legge 149/2001.
Gli affidamenti
denominati professionali e le attività di intermediazione
Nei riguardi dei «minori grandicelli,
quelli portatori di handicap, quelli con gravi disturbi psicologici, maltrattati o abusati e quelli che abbiano avuto
precedenti affidamenti familiari falliti», la Commissione parlamentare
sull’infanzia propone «la possibilità di procedere all’affidamento
familiare professionale» nonché la loro
realizzazione tramite «l’intermediazione
di una comunità familiare o di una associazione qualificata di volontariato,
che svolgano attività di sostegno e di accompagnamento del minore affidato e
degli affidatari». Le richieste della Commissione
parlamentare sull’infanzia scaturiscono dalla proposta avanzata da un gruppo di
lavoro istituito dal Coordinamento affidi della Provincia di Milano (17),
nonostante che all’epoca non vi fossero esperienze di
sorta a cui far riferimento (18).
Nel documento elaborato dal
suddetto gruppo viene rilevato che «in relazione al numero di allontanamenti (di
minori dai propri nuclei di origine, n.d.r.), si fanno troppo pochi affidamenti
familiari». Inoltre si osserva che «molte
situazioni di minori che non possono vivere nella propria famiglia e che
potrebbero giovarsi di un’altra famiglia che li accolga, specie se si tratta di
casi difficili quali quelli di adolescenti del
circuito penale o di bambini che provengono da esperienze familiari
traumatizzanti non vengono affrontate in maniera adeguata e rimangono
impropriamente e troppo a lungo nelle comunità in cui sono stati utilmente
collocati nel momento dell’emergenza». Nel documento si sostiene, altresì,
che «mancano famiglie disponibili o,
anche se segnalano la loro disponibilità, sono poco qualificate e preparate ad
affrontare problemi così complessi».
Purtroppo, gli operatori che
hanno redatto il documento, composto da ben 25 pagine,
non hanno fornito alcun elemento di conoscenza in merito alle iniziative
assunte dalle loro istituzioni di appartenenza per sollecitare la disponibilità
all’affido di nuovi soggetti (coniugi e persone singole) e per la loro
selezione/preparazione. Inoltre, nessuna informazione
viene data in merito ai problemi emersi dagli affidamenti realizzati, nonché
sui relativi andamenti e sulle difficoltà riscontrate.
Ritengo che anche gli operatori
direttamente coinvolti nella promozione e gestione degli affidamenti familiari
di minori a scopo educativo dovrebbero individuare le effettive responsabilità
delle istituzioni (Parlamento, Governo, Regioni, Comuni singoli e associati,
ecc.) sia per quanto riguarda, ad esempio, le carenze
(a mio avviso vistose) delle norme nazionali, sia le mancanze (a mio parere
anch’esse spesso notevoli) delle disposizioni regionali e locali (in
particolare l’esclusione dei più deboli dall’utilizzo dei servizi primari, la
mancanza di diritti esigibili alle prestazioni socio-assistenziali,
l’insufficienza del personale addetto al servizio di affidamento).
Concorde è, al riguardo,
l’esperienza delle famiglie affidatarie sulle insufficienze, quasi
sempre assai gravi, per quanto riguarda il sostegno degli affidamenti,
attività che – com’è noto – è uno degli elementi chiave per il buon
funzionamento degli stessi. Questa preoccupante situazione è confermata dalla
ricerca svolta da Franco Garelli, docente di
sociologia della conoscenza dell’Università di Torino e dai suoi collaboratori
(19) da cui risulta che «l’80% degli affidatari ritiene che i servizi
sociali tendano a scaricare sulla famiglia il peso dell’affidamento», che «per 6 soggetti su 10 l’affidamento potrebbe
essere un intervento assai più diffuso, se le famiglie potessero contare su un
maggiore aiuto e su strumenti più adeguati da parte dei servizi sociali» e
che il 40-50% delle famiglie che hanno in precedenza accolto un fanciullo in
affidamento «prenderebbe in
considerazione una nuova proposta solo dopo un periodo di pausa e a determinate
condizioni che indicano l’esigenza di una maggiore preparazione e supporto da
parte dei servizi sociali».
Analoghi sono i risultati di
un’altra indagine, quella promossa dal Coordinamento di tutela dei minori della Regione Friuli - Venezia Giulia. Infatti,
ben il 53,4% delle famiglie affidatarie intervistate è disponibile a ripetere
l’esperienza, mentre il 13% chiede un periodo di riflessione (20).
Le conclusioni delle sopra citate
due ricerche contrastano nettamente con l’affermazione degli operatori della
Provincia di Milano, secondo i quali non c’è un numero
sufficiente di famiglie disponibili ad accogliere i minori in affidamento.
Non vorrei, però, che tale
asserzione, non supportata da nessun elemento, fosse stata fatta a causa, ripeto, di insanabili disfunzioni (insufficienza numerica
del personale addetto, ecc.) dei servizi in cui essi operano e per favorire,
quindi, l’attribuzione al settore privato dei compiti concernenti
l’affidamento, che l’attuale personale non è messo in grado di svolgere
correttamente dalle istituzioni di appartenenza.
Manifesto questo dubbio poiché,
in una seconda ricerca dell’Università di Torino, mentre viene
confermata l’accusa rivolta ai servizi dalle famiglie affidatarie circa
l’insufficienza dei sostegni ricevuti, le responsabilità degli operatori
vengono attenuate poiché «è la
complessità del contesto culturale e organizzativo in cui si colloca l’affido a
rendere tale strumento così faticoso» (21). Inoltre, i ricercatori rilevano
che «sul piano delle politiche sociali,
c’è incompatibilità tra la valorizzazione dell’affido
a livello di linee programmatiche e il reale investimento in termini di risorse
messe in campo; sul piano del lavoro sociale, c’è invece incompatibilità tra
ciò che l’affido richiede per poter essere realizzato e le condizioni reali in
cui gli operatori si muovono».
Premesso che le criticità
rilevate «non annullano il significato positivo delle esperienze virtuose già realizzate», gli
Autori individuano tre aree «di
intervento che, se prese in attiva considerazione dalle istituzioni, sono in
grado di consentire il superamento delle attuali difficoltà». Esse sono:
- «l’area della formazione. Proprio perché mai routinario,
l’intervento dell’affido richiede una preparazione dell’operatore – sul piano
sia tecnico che emotivo – solida e continua»;
- «l’area del sostegno all’operatore per
contrastare l’usura a cui questo è sottoposto e per aiutarlo ad elaborare
vissuti spesso depressivi»;
- «l’area della preparazione del “terreno”. L’affidamento ha mostrato di
funzionare se poggia sulle fondamenta di una “cultura diffusa”».
Le proposte avanzate sono, a mio
avviso, estremamente importanti. Se
attuate, l’affidamento potrebbe essere positivamente rilanciato come attività
svolta direttamente dagli operatori degli enti preposti alle funzioni
socio-assistenziali.
Alcuni ostacoli da
superare
La realizzazione
degli affidamenti di minori a scopo educativo ha incontrato e incontra tuttora
ostacoli di diversa natura. Come ho già rilevato, gli
interventi assistenziali sono in quasi tutte le zone del nostro Paese
considerati ancora come meramente facoltativi (22). Inoltre, è tuttora diffusa
una cultura adultocentrica in base alla quale i
minori sono ritenuti quasi una proprietà dei loro genitori. Ne deriva una
resistenza, a volte anche notevole, da parte delle istituzioni
socio-assistenziali e degli stessi operatori, all’allontanamento dei fanciulli dalle loro famiglie d’origine, anche quando i
comportamenti dei congiunti sono assolutamente negativi per i minori e non
modificabili a tempi brevi. Vanno, altresì, considerate le
difficoltà che gli operatori incontrano sia per l’attivazione dei servizi
primari (sanità, casa, istruzione, ecc.), le cui prestazioni troppo sovente
sono negate o sono erogate ai soggetti deboli in modo parziale o distorto e/o
con ritardi anche notevoli. Incide anche – e in misura notevole – la
scarsità del personale addetto ai servizi socio-assistenziali.
Gli affidi
professionali: una scorciatoia che svalorizza gli
affidi volontari
Al di là delle affermazioni di comodo, bisogna
ammettere che l’attribuzione delle funzioni concernenti l’affidamento a
cooperative e ad altre organizzazioni private è la conseguenza sia del
disimpegno dell’ente pubblico ad intervenire nelle complesse e difficili
problematiche dei nuclei familiari in difficoltà, sia delle scelte decise per
la riduzione delle spese anche quando ciò si realizza diminuendo i livelli
qualitativi. Tuttavia, in realtà non si può parlare di affidi
“professionali” in quanto non esiste (e a mio avviso non può esserci) il mestiere
di affidatario, come non esiste (né credo esisterà)
il mestiere di genitore.
Gli stessi operatori, nel
documento citato, riconoscono che «non
sono richieste competenze professionali già acquisite nel sociale», per cui gli affidatari
professionali non devono – giustamente in questo caso – essere individuati
negli assistenti sociali, negli educatori o in altri addetti ai servizi.
In sostanza, non esiste e non può
esserci nemmeno in futuro la figura dell’affidatario
professionale. Gli operatori della Provincia di Milano propongono, infatti,
iniziative per il reperimento di persone disponibili anche senza alcuna esperienza di affido, la realizzazione di percorsi
volti all’accertamento delle motivazioni, la messa in atto delle misure dirette
alla loro selezione/preparazione, nonché la previsione degli interventi di
sostegno al minore e ai medesimi affidatari.
Com’è evidente, le attività sopra
indicate sono esattamente quelle che devono essere rivolte alle famiglie e
persone affidatarie volontarie, le cui competenze vengono
acquisite attraverso le esperienze dirette di accoglienza e il confronto con
altre famiglie e con gli operatori. Con il termine volontarie
intendo precisare che si tratta di coloro che finora hanno accolto minori senza
chiedere e senza ricevere alcun compenso, salvo il rimborso forfettario delle
spese sostenute, rimborso che non viene sempre corrisposto dagli enti pubblici
con la dovuta tempestività e tenendo conto degli oneri effettivamente
sostenuti.
Per quanto sopra esposto, credo
di poter affermare che gli affidatari professionali dovrebbero in realtà essere chiamati “affidatari
stipendiati”. Certamente, ricevendo una retribuzione dalle istituzioni, gli affidatari stipendiati saranno molto più arrendevoli nei
loro confronti e nei riguardi degli operatori pubblici preposti
all’organizzazione degli affidamenti.
I compiti degli operatori
pubblici diventerebbero ancora più facili se, come viene da essi
proposto «le famiglie professionali
stabiliscono un supporto privilegiato con le organizzazioni intermediarie del
terzo settore cui faranno riferimento in tutte le fasi del loro percorso
riguardo a: segnalazione della disponibilità, acquisizione di informazioni sul
servizio, selezione congiuntamente al servizio pubblico, contratto di lavoro,
sostegno e supervisione individuale e di gruppo attraverso la presenza di un tutor, sostegno attraverso le reti di famiglie volontarie,
eventuali sostegni educativi integrativi» (23).
Da notare che non vengono precisati gli interventi da assumere nei confronti
delle famiglie d’origine dei minori in affidamento. A mio avviso le famiglie
d’origine, essendo quasi sempre in una situazione di
forte difficoltà, devono essere sostenute per consentire il loro massimo
inserimento sociale possibile e per ottenere la più ampia collaborazione per la
crescita del loro bambino. È vero che si tratta di un lavoro difficile e
usurante, ma non vi sono alternative, salvo
l’abbandono di queste persone e la loro caduta nel baratro dell’emarginazione,
caduta che sovente trascina anche i figli affidati a valide famiglie.
Rilanciare gli
affidamenti volontari
Come ho
riferito in precedenza, gli operatori della Provincia di Milano pongono come
base della proposta sugli affidamenti professionali, la carenza di famiglie
volontarie disponibili, senza però valutare se le istituzioni hanno assunto le
relative necessarie iniziative per il loro reperimento.
Ad avviso di coloro
che operano nel settore, non sono sufficienti campagne indette di tanto
in tanto: è necessario un impegno continuativo, tenendo ben presente che dalla
già ricordata ricerca effettuata nella Regione Friuli - Venezia Giulia (24)
emerge quanto segue: «Colpisce la
debolezza dei canali informativi in tema di affidamento.
Infatti la maggioranza ne è venuta a conoscenza
attraverso vie amicali o parentali. Le campagne promozionali (che dovrebbero
essere compito istituzionale e che brillano per pallore) infatti
raccolgono solo il 6,8% mentre le conferenze e gli incontri (tradizionale
attività delle associazioni di volontariato) raggiungono il 34% dell’obiettivo
informativo».
A mio parere si dovrebbe tener
conto dell’estrema importanza delle informazioni trasmesse da coloro che hanno o hanno avuto minori in affidamento. La
valutazione positiva delle esperienze acquisite, che
indubbiamente favorisce la diffusione degli affidamenti, e quella negativa sono
quasi sempre correlate al tipo di sostegno che gli affidatari
hanno ricevuto dalle istituzioni e dagli operatori. Inoltre, occorrerebbe
tenere in considerazione il fatto che la popolazione riceve molto spesso dalle
istituzioni notizie rassicuranti circa i minori in difficoltà: i problemi
sarebbero sempre attentamente esaminati, gli eventuali ritardi verrebbero presto colmati, sono pronti ad intervenire
assistenti sociali, psicologi, ecc.
Ne consegue che molti cittadini
non si interessano ai problemi dei minori in
difficoltà, in quanto sono convinti che viene già fatto tutto il necessario.
Ritengo che ben diverse sarebbero
le risposte della cittadinanza, se venisse informata
correttamente della realtà e cioè del bisogno insostituibile per tutti i minori
di una famiglia, e della assoluta impossibilità da parte degli enti pubblici e
privati di soddisfare queste vitali esigenze con il personale operante negli
istituti di assistenza e nelle comunità alloggio. Questa informazione sulle
esigenze fondamentali dei minori non incrementerebbe soltanto il numero delle
famiglie e delle persone disponibili all’affidamento, ma fornirebbe anche
utilissime conoscenze per tutti, in particolare per i genitori e gli altri
soggetti che hanno a cuore le necessità dei loro figli e degli altri ragazzi. Inoltre,
è necessario che le famiglie affidatarie ricevano garanzie reali sugli
interventi che le istituzioni si impegnano di
assicurare nei confronti delle famiglie d’origine e non siano più considerate
dalle istituzioni e dagli operatori come controparti, bensì come attivi
collaboratori non solo nei riguardi del bambino accolto, ma di tutte le
problematiche concernenti l’affido.
Una offesa alla solidarietà?
Passare dagli affidi volontari
agli affidi professionali è uno schiaffo alla
solidarietà, peraltro assolutamente ingiustificato. Invece di individuare le
misure per rendere gli affidamenti familiari più rispondenti alle esigenze dei
minori, si cambia strada, fra l’altro attribuendo alle famiglie affidatarie
volontarie una patente di incapacità, certamente non
meritata.
Credo di poter affermare che
l’idoneità ad accogliere positivamente soggetti molto problematici
non si impara mediante la frequenza dei pur necessari momenti formativi. È,
invece, un modo di comportarsi, di vivere le situazioni, di comprendere le
esigenze altrui che si acquisisce tramite successive esperienze di affidamento, esperienze – lo ripeto – che devono essere
adeguatamente supportate dai servizi sociali e, se occorre, anche da quelli
sanitari e degli altri settori coinvolti (ad esempio garantendo la priorità di
accesso alle scuole materne, il sostegno necessario per l’integrazione
scolastica dei soggetti con handicap, i supporti indispensabili per i minori
con disturbi della personalità).
A questo riguardo, è destinato
quasi certamente al fallimento l’appalto a cooperative o ad altri enti del
difficilissimo compito di fornire adeguati e tempestivi sostegni ai minori,
alle famiglie d’origine e a quelle affidatarie, anche perché essi non hanno
alcun potere per pretendere gli interventi di competenza dei vari settori di interesse sociale. D’altro lato sarebbe molto grave la
perdita di tutte le esperienze finora acquisite dagli
operatori del settore pubblico.
L’intermediazione e
la tutela dei diritti
Certamente le istituzioni e, a
volte, gli stessi operatori dei servizi sociali e sanitari non gradiscono molto
il ruolo di difesa delle esigenze e dei diritti svolto dal volontariato non
consolatorio e dalle altre organizzazioni di tutela dei soggetti deboli, nonché dalle famiglie affidatarie e dagli enti e dai gruppi
che le rappresentano. Al contrario, l’assunzione da parte di soggetti privati
di compiti di gestione nel settore dell’affidamento (o in altri campi), sposta
inevitabilmente l’azione dei volontari e delle loro associazioni di appartenenza in un ruolo subalterno rispetto all’ente
pubblico che fornisce loro lavoro e compensi, per cui la tutela del minore e
delle loro famiglie d’origine passa nei fatti in secondo piano.
Ritengo, dunque, che occorre
insistere per la gestione diretta dell’affidamento da parte degli enti pubblici
preposti ai servizi socio-assistenziali, di modo che detti organismi
intervengano nei confronti di tutte le parti in causa (minori, famiglie
d’origine e affidatarie, proprio personale) e quindi siano in grado di svolgere
l’indispensabile funzione di mediazione nei riguardi dei suddetti soggetti,
tenuto conto che la correttezza delle loro relazioni ha un’estrema importanza
sull’andamento degli affidi. Inoltre, solamente l’ente pubblico, gestore dei
servizi concernenti l’affidamento, ha il peso politico-amministrativo
indispensabile per chiedere e ottenere l’intervento dei servizi primari
(sanità, casa, istruzione, ecc.), la cui collaborazione è assolutamente
necessaria sia per la riuscita dei singoli interventi, sia per una positiva considerazione sociale del valore dell’affidamento
familiare. Infine, non va trascurata l’importanza estrema della stabilità
lavorativa degli operatori in quanto è uno degli elementi fondamentali per
garantire la necessaria professionalità, condizione questa che molto raramente viene soddisfatta dal settore privato.
(1) Per gli eventuali interventi di competenza, il
documento è stato trasmesso dalla Commissione parlamentare sull’infanzia alla
Camera dei deputati e al Senato in data 2 novembre 2004.
(2) Nel documento in oggetto, la Commissione parlamentare
sull’infanzia propone l’adozione “aperta” o “mite”, di cui ho messo in evidenza
la connotazione assolutamente inaccettabile (cfr.
Francesco Santanera, “L’adozione mite: come svalorizzare la vera adozione”, Prospettive assistenziali, n. 147, 2004). La
Commissione suggerisce inoltre “l’introduzione
nel nostro ordinamento giuridico dell’istituto dell’affidamento familiare
internazionale”. La redazione di Prospettive
assistenziali, mentre si riserva di esaminare a
fondo la questione, fin da ora esprime un parere nettamente contrario allo
sradicamento dal loro ambiente di vita dei minori aventi legami affettivi con i
loro congiunti. Circa le affermazioni della suddetta Commissione sulla
conoscenza delle proprie origini dei soggetti adottati, ricordo che Prospettive assistenziali
ha da tempo preso posizione. Al riguardo, si veda, ad esempio, l’articolo
“La nuova legge sull’adozione: dai fanciulli senza
famiglia soggetti di diritti ai minori oggetto delle pretese egoistiche degli
adulti”, pubblicato sul numero 133,
(3) Ricordo, inoltre, che
(4) Nel corso dell’esame del testo, divenuto poi quello
della legge 328/2000, il Parlamento a larghissima maggioranza aveva respinto
(seduta della Camera dei deputati del 18 gennaio 2000) un emendamento
predisposto dal Csa e presentato dagli On.li Diego Novelli e Tiziana Valpiana in cui era prevista l’obbligatorietà degli
interventi per «i minori in tutto (figli
di ignoti) o in parte privi delle indispensabili cure familiari, gli
handicappati intellettivi totalmente o gravemente privi di autonomia e senza
alcun valido sostegno familiare, le gestanti e madri in gravi difficoltà
familiari alle quali va altresì fornita la necessaria consulenza psico-sociale per il loro reinserimento e per il
riconoscimento o meno dei loro nati, le persone che vogliono uscire dalla schiavitù
della prostituzione, gli ex carcerati, i carcerati e i loro congiunti, i
soggetti senza fissa dimora».
(5) È ovvio che, in assenza di diritti esigibili da parte
dei cittadini, com’è purtroppo il caso della legge 328/2000 di riforma
dell’assistenza e dei servizi sociali, gli enti pubblici godono di una assoluta
discrezionalità in merito alle prestazioni, che, pertanto, possono anche non
essere fornite o essere erogate con ritardi pregiudizievoli per i soggetti in
difficoltà.
(6) Cfr. Giuseppe D’Angelo, “La
nuova legge regionale piemontese sull’assistenza”, Prospettive assistenziali, n. 147, 2004.
(7) La Commissione parlamentare sull’infanzia, purtroppo,
non ha esteso le consultazioni agli enti (Regioni, Province, Comuni, ecc.) che
operano nei settori del sostegno ai nuclei familiari in gravi difficoltà
socio-economiche, dell’affidamento e dell’adozione nazionale, ma si è limitata
ad interpellare le organizzazioni che svolgono attività in materia di adozione
internazionale e di soggiorni “socio-terapeutici” di bambini stranieri in
Italia.
(8) Cfr. Giuseppe Andreis, Francesco Santanera e
Frida Tonizzo, L’affidamento
familiare, Amministrazione per le attività assistenziali
italiane e internazionali, Roma, 1973.
(9) Cfr. “Servizio di affidamento familiare della Provincia di Torino”, Prospettive assistenziali, n. 16, 1971. Nella
delibera era precisato che «scopo
generale dell’affidamento familiare è quello di tendere ad inserire un bambino
che presenti disadattamento in un sistema di rapporti
affettivi armonici, laddove la famiglia naturale si trovi nell’incapacità o
impossibilità, temporanea o definitiva, di assicurarglieli».
(10) Cfr. “I
bambini e gli adolescenti in affidamento familiare”, Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per
l’infanzia e l’adolescenza, Firenze,
agosto 2002.
(11) Cfr. “La
riforma della legge 184/1983: le proposte del Coordinamento nazionale dei
servizi per gli affidamenti familiari”, Ibidem,
n. 128, 1999. Ricordiamo che al Coordinamento, costituitosi nel 1996,
aderivano al momento dell’approvazione del documento in oggetto, i servizi di
una cinquantina di Comuni fra i quali quelli di Ancona,
Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Modena, Nuoro, Padova, Palermo,
Pesaro, Roma, Torino, Trieste, Venezia e Vicenza, nonché quelli delle Province
di Lecce, Perugia, Roma, Terni e Trento.
(12) La legge regionale piemontese n.1/2004
ha previsto (articolo 3) il coordinamento ed integrazione dei servizi
socio-assistenziali «con gli interventi
sanitari, dell’istruzione, della giustizia minorile, nonché con le politiche
attive della formazione, del lavoro, delle politiche migratorie, della casa,
della sicurezza sociale e degli altri servizi del territorio». Inoltre, non
solo ha contemplato l’istituzione di un apposito fondo
regionale per i servizi socio-assistenziali, ma ha altresì disposto (3° comma
dell’articolo 35) che «i Comuni che
partecipano alla gestione associata dei servizi sono tenuti ad iscrivere nel
proprio bilancio le quote di finanziamento prestabilite dall’organo associativo
competente e ad operare i relativi trasferimenti in termini di cassa alle
scadenze previste dagli enti gestori istituzionali».
(13) Cfr. “Indicazioni per una
delibera quadro dei Comuni singoli o associati sulle attività
socio-assistenziali”, Prospettive assistenziali, n. 132, 2000 e “Proposta di delibera
sull’assistenza per il territorio afferente il Cisa
(14) Cfr. “Un altro successo del
volontariato dei diritti in materia di affidamento
familiare”, Ibidem, n. 134, 2001. Nel
1976, il Comune di Torino aveva approvato una delibera, redatta dal Csa, in cui venivano previsti,
oltre agli affidamenti di minori, anche gli inserimenti familiari di adulti e
di anziani.
(15) Ibidem.
(16) Altre notizie sono contenute nella guida del Comune di
Torino all’affidamento familiare dei minori, le cui parti principali sono
riportate nel n. 145, 2004 di Prospettive
assistenziali.
(17) Cfr. il
documento “Servizio famiglie professionali”, febbraio 2004.
(18) Nell’articolo “Professione accoglienza”, pubblicato su
“Noi genitori e figli”, supplemento del giornale Avvenire del 30 gennaio 2005, viene segnalato che sono solamente 8
gli affidamenti professionali in corso.
(19) Cfr. Franco Garelli, Raffaella Ferrero,
Daniela Teagno, “L’affidamento nell’esperienza delle
famiglie affidatarie”, Prospettive assistenziali, n. 136, 2001.
(20) Cfr. “Ricerca
sulle famiglie affidatarie, i servizi sociali, i servizi sanitari e
l’affidamento”, Ibidem, n. 132, 2000.
(21) Cfr. Franco
Garelli, Raffaella Ferrero,
Daniela Teagno, “L’affidamento familiare visto dalla
parte dei servizi: l’esperienza degli operatori dell’area metropolitana
torinese”, Ibidem, n. 146, 2004.
(22) Non mi risulta che, ad esclusione del Csa, vi siano organizzazioni e persone che abbiano
rivendicato l’obbligo dei Comuni ad intervenire ai sensi degli ancora vigenti
articoli 154 e 155 del regio decreto 773/1931. Cfr.
Massimo Dogliotti, “I minori, i soggetti con
handicap, gli anziani in difficoltà…’pericolosi per l’ordine pubblico’ hanno
ancora diritto ad essere assistiti dai Comuni”, Ibidem, n. 135, 2001.
(23) Cfr. il
citato documento “Servizio famiglie professionali”, febbraio 2004.
(24) Cfr. la nota n. 20.
www.fondazionepromozionesociale.it