Prospettive assistenziali, n. 149, gennaio - marzo 2005

 

 

IL SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE DA PARTE DI UN CENTRO DIURNO PER MALATI DI ALZHEIMER: UNA STRUTTURA CHE APPRENDE DALL’ESPERIENZA                            

Paola Savarino

 

 

Da anni il Csa (Coordinamento sanità e assistenza tra i movimenti di base) e Prospettive assistenziali operano affinché venga riconosciuto il diritto alle cure sanitarie anche alle persone colpite dal morbo di Alzheimer o da altre forme di demenza senile.

Le pressioni esercitate  sulla Regione Piemonte e sulle Asl hanno determinato sia la gestione da parte della sanità di Rsa (residenze sanitarie assistenziali) (1) che assicurano agli utenti, colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza, prestazioni di gran lunga migliori di quelle fornite dalle strutture private, sia l’istituzione di centri diurni sanitari per i pazienti affetti da demenza senile (2).

L’articolo della dott.sa Paola Savarino, psicologa consulente presso il centro diurno di Volpiano (Torino) dell’Asl 7, che ringraziamo per la collaborazione, dimostra che gli operatori sanitari sono in grado di garantire la gestione corretta anche delle attività cosiddette sociali, occorrenti per il benessere fisico e psichico dei soggetti accolti e dei loro congiunti.

 

Il centro diurno di Volpiano è ormai attivo da tre anni. Nel corso di questo periodo ha avuto in carico 73 pazienti, con un turn over medio di 5 pazienti per anno. Delle persone dimesse 12 sono decedute, mentre 11 sono state ricoverate in strutture residenziali, 4 vivono ancora presso il domicilio con familiari. Una sola famiglia ha rinunciato al centro per motivi economici. Un paziente, nonostante il ricovero in Rsa per motivi di sicurezza personale (viveva da solo), continua ad usufruire del centro, possibilità che lo mantiene vigile ed attivo.

Allo stato attuale il centro ospita 20  pazienti, suddivisi in gruppi di circa 15 al giorno, dal lunedì al venerdì, dalle 8 antimeridiane alle 17 pomeridiane.

Si è costituita, nel frattempo, una lista d’attesa, poiché sono più numerosi gli invii (provengono dall’Uvg, Unità valutativa geriatrica dell’ Asl 7 del Piemonte) che le dimissioni dal centro.

Nato sulla base dell’esigenza sentita dagli amministratori di rispondere ad una domanda presente sul territorio, ma senza una precisa definizione del proprio ruolo all’interno della rete dei servizi per la vecchiaia, il centro diurno si è trovato nel corso di questi anni a porsi una serie di interrogativi sulle proprie funzioni: deve rispondere ad una domanda di sollievo delle famiglie? Si deve concentrare su una proposta riabilitativa per i malati di Alzheimer? Può sostituirsi come risposta all’istituzionalizza­zione?

Ne sono emerse risposte differenziate, ovvero si sono strutturate nel tempo una gamma di attività, anche grazie all’intervento di consulenti esterni (psicomotricista, musicoterapeuta, psicologo) e di proposte, nel tentativo di venire incontro alle esigenze man mano incontrate sia degli ospiti che delle loro famiglie.

Anche il rapporto con gli altri servizi si è nel tempo rafforzato e differenziato. Il contatto con i servizi sociali è ormai costante, sia per ottenere informazioni da riportare ai familiari, sia per condividere la presa in carico di nuclei familiari multiproblematici; anche il rapporto con alcune strutture residenziali del territorio è diventato importante, poiché molti familiari richiedono brevi periodi di riposo dal lavoro costante di cura, attraverso ricoveri detti “di sol­lievo”.

Manca ancora un rapporto diretto, ed una condivisione di obiettivi, con l’Uvg, che pure costituisce il trait d’union tra il centro e gli utenti dell’Asl. Attualmente l’Uvg si occupa di fare degli invii, valutando l’opportunità dell’inserimento di un utente, conoscendo però poco del centro, del suo modo di lavorare, di ciò che offre… allo stesso modo il centro non conosce i criteri di valutazione dell’Uvg. Ad esempio, una questione attualmente  aperta al centro, è l’evidenza di una concomitanza, accanto alla demenza, di altri problemi (di natura psichiatrica, sociale, di disagio…) nei nuclei familiari che vengono inviati al centro. Senza un contatto con l’Uvg è difficile costruire delle correlazioni significative: viene data priorità ai nuclei multiproblematici, oppure fa parte della clinica delle demenze presentarsi accanto ad altre problematiche,  esistenti talvolta da molti anni?

La quantità di informazioni che i familiari portano al centro (problemi, domande, bisogni, conoscenze, capacità) ha portato progressivamente l’équipe ad investire risorse, seguendo l’intuizione che il confronto possa essere vettore del percorso che i pazienti fanno all’interno del centro, dal loro inserimento fino alle dimissioni.

Alla domanda “quando dimettere?” l’équipe ha sospeso il proprio giudizio autonomo, iniziando un percorso di dialogo con ciascun nucleo familiare, per comprendere, allo stato attuale:

– il peso psicologico e di assistenza che grava su di essi;

– le possibilità di pensare ad un futuro;

– il rapporto con il centro, in termini di costi/benefici.

Non ponendosi come luogo decisionale autonomo ed estraneo alla situazione delle singole famiglie, l’équipe ha potuto incontrare elementi inattesi, sia di positività che di limiti del centro: inaspettatamente alcuni familiari sentono che sia quasi giunto il momento di pensare ad un ricovero definitivo, per aggravamento, oppure per propria stanchezza e problemi di salute.

La questione delle dimissioni si è trasformata allora da “passaggio obbligato” (correlato ad aggravamento della malattia, con conseguente aumento del carico assistenziale per il centro) a conclusione concordata di un percorso fatto insieme, sulla base dell’evidenza di uno squilibrio tra i benefici della frequenza del centro ed i costi (monetari, di assistenza, affettivi, ecc.).

Questa è la linea guida sulle dimissioni che il centro ha adottato: costituisce altresì un’indicazione per l’intero percorso fatto dai pazienti e dai loro fami­liari.

Questa modalità concordata di presa delle decisioni comporta l’assunzione di un carico di responsabilità e di lavoro piuttosto complesso per tutto il personale, in quanto la famiglia non è sempre in grado di fare scelte definitive, ed oscilla tra posizioni differenti (chiedere l’intervento dei servizi sociali o meno per un aiuto domiciliare, scegliere un ricovero, ecc.). Il centro sceglie quindi di aspettare, piuttosto che prendere decisioni al posto suo, continuando ad accogliere gli utenti, anche quando le difficoltà oggettive diventano proibitive, e lavorando sul dialogo, in modo da rendere esplicite le contraddizioni ed i dubbi che la condotta dei familiari manifesta,e sostenere la possibilità di fare delle scelte, sempre molto sofferte.

Esempio di questa capacità di attesa è il percorso di una coppia di coniugi ottantenni: la moglie si è ammalata anni fa, lui mano a mano l’ha sostituita in tutte le attività (abbandonando i propri incarichi nel volontariato) fino a doverne gestire l’assistenza (igiene, alimentazione, mobilizzazione…). Dopo una frattura del femore, la signora non è più stata in grado di camminare autonomamente: lui si è dotato di strumenti “fai da te” per poterla portare in ascensore con la carrozzina, ha modificato il sedile dell’auto per rendere più agevole i trasferimenti, ma non sembra tenere conto del fatto che attualmente lei non riesce più a tenersi in piedi (le gambe infatti cedono sotto il suo stesso peso), e che la paura di cadere la rende rigida e poco collaborante.

Al centro il personale deve mobilizzarla in tre per portarla in bagno, lei appare molto spaventata da tutti gli spostamenti e presenta molti lividi: ci si chiede come faccia il marito, da solo, a fare gli spostamenti in casa, dal letto al divano, tenerla in piedi  per cambiarle la protezione igienica.

Nei colloqui con il medico, il marito pare oscillare tra la coscienza delle precarie condizioni della moglie e la speranza di trovare qualche medicina o terapia riabilitativa in grado di restituirle la possibilità di camminare. Si apre alla proposta di chiedere un aiuto domiciliare e di iniziare le pratiche per un ricovero definitivo, poiché sente le proprie forze diminuire e teme un aggravamento della propria patologia cardiaca, ma dopo il colloquio non fa alcun passo per ottenere tutto ciò, manifestando il timore di perdere il posto al centro, ed esprime la sofferenza del dover pensare ad una vita senza sua moglie, in casa da solo.

Il personale sente il peso di questa situazione di stallo: attualmente la signora utilizza il centro solo per le attività di assistenza (bagno settimanale concordato per sollevare il marito da questa attività gravosa, cambio protezioni igieniche, alimentazione, somministrazione terapie), poiché ha perso quasi totalmente l’uso della parola, che resta per lo più ecolalica, e non partecipa alle attività proposte.

È ancora presente una sua capacità a rispondere agli stimoli affettivi (un sorriso, una carezza di altre ospiti) ed è evidente un suo certo gradimento delle ore che vi passa e delle persone che incontra, mentre appare tesa quando percepisce le manovre per tornare a casa.

Inoltre, il personale sente crescere l’insofferenza per il marito, che pare molto appoggiarsi al centro senza accoglierne peraltro le indicazioni ed i consigli: in équipe si riesce a differenziare il rapporto con lui da quello con lei, accettando la permanenza della stessa al centro per la positività che questa frequenza presenta  (sia nell’umore che nelle condizioni igienico-sanitarie), decidendo di prendere provvedimenti per agevolare l’arrivo e la partenza dal centro. Si contatterà direttamente un servizio di trasporto per la carrozzina, in modo da superare le manovre pericolose di caricamento in auto, attendendo nel contempo che il marito possa maturare una scelta.

La settimana successiva al colloquio il marito porta la notizia di aver preso contatti con una struttura per un ricovero, e contemporaneamente di aver definito i tempi per una visita da parte del servizio domiciliare, con cui concordare un intervento.

I tempi di queste pratiche sono di solito piuttosto lunghi, e nel frattempo il centro accetta di porsi come “servizio cuscinetto”, che non abbandona paziente e familiare quando le condizioni decadono, ma mette in atto alcuni elementi per un cambiamento, tenendo conto delle difficoltà di decisioni così definitive e laceranti, come un ricovero o l’aprire la propria porta di casa ai servizi sociali.

 

Il lavoro con le famiglie

Alcuni elementi che si costituiscono come fondanti nel rapporto tra i familiari ed il centro sono:

– l’età spesso avanzata dei caregivers;

– la presenza di altri problemi familiari (malattie gravi ed invalidanti come tumori o disturbi mentali, abuso di sostanze), di cui il caregiver principale si fa carico quotidianamente;

– i rapporti familiari, la cui complessità costituisce spesso ostacolo alla comprensione e presa in carico del malato da parte di un nucleo multigenerazionale;

– la complessità delle pratiche burocratiche per l’accesso ai servizi (assegno di accompagnamento, richiesta ausili, assegno di cura, ecc.).

Dei pazienti che attualmente usufruiscono del centro diurno solo 5 sono uomini, di cui 3 a carico quasi esclusivo delle mogli, uno dei servizi sociali (che ha in carico tutta la famiglia) ed un altro di una figlia. Le donne sono 15, di cui 6 curate dai mariti, 3 vivono ancora da sole, coadiuvate da una badante e da frequenti visite dei figli, 1 è ricoverata in una struttura e 5 vivono con i figli da cui sono curate.

Il fattore età non è senz’altro da sottovalutare: soprattutto i coniugi si sobbarcano una carico di lavoro pesante, rispetto alle proprie energie fisiche. Alcuni mariti si accollano lavori mai fatti nella loro vita, come bucati, pulizie, fino all’igiene personale della moglie malata. Si tratta per lo più di coppie tra i settanta e gli ottant’anni, la cui vita coniugale era fondata sul lavoro fuori casa del marito e quello casalingo della moglie, la quale talvolta  si occu­-pava anche come baby sitter o colf presso altre famiglie.

Sono da rilevare sia la dignità con cui questi uomini si caricano dei  compiti domestici e la qualità con cui li svolgono (la cura degli abiti e l’ordine della persona del malato quando arriva al centro ne sono indice), sia al contrario la presenza di notevoli difficoltà a farsi carico di incombenze che prima erano gestite proprio dal coniuge ora malato (ed in quel caso vi è scarsa igiene piuttosto che una trascuratezza negli abiti). In ogni caso si manifesta spesso un’impossibilità da parte loro di chiedere aiuto, ad esempio attraverso l’assistenza domiciliare:

- per lavare i piatti due volte a settimana posso farlo io;

- non mi va di avere qualcuno in casa con cui devo discutere su come fare certe cose;

- finché ce la faccio vado avanti così.

Talvolta a cambiare le cose sopraggiunge una malattia del caregiver, che impone aggiustamenti e nuove scelte, oppure un accumulo di stanchezza e sentimenti di fallimento, soprattutto quando le condizioni generali del malato decadono.

Capita, ad esempio, che un coniuge si interroghi sull’utilità di un ricovero di sollievo per riposarsi,  sulla durata che potrebbe avere e sulle conseguenze successive nella sua capacità di recuperare energie e coraggio. Oppure che un altro, che frequenta da tre anni il centro, parlando dei ricoveri di sollievo sottolinei come sia diminuito il benessere che questi gli danno, poiché un mese non è mai abbastanza per recuperare “il tempo perso”, sia per le incombenze amministrative e domestiche che per pensare ad un proprio tempo libero: quando si avvicina il momento del rientro a casa del coniuge egli sente crescere in sé la rabbia e l’impotenza ad uscire dalla situazione.

In sede di colloquio l’équipe tenta di allargare la visione dei problemi, attraverso letture alternative dei sintomi e delle difficoltà, proponendo ad esempio tecniche di assistenza “facilitate” (utilizzo del bidet, su cui è difficile far sedere un malato, a favore dell’igiene in piedi, con l’ausilio di salviette e cotone) e modalità di approccio diluite nel tempo, per superare momenti di aggressività.

Emerge in tutti i dialoghi una sospensione della possibilità di pensare al futuro, forse per troppo investimento sul presente gravoso, forse per negazione delle ulteriori problematiche che il futuro riserva, dato il verdetto infausto che la diagnosi di demenza porta con sé; è presente talvolta una tensione a riappropriarsi della propria vita, un reclamarla: in entrambi i casi le espressioni di impotenza, di amarezza per gli “anni rubati” a se stessi ed alla coppia, sono sempre presenti.

Nel caso di tutti i coniugi è presente la ferma volontà di allontanare il più possibile il momento del ricovero in struttura: il confronto avviene sull’esperienza delle ore passate “da soli”, quando il proprio congiunto viene al centro. Emergono infatti segnali di angoscia, non appena si avverte la solitudine: anche quando la malattia ha già quasi spazzato via la personalità del malato, per il coniuge la sua sola presenza fisica è in grado di fornire elementi che fanno dire: «Siamo ancora in due, una coppia». L’assenza fisica presentifica la completa distruzione del legame ed un futuro in cui si sarà soli.

Per questo molti mariti preferiscono che la propria compagna non frequenti il centro tutta la settimana: «Se voi la tenete tre giorni, gli altri due la tengo io». Il centro appare come soggetto con cui condividere sia le incombenze che l’affetto per il coniuge, in assenza però di una delega completa. Una moglie dice: «Ho preso il bello di lui quando stava bene, ora mi tengo il brutto, non lo abbandono».

Solo se il coniuge in salute (per propria struttura personale, piuttosto che per un certo tipo di legame non soddisfacente) riesce a slegarsi dal rapporto di coppia, può pensare ad un ricovero: la sensazione di non farcela più fisicamente, insieme alla percezione di star abbandonando i figli con grosse problematiche, ma anche la sensazione di «essere ancora giovane, a 50 anni si ha il diritto di rifarsi una vita» fanno decidere una moglie per una struttura residenziale.

La posizione di un figlio di fronte alla malattia di un genitore è leggermente diversa, anche se parimenti piena di sofferenza e carico di lavoro. Di solito, in presenza di più figli, solo uno si occupa stabilmente del malato, mentre gli altri sono presenti sporadicamente o con altre forme di cura (dal sostegno monetario alle telefonate quotidiane). In rari casi i figli riescono a mettersi d’accordo per dividersi le incombenze: ad esempio due sorelle che vivono nella stessa casa di corte, in cui il genitore malato può ancora mantenere un piccolo appartamento, con la sorveglianza continua e ad orari delle due famiglie e di una badante.

Di solito i figli intervengono in mancanza di o in aiuto all’altro genitore. Nel primo caso si accollano tutta l’assistenza, nel secondo si interessano soprattutto delle questioni burocratiche, come le prenotazioni a visite mediche, i cambiamenti necessari nel rapporto con le banche, la richiesta di aiuti presso i servizi. Quasi sempre sono interlocutori con una voce propria verso il centro, tale per cui lo stesso deve riuscire a mediare le varie posizioni, senza procurare lacerazioni nel tessuto familiare: quando i figli vorrebbero una presenza quotidiana al centro del genitore malato, mentre il coniuge vorrebbe tenerlo a casa qualche giorno, è necessario tenere in considerazione questa seconda esigenza, senza ledere la possibilità del malato di usufruire del centro in maniera soddisfacente.

In questo caso, infatti, le motivazioni portate dai figli derivano dall’osservazione che a casa il malato è apatico, dorme o resta seduto tutto il giorno, mentre al centro recupera a tratti la socievolezza, partecipa ad attività come la manipolazione piuttosto che la psicomotricità… dunque perché trattenerlo in un ambiente che non gli dà nulla? La posizione del coniuge, invece, come già accennato, tenta di preservare quel minimo di  piacevolezza della “vita di coppia” basato proprio sulla vicinanza fisica, anche in assenza di dialogo e di attività.

Il centro si pone sempre l’obiettivo della miglior qualità di vita possibile, sia per l’ospite che per il caregiver: dunque le esigenze di quest’ultimo devono indirizzare l’agire dell’équipe.

Si presentano anche situazioni di non collaborazione tra il genitore ed i figli: capita ad esempio che dopo cinque anni dall’inizio della malattia un coniuge continui a non chiedere aiuto a nessuno, nonostante la gestione del congiunto a casa sia difficile, sia per l’igiene (rifiutata energicamente) che per l’alimentazione e la vestizione, spesso tentate con sollecitazioni verbali, che il malato non capisce e che lo infastidiscono. I figli finiscono per appoggiarsi ai genitori (per la gestione dei bambini) invece di sostenerli: il caregiver talvolta si lamenta che nessuno lo aiuti, ma alla domanda «Lei ha chiesto ai suoi figli che vengano più spesso, che le diano un po’ il cambio?» risponde di no… di non essere mai stato bravo a chiedere, che i suoi figli sono abituati loro a chiedere.

In queste situazioni l’unica possibilità di intervento per l’équipe è sostenere il caregiver nella riflessione sulla propria condizione, non consigliando ma mettendo in luce la scarsa utilità di alcuni atteggiamenti, e rilevando la possibilità e l’utilità di alcuni cambiamenti.

 

Un interlocutore del sistema famiglia

Sia durante i colloqui di accoglienza, che successivamente negli incontri di aggiornamento della frequenza, si presentano anche altre problematiche che i singoli nuclei familiari devono affrontare.

Soprattutto nelle coppie di coniugi, la malattia di uno dei due segue nel tempo problemi familiari legati ai figli: dipendenze da sostanze, oppure una malattia psichiatrica grave di lunga data, una  morte prematura, ma anche separazioni con conseguente ritorno nel nucleo di origine. Sono presenti inoltre, nella raccolta delle anamnesi, frequenti depressioni post-partum (dai familiari descritte come “esaurimenti”) e l’utilizzo da molti anni di ansiolitici ed antidepressivi nelle donne, e negli uomini una fragilità emotiva emersa chiaramente dopo la morte del proprio padre o nella difficoltà a superare le difficoltà della vita (sul lavoro ad esempio).

Più spesso, nei colloqui di sostegno con i familiari, si presentano complicazioni nei rapporti intergenerazionali, dal sospetto di atti incestuosi all’impedimento del raggiungimento di un’autonomia personale, ma anche disuguaglianze  perpetrate dai genitori sui figli ed una lontananza emotiva dagli stessi. I figli, che si ritrovano ad essere caregiver, devono fare i conti con il rapporto avuto nel corso della vita con i propri genitori, scoprendo a volte di non poter perdonarne le debolezze così come di non riuscire a superarne le imposizioni, ad abbandonarne i valori: una figlia, che si era allontanata dal paese natale per riuscire a costruirsi una vita lontano dalle ingerenze materne, si ritrova a dover prendere presso di sé la madre ormai malata, in un piccolo appartamento con i figli ancora piccoli, ed a dover dividere il proprio tempo e le proprie energie tra loro e lei. Nei brevi momenti di lucidità questa madre riesce ancora ad imporsi sulla figlia, svegliata nel mezzo della notte per la terza volta: «Io ti ho cresciuto, tu adesso devi curarmi!».

Ad aumentare ulteriormente il carico sui familiari sono gli innumerevoli atti burocratici che devono essere eseguiti per accedere a servizi, medicinali, anche solo informazioni. La maggior parte delle pratiche mediche (dall’Uvg alle prescrizioni di medicinali o di ausili, all’accesso all’assegno di accompagnamento) passano attraverso il medico di base, poi la prenotazione presso gli uffici Asl, poi le visite, poi l’attesa di un responso, le trafile all’Inps quando le pratiche si arenano in qualche ufficio. Similmente l’accesso all’assistenza domiciliare, all’assegno di cura necessitano di prenotazioni ed appuntamenti presso i  servizi sociali, colloqui, presentazione di una serie di requisiti (dichiarazione dei redditi, certificati medici, ecc.) tali per cui molti familiari rinunciano in partenza, non potendo dedicare così tanto tempo agli uffici, quando a casa non sanno a chi lasciare il proprio congiunto malato.

Altre pratiche fondamentali, soprattutto quando la malattia viene diagnosticata, sono le modifiche ai conti correnti bancari, la domiciliazione di bollette e pensioni, la curatela oppure l’interdizione con designazione di un tutore, in modo da garantire il patrimonio del malato.

Il centro diviene così luogo presso cui chiedere informazioni, ma anche delegare almeno alcune pratiche. Di qui la conoscenza ed il dialogo con i servizi sociali, la sanità di territorio e quella ospedaliera.

Inoltre la conoscenza tra familiari, sostenuta attraverso la costituzione di un gruppo di auto aiuto, diventa strumento per confrontare le reciproche situazioni, scambiarsi indirizzi e consigli, talvolta proporsi come soggetto di fronte alle istituzioni.

 

Alcuni percorsi attraverso il centro diurno

1. L., maschio, 66 anni, arriva al centro a cinque anni dall’inizio della malattia: l’insorgenza è avvenuta in modo insidioso, con un’afasia che in due anni lo ha portato a perdere la capacità di esprimersi verbalmente. Per molto tempo è stato in cura da un neurologo, senza che la portata del disturbo abbia condotto ad una diagnosi di demenza. L., sposato e con due figli adulti, sposati a loro volta, vive con la moglie in una casa fuori dal centro abitato: ha un bel giardino, ma è un po’ isolata. Poco dopo i primi sintomi (confusione di oggetti, difficoltà a gestire la contabilità familiare) iniziati appena era andato in pensione, un giorno tornando da un pranzo con i familiari accosta l’automobile e lascia le chiavi alla moglie «Non voglio più guidare, fallo tu»: la mette in gran agitazione, poiché da quando si erano sposati lei non aveva più guidato, lasciando a lui l’incombenza. Abbandona anche le attività di bricolage, prima molto amate, si ritira nel mutismo, caratterizzato anche da inespressione facciale: è molto difficile capire come si senta. Finalmente l’ampiezza del quadro clinico lo fa approdare all’Uva (Unità valutativa Alzheimer): a quel punto la diagnosi non risulta incomprensibile, ma resta ai  familiari la sensazione di aver perso molto tempo, soprattutto per l’aggravamento veloce che ha colpito L. Quando viene prospettato il centro diurno, lui non parla più da molto, passa la giornata a vagabondare in casa o in giardino, deve essere accudito sia per l’igiene che per espletare le funzioni fisiologiche. È molto aggressivo con la moglie che tenta di lavarlo, arrivando a picchiarla: lei non se lo spiega, è stato sempre un uomo molto dolce, sensibile, premuroso con i figli, di compagnia. Solo in alcune occasioni della vita (un licenziamento, la morte dei genitori) si è molto appoggiato alla moglie, che «lo ha rimesso in carreggiata».

La richiesta di inserimento presso il centro è soprattutto un’esigenza della moglie: è stanca, ha da poco subito un’operazione la cui convalescenza è stata troppo breve, si sorprende ad arrabbiarsi con L. per suoi gesti poco consapevoli, e poi si sente in colpa. L. sembra accorgersi dell’angoscia della moglie, cui risponde (nonostante magari poco prima abbia provato di picchiarla) con tentativi di consolarla, con gesti di vicinanza e verbalizzazioni smozzicate. I figli le sono vicini, soprattutto la accompagnano in auto visto che lei non la usa volentieri, però hanno una propria famiglia, lei non vuole abusarne. Presso il centro le insegnano come proporre manovre meno fastidiose per l’igiene, viene impostata una terapia con ipnoinducenti per la notte, affinché entrambi possano riposare. Si iniziano le pratiche per l’assegno di accompagnamento e poi per quello di cura.

La signora riesce a rilassarsi, ad essere meno dura con se stessa, e ad accettare che in futuro altre scelte potrebbero rendersi necessarie. Partecipa al gruppo famiglie portando la sua dolorosa esperienza, trovando sostegno nel dialogo con persone che fanno esperienze simili alle sue.

A distanza di un anno può chiedere un ricovero di sollievo per pensare ad una breve vacanza, dapprima vagheggiata e poi scelta superando sentimenti di abbandono.

Attualmente L. frequenta ancora il centro: non partecipa alle attività, ma lo spazio in sicurezza gli permette di muoversi tutto il giorno senza problemi. Con gli altri ospiti non ha rapporti, tranne una spiccata insofferenza per chi è agitato o gli si para davanti: se chiamato alza lo sguardo, che rimane fisso sull’interlocutore, tentando di balbettare qualcosa. La malattia probabilmente lo ha privato troppo presto della capacità di esprimersi, a dispetto di una sensibilità alla relazione ancora buona.

 

2. A.M. ha 79 anni: è una donna ancora molto autonoma, con grande capacità espressiva, talvolta molto ironica. Arriva al centro nel 2002 a seguito della segnalazione di una nuora: vive da sola, essendo vedova da alcuni anni. Negli ultimi mesi ha perso molto peso, non cucina più, la casa è molto disordinata, forse qualcuno la va a trovare per rubarle i soldi. Un esame delle condizioni globali mostra segni di un decadimento cognitivo molto lieve, a fronte di capacità di gestione quotidiana molto scarsa, che lei nega. È diabetica. Per alcuni mesi i due figli hanno tentato una gestione familiare: il più giovane si è stabilito da lei con la famiglia, in attesa di un riavvicinamento lavorativo, mentre il più grande e la nuora pensavano alla gestione economica. La convivenza è stata molto dura: A.M. si sentiva prigioniera in casa sua, accusava figlio e nuora di rubare, tanto che dopo alcuni mesi se ne sono dovuti andare. È stato necessario portare via la sua automobile, che lei continuava a voler usare nonostante la patente non le fosse stata rinnovata. Vivendo da sola, alcune informazioni sono solo supposizioni: una certa irritabilità e gli oggetti in casa fanno supporre una predisposizione al bere, mentre a fronte delle sue affermazioni di cucinare tutti i giorni, i cibi vanno a male nel frigo. Solo le merendine comprate dalla nuora spariscono da un giorno all’altro.

La visita Uvg dà un responso complesso: tentare il mantenimento a casa con l’inserimento  presso il centro diurno. Questa soluzione appaga i familiari, che trovano un punto di riferimento sia per la gestione delle terapia che per la sicurezza diurna (mentre la notte ci si basa sul fatto che lei dice di non uscire). A.M. inizialmente rifiuta con energia l’inserimento: è effettivamente molto diversa dalle altre ospiti. Dialoga con il personale, racconta con proprietà di sé, del suo passato e delle sofferenze che la vita le ha riservato. È stata messa a conoscenza della diagnosi di demenza, per cui talvolta guarda con sospetto alcuni ospiti deteriorati, e chiede se diventerà anche lei così, oppure ironizza sui loro deficit (in particolar modo di coordinazione motoria), provocando alcune situazioni di aggressività. Il personale deve lavorare a costruire un rapporto di fiducia con lei, dandole piccoli incarichi (apparecchiare la tavola, spazzare dopo pranzo): in alcuni momenti di confusione lei afferma di essere una dipendente dell’Asl.

Di umore molto altalenante, capita che non venga al centro (cui viene accompagnata da un servizio di trasporto sanitario) perché «desidera restare a dormire», quindi non risponde al citofono.

Le difficoltà a compensare il diabete vengono minate dai giorni (e weekend) passati a casa da sola. La nuora riferisce della differenza notevole tra le conservate capacità dialettiche e la progressiva difficoltà a portare a termine compiti relativamente semplici: è capace di passare quasi un intero pomeriggio a stirare un fazzoletto solo.

Dopo circa 18 mesi dall’inserimento, su sollecitazione del centro, i familiari accettano un ricovero di sollievo, perché i problemi a casa stanno aumentando: c’è però una sorta di paralisi decisionale. Mentre appare evidente che A.M. non possa più stare in casa da sola, i due figli non cercano altre soluzioni, nell’idea che la madre non accetterebbe, ad esempio, un ricovero in una struttura residen­ziale.

Al ritorno presso il centro, dopo alcune crisi iperglicemiche e numerose assenze (talvolta lei afferma di non voler più venire, perché perde troppo tempo e poi deve fare i lavori di casa di notte, altre volte ricerca attivamente il rapporto con il personale) la famiglia decide di cercare una badante, che stia con lei fino all’ora di andare a dormire: questa presenza, inizialmente molto boicottata, viene da A.M. accettata, con una tendenza però a sentirsi “datrice di lavoro”, con atteggiamenti molto impositivi.

L’anno successivo, durante un altro ricovero di sollievo, i familiari fanno domanda per un ricovero definitivo nel tentativo di metter ordine nella confusione che A.M. crea intorno a sé (anche telefonando a familiari cui racconta di essere maltrattata). La visita per l’aggravamento dell’Uvg, però, nonostante certifichi un peggioramento delle autonomie e in misura minore del quadro di deterioramento mantiene la scelta del centro diurno, assecondando la volontà da lei espressa di ritornarvi: nei periodi in cui è assente permane in lei un ricordo di benessere per le giornate trascorse in compagnia.

Vi è in questo caso un’attenzione al soggetto della valutazione, in quanto A.M., se interrogata, sa dire cosa vuole: mantiene una buona capacità di contrattare su tutto ciò che la riguarda, mentre le sue performances perdono di qualità quando è da sola. Il centro allora costituisce il sostegno, forse anche il contenitore entro cui lei sente di avere ancora delle opportunità di autoaffermazione, a difesa contro la perdita di capacità e di consapevolezza.

 

3. I. ha 85 anni. È stata una delle prime pazienti a frequentare il centro. La sindrome dementigena tipo Alzheimer è stata diagnosticata nel 1998. Lei è arrivata al centro nel 2001. Vive con la famiglia della figlia, da quando la malattia ha inficiato la capacità di gestire la vita domestica; gode di buona salute, a parte un quadro di arteriopatia cronica agli arti inferiori. Molto tranquilla, si presenta sempre sorridente, saluta chi incontra come vecchi conoscenti, spesso canticchia vecchi motivi inventando i testi (con buona proprietà linguistica). Poco attiva, passa la giornata seduta in poltrona, cercando la vicinanza di altre donne: se invitata a partecipare a qualche attività accetta cordialmente. Ha poca consapevolezza delle proprie difficoltà (di riconoscimento di forme e colori, di coordinamento): questo la preserva da sentimenti di svalutazione, per cui può continuare un’attività con un certo interesse nonostante non raggiunga i risultati richiesti. Solo durante la notte spesso è confusa, si alza più volte cercando il bagno, oppure canta. I familiari hanno evidenziato il percorso che dalla sua camera porta al bagno con strisce luminescenti al buio, per permetterle il mantenimento dell’autonomia il più a lungo possibile. La frequenza del centro permette a lei una serie di relazioni e di attività piacevoli (dalla psicomotricità alla manipolazione), che a casa le sarebbero impossibili e consente alla famiglia di avere almeno tre giornate libere dalla sorveglianza. A lungo la figlia mantiene una serie di attività cui entrambe erano abituate, come la messa del mattino presto: ella è colpita dal fatto che I. possa recitare tutte le preghiere di rito, mentre in modo autonomo non riesce più a produrre un discorso di senso compiuto. Nel corso del tempo è soprattutto l’autonomia a ridursi: alcuni incidenti diurni sollecitano l’uso di protezioni igieniche, che dapprima la figlia rifiuta, quasi con vergogna, riconoscendone in seguito l’utilità e la praticità. Di notte è necessario posizionare le sbarre al letto, poiché ormai lo stimolo della minzione è scarso, così come la capacità di trovare ed utilizzare correttamente il bagno: il dialogo con il medico consente di aggiornare costantemente la terapia, mentre il confronto con il personale di assistenza permette di fare dei tentativi e cambiare le modalità di accudimento parallelamente ai mutevoli bisogni di I.

Una frattura di femore, conseguenza di una caduta a casa, costringe la famiglia ad interrompere il rapporto con il centro: dapprima temporaneamente, in attesa dell’intervento. Quando questo viene sostituito con una lunga degenza con l’arto in trazione, ed appaiono ridotte le possibilità che I. torni a camminare, la scelta diventa definitiva: molti giorni a letto l’hanno indebolita, appare molto confusa e passiva, ed i familiari preferiscono tenerla presso di sé, seppur mantenendosi in contatto con il centro.

 

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Gli esempi portati, le tematiche fin qui affrontate, sottendono un filo rosso che promuove a metodo di lavoro la pratica quotidiana del centro diurno: i colloqui con i familiari, l’osservazione dei pazienti, le telefonate d’emergenza, la ricerca di informazioni presso altri servizi, l’interrogarsi sul senso delle dimissioni costituiscono un lavoro a più dimensioni, in cui sanità, assistenza, sostegno psicologico e progetto riabilitativo si intrecciano. Non c’è pertanto possibilità di  individuare uno di questi versanti come unico e capace di rendere ragione della qualità del servizio. Ogni giorno, ogni evento è capace di modificare la complessità delle situazioni uniche, personali, che ciascun malato e la sua famiglia portano al centro, cercando in esso un soggetto che possa prendersene carico, magari senza possibilità di trovare risposte esaustive o soluzioni definitive, ma accettando di accompagnarli in quel viaggio così doloroso che è l’esperienza di un processo dementigeno.

 

 

 

(1) Cfr. “Regolamento di due Rsa gestite dall’Asl 2 di Torino, Prospettive assistenziali, n. 139, 2002; “Regolamento della Rsa gestita dall’Asl 4 di Torino”, Ibidem, n. 142, 2003; “Regolamento e progetto di gestione della Rsa Latour dell’Asl 8 del Piemonte: una struttura a valenza prevalentemente sanitaria di cura e accoglienza”, Ibidem, n. 146, 2004.

(2) L’elenco degli articoli sui centri diurni per i malati di Alzheimer pubblicati su Prospettive assistenziali è riportato nella nota 1 di pag. 26 del n. 147, 2004.

 

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