Prospettive assistenziali, n. 149, gennaio - marzo 2005
IL SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE DA PARTE
DI UN CENTRO DIURNO PER MALATI DI ALZHEIMER: UNA STRUTTURA CHE APPRENDE
DALL’ESPERIENZA
Paola Savarino
Da anni il Csa (Coordinamento sanità e assistenza
tra i movimenti di base) e Prospettive assistenziali operano affinché venga riconosciuto il diritto alle cure sanitarie
anche alle persone colpite dal morbo di Alzheimer o da altre forme di demenza
senile.
Le pressioni esercitate
sulla Regione Piemonte e sulle Asl
hanno determinato sia la gestione da parte della sanità di Rsa (residenze
sanitarie assistenziali) (1) che assicurano agli utenti,
colpiti da patologie invalidanti e da non autosufficienza, prestazioni di gran
lunga migliori di quelle fornite dalle strutture private, sia l’istituzione di
centri diurni sanitari per i pazienti affetti da demenza senile (2).
L’articolo della dott.sa Paola Savarino,
psicologa consulente presso il centro diurno di Volpiano
(Torino) dell’Asl 7, che
ringraziamo per la collaborazione, dimostra che gli operatori sanitari sono in
grado di garantire la gestione corretta anche delle attività cosiddette
sociali, occorrenti per il benessere fisico e psichico dei soggetti accolti e
dei loro congiunti.
Il centro diurno di Volpiano è ormai attivo da tre anni. Nel corso di questo
periodo ha avuto in carico 73 pazienti, con un turn over medio di 5 pazienti per anno. Delle persone dimesse 12 sono
decedute, mentre 11 sono state ricoverate in strutture residenziali, 4 vivono
ancora presso il domicilio con familiari. Una sola famiglia ha rinunciato al
centro per motivi economici. Un paziente, nonostante il
ricovero in Rsa per motivi di sicurezza personale (viveva da solo), continua ad
usufruire del centro, possibilità che lo mantiene vigile ed attivo.
Allo stato attuale il centro
ospita 20 pazienti,
suddivisi in gruppi di circa 15 al giorno, dal lunedì al venerdì, dalle 8
antimeridiane alle 17 pomeridiane.
Si è costituita, nel frattempo,
una lista d’attesa, poiché sono più numerosi gli invii (provengono dall’Uvg, Unità valutativa geriatrica dell’ Asl 7 del Piemonte) che le
dimissioni dal centro.
Nato sulla base dell’esigenza
sentita dagli amministratori di rispondere ad una domanda presente sul
territorio, ma senza una precisa definizione del proprio ruolo all’interno
della rete dei servizi per la vecchiaia, il centro diurno si è trovato nel
corso di questi anni a porsi una serie di interrogativi
sulle proprie funzioni: deve rispondere ad una domanda di sollievo delle
famiglie? Si deve concentrare su una proposta riabilitativa per i malati di Alzheimer? Può sostituirsi come
risposta all’istituzionalizzazione?
Ne sono emerse risposte differenziate, ovvero si sono strutturate nel tempo una
gamma di attività, anche grazie all’intervento di consulenti esterni (psicomotricista, musicoterapeuta,
psicologo) e di proposte, nel tentativo di venire incontro alle esigenze man
mano incontrate sia degli ospiti che delle loro famiglie.
Anche il rapporto con gli altri
servizi si è nel tempo rafforzato e differenziato. Il
contatto con i servizi sociali è ormai costante, sia per ottenere informazioni
da riportare ai familiari, sia per condividere la presa in carico di nuclei
familiari multiproblematici; anche il rapporto con alcune strutture
residenziali del territorio è diventato importante, poiché molti familiari
richiedono brevi periodi di riposo dal lavoro costante di cura, attraverso
ricoveri detti “di sollievo”.
Manca ancora un rapporto diretto,
ed una condivisione di obiettivi, con l’Uvg, che pure costituisce il trait d’union tra il centro e gli utenti dell’Asl.
Attualmente l’Uvg si occupa
di fare degli invii, valutando l’opportunità dell’inserimento di un utente,
conoscendo però poco del centro, del suo modo di lavorare, di ciò che offre…
allo stesso modo il centro non conosce i criteri di valutazione dell’Uvg. Ad esempio, una questione attualmente aperta al centro, è l’evidenza di una
concomitanza, accanto alla demenza, di altri problemi (di natura psichiatrica,
sociale, di disagio…) nei nuclei familiari che vengono inviati al centro. Senza
un contatto con l’Uvg è difficile costruire delle
correlazioni significative: viene data priorità ai
nuclei multiproblematici, oppure fa parte della clinica delle demenze
presentarsi accanto ad altre problematiche,
esistenti talvolta da molti anni?
La quantità di informazioni
che i familiari portano al centro (problemi, domande, bisogni, conoscenze,
capacità) ha portato progressivamente l’équipe ad
investire risorse, seguendo l’intuizione che il confronto possa essere vettore
del percorso che i pazienti fanno all’interno del centro, dal loro inserimento
fino alle dimissioni.
Alla domanda “quando dimettere?”
l’équipe ha sospeso il proprio giudizio autonomo,
iniziando un percorso di dialogo con ciascun nucleo familiare, per comprendere,
allo stato attuale:
– il peso psicologico e di assistenza che grava su di essi;
– le possibilità di pensare ad un
futuro;
– il rapporto con il centro, in
termini di costi/benefici.
Non ponendosi come luogo
decisionale autonomo ed estraneo alla situazione delle singole famiglie, l’équipe ha potuto incontrare
elementi inattesi, sia di positività che di limiti del centro: inaspettatamente
alcuni familiari sentono che sia quasi giunto il momento di pensare ad un
ricovero definitivo, per aggravamento, oppure per propria stanchezza e problemi
di salute.
La questione delle dimissioni si
è trasformata allora da “passaggio obbligato” (correlato ad aggravamento della
malattia, con conseguente aumento del carico assistenziale
per il centro) a conclusione concordata di un percorso fatto insieme, sulla
base dell’evidenza di uno squilibrio tra i benefici della frequenza del centro
ed i costi (monetari, di assistenza, affettivi, ecc.).
Questa è la linea guida sulle
dimissioni che il centro ha adottato: costituisce altresì un’indicazione per
l’intero percorso fatto dai pazienti e dai loro familiari.
Questa modalità concordata di
presa delle decisioni comporta l’assunzione di un carico di responsabilità e di
lavoro piuttosto complesso per tutto il personale, in quanto la famiglia non è
sempre in grado di fare scelte definitive, ed oscilla tra posizioni differenti
(chiedere l’intervento dei servizi sociali o meno per un aiuto domiciliare,
scegliere un ricovero, ecc.). Il centro sceglie quindi di aspettare, piuttosto
che prendere decisioni al posto suo, continuando ad
accogliere gli utenti, anche quando le difficoltà oggettive diventano
proibitive, e lavorando sul dialogo, in modo da rendere esplicite le
contraddizioni ed i dubbi che la condotta dei familiari manifesta,e sostenere
la possibilità di fare delle scelte, sempre molto sofferte.
Esempio di questa capacità di attesa è il percorso di una coppia di coniugi ottantenni:
la moglie si è ammalata anni fa, lui mano a mano l’ha sostituita in tutte le
attività (abbandonando i propri incarichi nel volontariato) fino a doverne
gestire l’assistenza (igiene, alimentazione, mobilizzazione…). Dopo una
frattura del femore, la signora non è più stata in grado di camminare
autonomamente: lui si è dotato di strumenti “fai da te” per poterla portare in
ascensore con la carrozzina, ha modificato il sedile dell’auto per rendere più
agevole i trasferimenti, ma non sembra tenere conto del fatto che attualmente lei non riesce più a tenersi in piedi (le gambe
infatti cedono sotto il suo stesso peso), e che la paura di cadere la rende
rigida e poco collaborante.
Al centro il personale deve
mobilizzarla in tre per portarla in bagno, lei appare molto spaventata da tutti
gli spostamenti e presenta molti lividi: ci si chiede come faccia il marito, da
solo, a fare gli spostamenti in casa, dal letto al divano, tenerla in piedi per cambiarle la
protezione igienica.
Nei colloqui con il medico, il
marito pare oscillare tra la coscienza delle precarie condizioni della moglie e
la speranza di trovare qualche medicina o terapia riabilitativa in grado di
restituirle la possibilità di camminare. Si apre alla proposta di chiedere un
aiuto domiciliare e di iniziare le pratiche per un ricovero definitivo, poiché
sente le proprie forze diminuire e teme un aggravamento della propria patologia
cardiaca, ma dopo il colloquio non fa alcun passo per ottenere tutto ciò,
manifestando il timore di perdere il posto al centro, ed esprime la sofferenza
del dover pensare ad una vita senza sua moglie, in casa da solo.
Il personale sente il peso di
questa situazione di stallo: attualmente la signora
utilizza il centro solo per le attività di assistenza (bagno settimanale
concordato per sollevare il marito da questa attività gravosa, cambio
protezioni igieniche, alimentazione, somministrazione terapie), poiché ha perso
quasi totalmente l’uso della parola, che resta per lo più ecolalica,
e non partecipa alle attività proposte.
È ancora presente una sua
capacità a rispondere agli stimoli affettivi (un sorriso, una carezza di altre ospiti) ed è evidente un suo certo gradimento delle
ore che vi passa e delle persone che incontra, mentre appare tesa quando
percepisce le manovre per tornare a casa.
Inoltre, il personale sente
crescere l’insofferenza per il marito, che pare molto appoggiarsi al centro
senza accoglierne peraltro le indicazioni ed i consigli: in équipe
si riesce a differenziare il rapporto con lui da quello con lei, accettando la
permanenza della stessa al centro per la positività che questa frequenza
presenta (sia
nell’umore che nelle condizioni igienico-sanitarie),
decidendo di prendere provvedimenti per agevolare l’arrivo e la partenza dal
centro. Si contatterà direttamente un servizio di trasporto per la carrozzina,
in modo da superare le manovre pericolose di caricamento in auto, attendendo nel contempo che il marito possa maturare una scelta.
La settimana successiva al
colloquio il marito porta la notizia di aver preso contatti con una struttura
per un ricovero, e contemporaneamente di aver definito i tempi per una visita
da parte del servizio domiciliare, con cui concordare un intervento.
I tempi di queste pratiche sono di solito piuttosto lunghi, e nel frattempo il centro
accetta di porsi come “servizio cuscinetto”, che non abbandona paziente e
familiare quando le condizioni decadono, ma mette in atto alcuni elementi per
un cambiamento, tenendo conto delle difficoltà di decisioni così definitive e
laceranti, come un ricovero o l’aprire la propria porta di casa ai servizi
sociali.
Il lavoro con le
famiglie
Alcuni elementi che si costituiscono
come fondanti nel rapporto tra i familiari ed il centro sono:
– l’età spesso avanzata dei caregivers;
– la presenza di
altri problemi familiari (malattie gravi ed invalidanti come tumori o
disturbi mentali, abuso di sostanze), di cui il caregiver principale si fa carico quotidianamente;
– i rapporti familiari, la cui
complessità costituisce spesso ostacolo alla comprensione e presa in carico del
malato da parte di un nucleo multigenerazionale;
– la complessità delle pratiche
burocratiche per l’accesso ai servizi (assegno di accompagnamento,
richiesta ausili, assegno di cura, ecc.).
Dei pazienti che attualmente usufruiscono del centro diurno solo 5 sono
uomini, di cui
Il fattore età non è senz’altro
da sottovalutare: soprattutto i coniugi si sobbarcano una
carico di lavoro pesante, rispetto alle proprie energie fisiche. Alcuni
mariti si accollano lavori mai fatti nella loro vita, come bucati,
pulizie, fino all’igiene personale della moglie malata. Si tratta per lo
più di coppie tra i settanta e gli ottant’anni, la
cui vita coniugale era fondata sul lavoro fuori casa del marito e quello casalingo della moglie, la quale talvolta si occu-pava anche come baby sitter o colf presso altre famiglie.
Sono da rilevare sia la dignità
con cui questi uomini si caricano dei compiti domestici e la qualità con cui
li svolgono (la cura degli abiti e l’ordine della persona del malato quando
arriva al centro ne sono indice), sia al contrario la presenza di notevoli
difficoltà a farsi carico di incombenze che prima erano gestite proprio dal
coniuge ora malato (ed in quel caso vi è scarsa igiene piuttosto che una
trascuratezza negli abiti). In ogni caso si manifesta spesso un’impossibilità
da parte loro di chiedere aiuto, ad esempio attraverso l’assistenza
domiciliare:
- per lavare i piatti due volte a
settimana posso farlo io;
- non mi va di avere
qualcuno in casa con cui devo discutere su come fare certe cose;
- finché
ce la faccio vado avanti così.
Talvolta a cambiare le cose
sopraggiunge una malattia del caregiver, che
impone aggiustamenti e nuove scelte, oppure un accumulo di stanchezza e
sentimenti di fallimento, soprattutto quando le condizioni generali del malato
decadono.
Capita, ad esempio, che un
coniuge si interroghi sull’utilità di un ricovero di
sollievo per riposarsi, sulla durata che
potrebbe avere e sulle conseguenze successive nella sua capacità di recuperare
energie e coraggio. Oppure che un altro, che frequenta da tre anni il centro,
parlando dei ricoveri di sollievo sottolinei come sia
diminuito il benessere che questi gli danno, poiché un mese non è mai
abbastanza per recuperare “il tempo perso”, sia per le incombenze
amministrative e domestiche che per pensare ad un proprio tempo libero: quando
si avvicina il momento del rientro a casa del coniuge egli sente crescere in sé
la rabbia e l’impotenza ad uscire dalla situazione.
In sede di colloquio l’équipe tenta di allargare la visione dei problemi,
attraverso letture alternative dei sintomi e delle difficoltà, proponendo ad esempio tecniche di assistenza “facilitate” (utilizzo del
bidet, su cui è difficile far sedere un malato, a favore dell’igiene in piedi,
con l’ausilio di salviette e cotone) e modalità di approccio diluite nel tempo,
per superare momenti di aggressività.
Emerge in tutti i dialoghi una sospensione della possibilità di pensare al
futuro, forse per troppo investimento sul presente gravoso, forse per negazione
delle ulteriori problematiche che il futuro riserva, dato il verdetto infausto
che la diagnosi di demenza porta con sé; è presente talvolta una tensione a
riappropriarsi della propria vita, un reclamarla: in entrambi i casi le
espressioni di impotenza, di amarezza per gli “anni rubati” a se stessi ed alla
coppia, sono sempre presenti.
Nel caso di tutti i coniugi è presente la ferma volontà di allontanare il più possibile
il momento del ricovero in struttura: il confronto avviene sull’esperienza
delle ore passate “da soli”, quando il proprio congiunto viene al centro. Emergono infatti segnali di angoscia, non appena si avverte la
solitudine: anche quando la malattia ha già quasi spazzato via la personalità
del malato, per il coniuge la sua sola presenza fisica è in grado di fornire
elementi che fanno dire: «Siamo ancora in
due, una coppia». L’assenza fisica presentifica la completa distruzione del legame ed un futuro in cui si
sarà soli.
Per questo
molti mariti
preferiscono che la propria compagna non frequenti il centro tutta la
settimana: «Se
voi la tenete tre giorni, gli altri due la tengo io». Il centro appare come
soggetto con cui condividere sia le incombenze che
l’affetto per il coniuge, in assenza però di una delega completa. Una moglie
dice: «Ho preso il bello
di lui quando stava bene, ora mi tengo il brutto, non lo abbandono».
Solo se il coniuge in salute (per
propria struttura personale, piuttosto che per un certo tipo di legame non
soddisfacente) riesce a slegarsi dal rapporto di coppia, può pensare ad un
ricovero: la sensazione di non farcela più fisicamente, insieme alla percezione
di star abbandonando i figli con grosse problematiche, ma anche la sensazione
di «essere ancora giovane, a 50 anni si
ha il diritto di rifarsi una vita» fanno decidere
una moglie per una struttura residenziale.
La posizione di un figlio di
fronte alla malattia di un genitore è leggermente
diversa, anche se parimenti piena di sofferenza e carico di lavoro. Di solito, in presenza di più figli, solo uno si occupa stabilmente del
malato, mentre gli altri sono presenti sporadicamente o con altre forme di cura
(dal sostegno monetario alle telefonate quotidiane). In rari casi i figli
riescono a mettersi d’accordo per dividersi le incombenze: ad esempio due
sorelle che vivono nella stessa casa di corte, in cui il genitore malato può
ancora mantenere un piccolo appartamento, con la sorveglianza continua e ad
orari delle due famiglie e di una badante.
Di solito i figli intervengono in
mancanza di o in aiuto all’altro genitore. Nel primo caso si accollano tutta
l’assistenza, nel secondo si interessano soprattutto
delle questioni burocratiche, come le prenotazioni a visite mediche, i
cambiamenti necessari nel rapporto con le banche, la richiesta di aiuti presso
i servizi. Quasi sempre sono interlocutori con una
voce propria verso il centro, tale per cui lo stesso deve riuscire a mediare le
varie posizioni, senza procurare lacerazioni nel tessuto familiare: quando i
figli vorrebbero una presenza quotidiana al centro del genitore malato, mentre
il coniuge vorrebbe tenerlo a casa qualche giorno, è necessario tenere in
considerazione questa seconda esigenza, senza ledere la possibilità del malato
di usufruire del centro in maniera soddisfacente.
In questo caso, infatti, le
motivazioni portate dai figli derivano dall’osservazione che a casa il malato è
apatico, dorme o resta seduto tutto il giorno, mentre al centro recupera a
tratti la socievolezza, partecipa ad attività come la manipolazione piuttosto
che la psicomotricità… dunque perché trattenerlo in un ambiente che non gli dà
nulla? La posizione del coniuge, invece, come già accennato, tenta di
preservare quel minimo di
piacevolezza della “vita di coppia” basato proprio sulla
vicinanza fisica, anche in assenza di dialogo e di attività.
Il centro si pone sempre
l’obiettivo della miglior qualità di vita possibile, sia per l’ospite che per il caregiver: dunque le esigenze di quest’ultimo
devono indirizzare l’agire dell’équipe.
Si presentano anche situazioni di
non collaborazione tra il genitore ed i figli: capita ad esempio che dopo
cinque anni dall’inizio della malattia un coniuge continui a non chiedere aiuto
a nessuno, nonostante la gestione del congiunto a casa sia difficile, sia per
l’igiene (rifiutata energicamente) che per l’alimentazione e la vestizione,
spesso tentate con sollecitazioni verbali, che il malato non capisce e che lo
infastidiscono. I figli finiscono per appoggiarsi ai genitori (per la gestione
dei bambini) invece di sostenerli: il caregiver talvolta
si lamenta che nessuno lo aiuti, ma alla domanda «Lei ha chiesto ai suoi figli che vengano più
spesso, che le diano un po’ il cambio?» risponde di no… di non essere mai
stato bravo a chiedere, che i suoi figli sono abituati loro a chiedere.
In queste situazioni l’unica
possibilità di intervento per l’équipe
è sostenere il caregiver nella riflessione sulla propria
condizione, non consigliando ma mettendo in luce la scarsa utilità di alcuni
atteggiamenti, e rilevando la possibilità e l’utilità di alcuni cambiamenti.
Un interlocutore
del sistema famiglia
Sia durante i colloqui di accoglienza, che successivamente negli incontri di
aggiornamento della frequenza, si presentano anche altre problematiche che i
singoli nuclei familiari devono affrontare.
Soprattutto nelle coppie di
coniugi, la malattia di uno dei due segue nel tempo problemi familiari legati
ai figli: dipendenze da sostanze, oppure una malattia psichiatrica grave di
lunga data, una morte
prematura, ma anche separazioni con conseguente ritorno nel nucleo di origine. Sono
presenti inoltre, nella raccolta delle anamnesi, frequenti depressioni post-partum (dai familiari descritte
come “esaurimenti”) e l’utilizzo da molti anni di ansiolitici ed antidepressivi
nelle donne, e negli uomini una fragilità emotiva emersa chiaramente dopo la
morte del proprio padre o nella difficoltà a superare le difficoltà della vita
(sul lavoro ad esempio).
Più spesso, nei colloqui di
sostegno con i familiari, si presentano complicazioni nei rapporti
intergenerazionali, dal sospetto di atti incestuosi
all’impedimento del raggiungimento di un’autonomia personale, ma anche
disuguaglianze perpetrate dai genitori
sui figli ed una lontananza emotiva dagli stessi. I figli, che si ritrovano ad
essere caregiver,
devono fare i conti con il rapporto avuto nel corso della vita con i propri
genitori, scoprendo a volte di non poter perdonarne le debolezze così come di
non riuscire a superarne le imposizioni, ad abbandonarne i valori: una figlia,
che si era allontanata dal paese natale per riuscire a costruirsi una vita
lontano dalle ingerenze materne, si ritrova a dover prendere presso di sé la
madre ormai malata, in un piccolo appartamento con i figli ancora piccoli, ed a dover dividere il proprio tempo e le proprie
energie tra loro e lei. Nei brevi momenti di lucidità questa madre riesce
ancora ad imporsi sulla figlia, svegliata nel mezzo della notte per la terza
volta: «Io ti ho
cresciuto, tu adesso devi curarmi!».
Ad aumentare
ulteriormente il carico sui familiari sono gli innumerevoli atti burocratici
che devono essere eseguiti per accedere a servizi,
medicinali, anche solo informazioni. La maggior parte delle pratiche mediche
(dall’Uvg alle prescrizioni di medicinali o di ausili, all’accesso all’assegno di accompagnamento)
passano attraverso il medico di base, poi la prenotazione presso gli uffici Asl, poi le visite, poi l’attesa di un responso, le trafile
all’Inps quando le pratiche si arenano in qualche
ufficio. Similmente l’accesso all’assistenza domiciliare, all’assegno di cura necessitano di prenotazioni ed appuntamenti presso i servizi sociali, colloqui, presentazione di
una serie di requisiti (dichiarazione dei redditi, certificati medici, ecc.)
tali per cui molti familiari rinunciano in partenza, non potendo dedicare così
tanto tempo agli uffici, quando a casa non sanno a chi lasciare il proprio
congiunto malato.
Altre pratiche fondamentali,
soprattutto quando la malattia viene diagnosticata,
sono le modifiche ai conti correnti bancari, la domiciliazione
di bollette e pensioni, la curatela oppure l’interdizione con designazione di
un tutore, in modo da garantire il patrimonio del malato.
Il centro diviene così luogo
presso cui chiedere informazioni, ma anche delegare
almeno alcune pratiche. Di qui la conoscenza ed il dialogo con i servizi
sociali, la sanità di territorio e quella ospedaliera.
Inoltre la conoscenza tra
familiari, sostenuta attraverso la costituzione di un gruppo di
auto aiuto, diventa strumento per confrontare le reciproche situazioni,
scambiarsi indirizzi e consigli, talvolta proporsi come soggetto di fronte alle
istituzioni.
Alcuni percorsi
attraverso il centro diurno
La richiesta di
inserimento presso il centro è soprattutto un’esigenza della moglie: è
stanca, ha da poco subito un’operazione la cui convalescenza è stata troppo
breve, si sorprende ad arrabbiarsi con L. per suoi
gesti poco consapevoli, e poi si sente in colpa. L.
sembra accorgersi dell’angoscia della moglie, cui risponde (nonostante magari
poco prima abbia provato di picchiarla) con tentativi
di consolarla, con gesti di vicinanza e verbalizzazioni
smozzicate. I figli le sono vicini, soprattutto la accompagnano in auto visto
che lei non la usa volentieri, però hanno una propria famiglia, lei non vuole
abusarne. Presso il centro le insegnano come proporre manovre meno fastidiose
per l’igiene, viene impostata una terapia con ipnoinducenti per la notte, affinché entrambi possano
riposare. Si iniziano le pratiche per l’assegno di
accompagnamento e poi per quello di cura.
La signora riesce a rilassarsi, ad essere meno dura con se stessa, e ad accettare che in
futuro altre scelte potrebbero rendersi necessarie. Partecipa al gruppo
famiglie portando la sua dolorosa esperienza, trovando sostegno nel dialogo con
persone che fanno esperienze simili alle sue.
A distanza di un anno può
chiedere un ricovero di sollievo per pensare ad una breve vacanza, dapprima
vagheggiata e poi scelta superando sentimenti di abbandono.
Attualmente L.
frequenta ancora il centro: non partecipa alle attività, ma lo spazio in
sicurezza gli permette di muoversi tutto il giorno senza problemi. Con gli
altri ospiti non ha rapporti, tranne una spiccata insofferenza
per chi è agitato o gli si para davanti: se chiamato alza lo sguardo,
che rimane fisso sull’interlocutore, tentando di balbettare qualcosa. La
malattia probabilmente lo ha privato troppo presto della capacità di
esprimersi, a dispetto di una sensibilità alla relazione ancora buona.
La visita Uvg
dà un responso complesso: tentare il mantenimento a
casa con l’inserimento presso il centro
diurno. Questa soluzione appaga i familiari, che trovano un punto di
riferimento sia per la gestione delle terapia che per
la sicurezza diurna (mentre la notte ci si basa sul fatto che lei dice di non
uscire). A.M. inizialmente rifiuta con energia l’inserimento:
è effettivamente molto diversa dalle altre ospiti. Dialoga con il
personale, racconta con proprietà di sé, del suo passato e delle sofferenze che
la vita le ha riservato. È stata messa a conoscenza
della diagnosi di demenza, per cui talvolta guarda con
sospetto alcuni ospiti deteriorati, e chiede se diventerà anche lei così,
oppure ironizza sui loro deficit (in particolar modo di coordinazione motoria),
provocando alcune situazioni di aggressività. Il personale deve lavorare a
costruire un rapporto di fiducia con lei, dandole
piccoli incarichi (apparecchiare la tavola, spazzare dopo pranzo): in alcuni
momenti di confusione lei afferma di essere una dipendente dell’Asl.
Di umore molto altalenante, capita
che non venga al centro (cui viene accompagnata da un servizio di trasporto
sanitario) perché «desidera restare a
dormire», quindi non risponde al citofono.
Le difficoltà a compensare il diabete
vengono minate dai giorni (e weekend) passati a casa da sola. La nuora riferisce della differenza
notevole tra le conservate capacità dialettiche e la
progressiva difficoltà a portare a termine compiti relativamente semplici: è
capace di passare quasi un intero pomeriggio a stirare un fazzoletto solo.
Dopo circa 18 mesi
dall’inserimento, su sollecitazione del centro, i familiari accettano un
ricovero di sollievo, perché i problemi a casa stanno aumentando: c’è però una
sorta di paralisi decisionale. Mentre appare evidente
che A.M. non possa più stare in casa da sola, i due figli non cercano altre
soluzioni, nell’idea che la madre non accetterebbe, ad esempio, un ricovero in
una struttura residenziale.
Al ritorno presso il centro, dopo
alcune crisi iperglicemiche e numerose assenze
(talvolta lei afferma di non voler più venire, perché perde troppo tempo e poi
deve fare i lavori di casa di notte, altre volte ricerca attivamente il
rapporto con il personale) la famiglia decide di cercare una badante, che stia con lei fino all’ora di andare a dormire: questa
presenza, inizialmente molto boicottata, viene da A.M. accettata, con una
tendenza però a sentirsi “datrice di lavoro”, con atteggiamenti molto impositivi.
L’anno successivo, durante un
altro ricovero di sollievo, i familiari fanno domanda per un ricovero
definitivo nel tentativo di metter ordine nella confusione che A.M. crea
intorno a sé (anche telefonando a familiari cui racconta di essere
maltrattata). La visita per l’aggravamento dell’Uvg, però, nonostante certifichi un peggioramento delle
autonomie e in misura minore del quadro di deterioramento mantiene la scelta
del centro diurno, assecondando la volontà da lei espressa di ritornarvi: nei
periodi in cui è assente permane in lei un ricordo di benessere per le
giornate trascorse in compagnia.
Vi è in questo caso un’attenzione
al soggetto della valutazione, in quanto A.M., se interrogata, sa dire cosa vuole: mantiene una buona
capacità di contrattare su tutto ciò che la riguarda, mentre le sue performances perdono di qualità quando è da sola. Il
centro allora costituisce il sostegno, forse anche il contenitore entro cui lei
sente di avere ancora delle opportunità di autoaffermazione,
a difesa contro la perdita di capacità e di consapevolezza.
3. I. ha 85 anni. È stata una delle prime pazienti a frequentare
il centro. La sindrome dementigena tipo Alzheimer è
stata diagnosticata nel 1998. Lei è arrivata al centro nel 2001. Vive con la
famiglia della figlia, da quando la malattia ha
inficiato la capacità di gestire la vita domestica; gode di buona salute, a
parte un quadro di arteriopatia cronica agli arti
inferiori. Molto tranquilla, si presenta sempre sorridente, saluta chi incontra
come vecchi conoscenti, spesso canticchia vecchi
motivi inventando i testi (con buona proprietà linguistica). Poco attiva, passa
la giornata seduta in poltrona, cercando la vicinanza di altre
donne: se invitata a partecipare a qualche attività accetta cordialmente. Ha
poca consapevolezza delle proprie difficoltà (di riconoscimento di forme e
colori, di coordinamento): questo la preserva da sentimenti di svalutazione, per cui può continuare un’attività con un certo interesse
nonostante non raggiunga i risultati richiesti. Solo durante la notte spesso è
confusa, si alza più volte cercando il bagno, oppure canta. I familiari hanno
evidenziato il percorso che dalla sua camera porta al bagno con strisce
luminescenti al buio, per permetterle il mantenimento dell’autonomia il più a
lungo possibile. La frequenza del centro permette a lei una serie di relazioni
e di attività piacevoli (dalla psicomotricità alla
manipolazione), che a casa le sarebbero impossibili e consente alla famiglia di
avere almeno tre giornate libere dalla sorveglianza. A lungo la figlia mantiene
una serie di attività cui entrambe erano abituate,
come la messa del mattino presto: ella è colpita dal fatto che I. possa recitare tutte le preghiere di rito, mentre in modo
autonomo non riesce più a produrre un discorso di senso compiuto. Nel corso del
tempo è soprattutto l’autonomia a ridursi: alcuni incidenti diurni sollecitano
l’uso di protezioni igieniche, che dapprima la figlia rifiuta, quasi con
vergogna, riconoscendone in seguito l’utilità e la praticità. Di notte è
necessario posizionare le sbarre al letto, poiché
ormai lo stimolo della minzione è scarso, così come la capacità di trovare ed
utilizzare correttamente il bagno: il dialogo con il medico consente di
aggiornare costantemente la terapia, mentre il confronto con il personale di
assistenza permette di fare dei tentativi e cambiare le modalità di accudimento parallelamente ai mutevoli bisogni di I.
Una frattura di femore,
conseguenza di una caduta a casa, costringe la famiglia ad interrompere il
rapporto con il centro: dapprima temporaneamente, in
attesa dell’intervento. Quando questo viene sostituito
con una lunga degenza con l’arto in trazione, ed appaiono ridotte le
possibilità che I. torni a camminare, la scelta
diventa definitiva: molti giorni a letto l’hanno indebolita, appare molto
confusa e passiva, ed i familiari preferiscono tenerla presso di sé, seppur
mantenendosi in contatto con il centro.
*
* *
Gli
esempi portati, le tematiche fin qui affrontate,
sottendono un filo rosso che promuove a metodo di lavoro la pratica quotidiana
del centro diurno: i colloqui con i familiari, l’osservazione dei pazienti, le
telefonate d’emergenza, la ricerca di informazioni presso altri servizi, l’interrogarsi
sul senso delle dimissioni costituiscono un lavoro a più dimensioni, in cui
sanità, assistenza, sostegno psicologico e progetto riabilitativo si
intrecciano. Non c’è pertanto possibilità di individuare uno di questi versanti
come unico e capace di rendere ragione della qualità del servizio. Ogni giorno,
ogni evento è capace di modificare la complessità delle situazioni uniche,
personali, che ciascun malato e la sua famiglia portano al centro, cercando in esso un soggetto che possa prendersene carico, magari senza
possibilità di trovare risposte esaustive o soluzioni definitive, ma accettando
di accompagnarli in quel viaggio così doloroso che è l’esperienza di un
processo dementigeno.
(1) Cfr.
“Regolamento di due Rsa gestite dall’Asl 2 di Torino, Prospettive assistenziali,
n. 139, 2002; “Regolamento della Rsa gestita dall’Asl
4 di Torino”, Ibidem, n. 142, 2003;
“Regolamento e progetto di gestione della Rsa Latour
dell’Asl 8 del Piemonte: una struttura a valenza
prevalentemente sanitaria di cura e accoglienza”, Ibidem, n. 146, 2004.
(2) L’elenco degli articoli sui
centri diurni per i malati di Alzheimer pubblicati su Prospettive assistenziali è riportato nella nota 1 di pag. 26 del
n. 147, 2004.
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