Prospettive assistenziali, n. 149, gennaio - marzo 2005
Libri
MANUELA REBELLATO, Incontri, Daniela Piazza Editore, Torino,
2003, pag. 78, euro 10,00
L’Autrice
lavora da diciotto anni come infermiera presso il Servizio ospedalizzazione
a domicilio dell’Ospedale Molinette di Torino.
È entrata in migliaia di case, ha conosciuto migliaia di storie di dolore e di speranza.
In
questo libro ne ha raccontate alcune di particolare significato, con la
convinzione che le prestazioni sanitarie, per essere veramente valide, devono
essere praticate da operatori non solo
professionalmente preparati, ma anche umanamente partecipi alle vicende del
malato e dei suoi congiunti.
Nella
prefazione del volume, il compianto prof. Fabrizio Fabris,
promotore insieme al Csa, Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base, del Servizio di ospedalizzazione
a domicilio, sostiene giustamente che le pagine del libro «testimoniano la sensibilità che caratterizza molti infermieri e di
coloro che in genere operano con i malati” e “insegnano di più di un trattato per quanto concerne un aspetto
fondamentale della professione”. Infatti “la preparazione tecnica, non sostituibile,
ne rispetta il completamento».
La
lettura delle esperienze vissute da Manuela Rebellato
fornisce una ulteriore conferma all’esigenza di un
profondo ripensamento dell’integrazione socio-sanitaria.
Le
valenze umane, relazionali e sociali devono essere assunte direttamente da
tutto il personale che opera nella sanità (così come deve realizzarsi nelle
attività concernenti l’istruzione, i trasporti e gli altri settori sociali) e
non può e non deve essere delegata ad altri.
Molto
opportunamente l’Autrice afferma: «Ritengo
impossibile il poter soddisfare i bisogni di qualcuno senza affidargli la
possibilità di esprimere ciò di cui necessita, utopico
il credere di poter curare occupandosi esclusivamente della malattia».
Infine,
rileviamo che ognuno di noi, e in particolare se operatore sanitario o sociale,
dovrebbe tener presente questa saggia riflessione della Rebellato:
«Ho conosciuto gli altri, sono entrata
nelle loro case, li ho visti piangere, ridere, sperare, disperarsi, e sono
consapevole che anch’io potrei essere gli altri».
MARIA LUISA ALGINI
(a cura di), Fratelli, Edizioni Borla, Roma, 2003, pag. 229, euro 22,50
Quale
funzione hanno fratelli e sorelle, vivi o morti, nati
o non nati, gemelli o non gemelli, consanguinei, fratellastri o adottati
nell’economia psichica e nella formazione della persona?
Il
volume curato da M. L. Algini
è un contributo alla riproposizione e
all’approfondimento di un tema non semplice e poco esplorato nella letteratura
psicoanalitica.
Secondo Luis Kancyper «il complesso fraterno ha una sua
irriducibile specificità e, sebbene collegato al complesso di
Edipo, indipendente dalle eventuali risonanze edipiche presenti nelle
relazioni tra fratelli. Il legame tra fratelli, sia questo normale, sia nelle
sue deformazioni ed esagerazioni patologiche, differisce da quello con i
genitori. In esso, infatti, esistono due aspetti
prioritari che Freud descrisse come cause delle
difficoltà o addirittura dell’impossibilità di portare a termine il lavoro psichico di stanziamento che è alla base dei normali
processi di lutto, il carattere narcisistico dell’investimento e la sua intensa
ambivalenza».
Sottolinea, inoltre, Kancyper che «spesso il fratello è un simile troppo simile, ma al contempo anche il
primo estraneo che compare durante l’infanzia. In questo senso questo primo confronto con l’altro, l’intruso, il doppio,
comporta considerevoli compromessi narcisistici e insieme riattiva i conflitti
edipici».
Un
capitolo del volume, predisposto da Claudia Artoni Schlesinger e Annalisa Chierici, riguarda Antonio, adottato
all’età di 1 anno e 9 mesi da una coppia che aveva già tre figli biologici
rispettivamente, all’epoca, di 12, 9 e 8 anni.
A 5 anni
Antonio inizia una psicoterapia a seduta settimanale a causa di difficoltà di
linguaggio e scarsa socializzazione con i compagni.
Commentando
l’intervento terapeutico gli Autori ritengono che «anche nell’adozione, come nelle famiglie naturali, il rapporto coi fratelli abbia una grande importanza nella
strutturazione del sé del bambino e delle relazioni affettive nell’intrecciarsi
di emozioni, desideri, sentimenti di ammirazione, invidie, che sottendono alle
complesse identificazioni strutturanti la persona».
VINCENT HUMBERT,
Io vi chiedo il diritto di morire, Sonzogno Editore, Milano, 2003, pag. 190, euro 12,50
Il 24
settembre 2000, Vincent Humbert,
diciannove anni, ha un gravissimo incidente stradale che, dopo nove mesi di
coma, lo lascia praticamente immobile, muto e quasi
cieco, in preda a continue, insopportabili sofferenze, ma drammaticamente
lucido.
L’Autore
segnala le sue condizioni con queste parole: «Immaginate che tutte le membra vi facciano male, ma che non possiate
farci niente, che il dolore non vi molli e che in ogni caso, per
quanto facciate, sarà ancora presente tra dieci minuti, tra un’ora. Immaginate
che qualcosa vi raschi in gola e che non riusciate più a
inghiottire la saliva: bisogna che qualcuno vi aiuti e la aspiri. Immaginate di
essere a corto di ossigeno, di sentire che l’aria
inalata non è più sufficiente al vostro organismo: bisogna che qualcuno vi
metta una maschera per la respirazione assistita. (...)
Potrei parlarvi ancora degli occhi che mi bruciano, o che si seccano, del
braccio sinistro che si irrigidisce in continuazione senza che possa
controllarlo, del naso che mi prude senza che possa grattarlo, di questo
cuscino che si sposta sempre e che mi schiaccia l’orecchio».
Utilizzando
l’unica parte di sé che riesce a muovere, il pollice destro, detta a una infermiera una lettera aperta per il Presidente della
Repubblica francese in cui chiede il diritto di morire. Chirac
non può aiutarlo, anzi lo invita a vivere.
A Vincent
non resta che rivolgersi alla madre che lo assiste amorevolmente e con mirabile
costanza, mettendola con le spalle al muro: «smettila di dire
che mi vuoi bene, perché non è vero (...). Se mi
volessi bene, mi uccideresti».
Nel terzo anniversario
dell’incidente, il 24 settembre 2003, la madre inietta al figlio una dose
letale di barbiturici, come avevano precedentemente
concordato e dichiara: «È
terribile pensare di non vederlo più, di non accarezzare più la sua mano, di
non essere più la sua mamma. Ma se non avessi fatto
quel che mio figlio mi ha pregato ogni giorno di fare non avrei più potuto
guardarmi allo specchio».
AUGUSTO CAVADI,
Volontariato in crisi? Diagnosi e
terapia, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2003, pag. 68, euro 8,00
Secondo l’Autore «il volontariato non sta bene. Dopo anni di impetuoso sviluppo, accusa segni di stanchezza».
In primo luogo occorre tener
conto che «ormai l’etichetta “volontario”
(...) copre una miriade caotica - e contraddittoria - di figure: dalle più “nobili” e disinteressate alle più equivoche e
compromesse in logiche clientelari».
Dunque «non ha senso né difendere né condannare in blocco questo fenomeno
sociale che - in varie forme e in
diversa misura - coinvolge, solo nella nostra regione (
Afferma Cavadi:
«Che i volontari
siano gente di cuore, non c’è dubbio. Che siano anche lucidi
di testa non è altrettanto certo». Infatti «da una parte milioni di persone sono state
spinte ad uscire dal loro privato per mettersi a disposizione degli altri;
dall’altra, i risultati effettivi sono stati inferiori alle attese e, non di
rado, addirittura contrari rispetto alle intenzioni».
Al riguardo non bisogna
dimenticare che troppo spesso «il
volontario si presta a giocare il ruolo - per nulla progressista - di alibi per l’inefficienza delle istituzioni. Troppo
spesso - prosegue l’Autore - serve ad addormentare nelle persone disagiate - cui si accosta con le migliori
intenzioni - il senso della
propria dignità, la coscienza dei propri diritti e delle proprie
responsabilità: diventa il nuovo oppio dei poveri».
Affinché «il volontariato non perda il suo slancio
originario ed anzi acquisti una fisionomia sempre più matura ed efficace» Augusto
Cavadi sostiene che «il volontariato può non scadere ad assistenzialismo che mortifica e
paralizza le forze dei suoi destinatari solo se si sforza di coltivare la
prospettiva “politica”: e non può farlo se non coltiva, simultaneamente, la
prospettiva “culturale” ed “etica”».
Di conseguenza «il volontariato deve andare oltre la
solidarietà “corta”, immediata, diretta: deve farsi lungimirante e attivare
iniziative che, nel lungo periodo, modifichino i meccanismi strutturali,
permanenti, che producono e riproducono il disagio».
FEDERICA BANDINI
(a cura di), Manuale di
economia delle aziende non profit, Cedam, Padova, 2003, pag. 386, euro 27,00.
Il libro intende fornire solidi
riferimenti concettuali ed una serie di casi concreti che aiutino
il lettore ad affrontare i diversi e complessi problemi che le aziende non profit devono fronteggiare nelle molteplici fasi della loro
attività.
Non vengono
proposte soluzioni tecniche “pronte all’uso”, anche perché sono quasi sempre
inutilizzabili essendo le realtà concrete estremamente variegate e non
riconducibili a schemi predefiniti.
Il manuale si richiama al
principio della metodologia della ricerca secondo cui non vi è nulla di più
pratico che una buona teoria, purché la teoria sia
costruita sui fatti.
Gli argomenti trattati riguardano
la funzione dell’azienda non profit come
trasformatore di valori individuali in valori economici e sociali (Elio Borgonovi), gli aspetti istituzionali (Pasquale Seddio), la proposta di un modello per il ciclo di vita
organizzativo dell’azienda non profit (Anna Merlo) la
presentazione dei cambiamenti intervenuti nella Lipu,
Lega italiana protezione uccelli (Federica Bandini e
Costanza Ceda), le risorse umane, il sistema delle competenze e la flessibilità
del lavoro (Federica Bandini), la contabilità e il
bilancio delle aziende non profit (Davide Maggi), la qualità dei servizi (Emilio Tanzi),
la raccolta dei fondi (Francesco Manfredi), l’utilizzo di Internet
(Claudio Tacchino), i finanziamenti, gli appalti e la finanza eticamente orientata (Fabio Amatucci),
i rapporti fra aziende non profit e impresa sociale
(Giorgio Fiorentino).
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