Prospettive assistenziali, n. 150, aprile - giugno 2005
L’ADOZIONE NEI REGNI ANIMALE E VEGETALE
EMILIA DE RIENZO
fin dal primo numero (1968), Prospettive assistenziali ha sempre sostenuto che la filiazione e la genitorialità adottive sono pienamente naturali.
Per quanto riguarda il regno vegetale, Padre Salvatore Lener, noto giurista-moralista e autorevole redattore della
rivista dei gesuiti Civiltà cattolica, aveva affermato
che l’adozione di un bambino è equiparabile ad un innesto. Se si procede, ad esempio, all’innesto di un
pesco su un susino o su un mandorlo, tutti i frutti sono sempre e solo pesche,
allo stesso modo di quando le radici sono di pesco.
Per la collana “Persona e società: i diritti da conquistare”, Emilia De
Rienzo sta predisponendo un volume che affronta le problematiche relative all’adozione nei regni animale e vegetale. A
Verona, in data 10 febbraio 2005, abbinata all’Assemblea dei soci dell’Anfaa,
ha avuto luogo un seminario interno realizzato con la
collaborazione della Fondazione promozione sociale riguardante “Gli aspetti
fondanti della genetorialità e della filiazione”.
Nell’occasione Emilia De Rienzo ha presentato le prime riflessioni in
merito alla documentazione raccolta per il volume di cui sopra.
RELAZIONE DI EMILIA DE RIENZO
Le famiglie adottive hanno
scoperto nel loro vivere quotidiano qual è il senso più vero della famiglia:
non basta procreare un bambino per diventare genitori, bisogna anche avere la
capacità e la volontà di prendersene cura.
La legge sull’adozione è stata
una vera e propria rivoluzione copernicana: non sono più gli adulti al centro ma è il bambino a cui bisogna riconoscere quei
diritti che gli permettono di crescere sano e il più possibile sereno. Come
dice la Vegetti Finzi la
madre non può limitarsi a colmare i bisogni vitali ma
deve recepire anche quelli affettivi.
L’elemento determinante
che si viene a creare tra bambino e genitore è che esso «comprenda che ogni domanda esprime, essenzialmente, una richiesta
d’amore. Quando il senso implicito viene colto, la
relazione rimane viva al di là del bisogno contingente e il piccolo si sente
confermato e compreso nel suo desiderio. Il pericolo più grande consiste nella
risposta puntuale, precisa ma impersonale» (1).
Il primo quindi fra tutti i
diritti per il bambino è quello di avere una famiglia, che trova la sua
legittimazione nella funzione, nella capacità di dare ad esso
la consapevolezza di “avere un posto nella mente e nel cuore” di chi affianca
la sua crescita. In questo senso si può dire provocatoriamente che dovremmo
essere tutti “figli adottivi”.
Ci scontriamo invece ancora
spesso con la mentalità che essere una famiglia adottiva voglia dire essere una
famiglia di serie B, perché “quella vera” è quella di origine
considerata la più “naturale”. E a sentirsi di serie B
a volte sono le famiglie adottive stesse che soprattutto oggi giungono
all’adozione dopo tentativi frustranti di avere un figlio biologico, a volte
anche dopo aver provato inutilmente l’inseminazione artificiale.
Bisogna quindi recuperare tutto
il senso e la validità dell’adozione come scelta. È interessante, allora,
vedere come proprio la natura ci insegna a riguardo
qualcosa.
Abbiamo intervistato il prof.
Danilo Mainardi, noto etologo italiano. Egli ci ha
confermato che l’adozione esiste anche negli animali che si prendono cura non solo dei propri cuccioli ma anche di quelli non
nati da loro. In natura non è sufficiente, dice Mainardi,
«avere un’idea generica di madre», ma
occorre conoscere la propria madre. E la propria madre
non è necessariamente quella che mette al mondo il cucciolo, ma quella che si
prende cura di lui.
Questo è l’imprinting
Si tratta di una particolare
forma di apprendimento precocissimo per cui i giovani
di molte specie animali hanno una
spiccata tendenza a seguire i genitori fin dai primi momenti della loro vita.
Esiste cioè una tendenza istintiva a tallonare il
primo oggetto in movimento che i piccoli vedono dopo la schiusa. In genere la
prima cosa mobile che vedono è la madre perciò apprendono a seguirla. Se invece al posto della madre, per esempio, vedono un altro
animale, anche diversissimo da loro, si metteranno a seguirlo e lo
individueranno come la loro “mamma”.
È stato Lorenz
il primo a fare questa scoperta a sue spese nell’esperimento della
famosa ochetta Martina. Questa ochetta covata dall’etologo l’ha “chiamato
mamma”. L’ochetta Martina e i suoi fratelli lo seguivano in fila indiana
esattamente come avrebbero fatto con la propria madre. Se lui agitava le
braccia simulando il gesto del volo gli uccelli si
levavano e se si accucciava venivano ad accucciarsi vicino a lui.
In altro esperimento una volpe
“adottata” da una famiglia di cani e alla presenza dell’uomo, quando
incontrava, da grande, altri cani e uomini, dava segni
di felicità, mentre di fronte ad altre volpi si dimostrava ostile e diffidente.
Un altro esempio è dato dai
piccoli passeriformi che, allevati da un’altra
specie, da adulti cantano come il padre adottivo. Ciò che interessa rimarcare è
che tale apprendimento si verifica pure “se è presente
(e cantante) il padre genetico”.
E lo stesso risultato l’ottenne Jurgen Nicolai con i suoi
pionieristici esperimenti sui ciuffolotti. L’esperimento è stato condotto con
nidiate di ciuffolotti di pochi giorni di vita e non
ancora in grado di volare. Lo scienziato li nutriva e poi, metodicamente,
fischiava loro una canzonetta. Loro stavano zitti ad ascoltare. Poi i giovani
imparavano a nutrirsi da soli e raggiungevano la maturità sessuale. A questo
punto i maschi si mettevano a cantare e il canto era la canzonetta di Nicolai, rimasta sepolta dentro di loro fin dalla prima
infanzia.
Durante lo sviluppo dei ciuffolotti esiste un periodo in cui essi possono
apprendere e in modo irreversibile il canto dei genitori, che verrà poi
espresso alla maturità influenzando molti aspetti della loro vita
socio-sessuale.
Nicolai ha anche fatto allevare i
ciuffolotti dai canarini e questi, come ci si aspettava, hanno imparato a
cantare da canarini.
Questo canto alieno si è
trasmesso di generazione in generazione. Si può dire
quindi che l’eredità del canto è culturale e non genetica. Genetiche, semmai,
sono la predisposizione ad apprendere in quello speciale periodo sensibile e
l’abilità imitativa vocale.
Un altro dato importante che si è
rilevato in natura è il ruolo dell’affettività per la trasmissione culturale.
Non conta cioè la parentela nell’apprendimento, ma il
mediatore del passaggio culturale è solo il legame affettivo. Nell’addestrare
per esempio scimpanzè e gorilla a usare il linguaggio
gestuale dei sordomuti ottennero migliori risultati quelli che, come dice Mainardi, non “ammaestravano”, ma “adottavano” gli animali.
E l’etologo usa il termine “adozione” in quanto gli
scienziati che non usavano l’atteggiamento tipicamente scientifico “freddo e
distaccato”, ma dimostravano affetto e coinvolgimento nei confronti degli
animali, ottenevano risultati sorprendenti e inaspettati. Gli stessi esseri
umani adottati da lupi o allevati e cresciuti con gazzelle fuori
da ogni contatto con esseri umani si sono adattati all’ambiente sociale
in cui sono vissuti. Più di qualsiasi altro animale, infatti,
l’uomo assorbe e plasma il suo comportamento dall’ambiente sociale in cui vive.
Ci dice Mainardi: «Ciò non significa, si badi bene, negare gli
influssi genetici, anzi. Molti etologi hanno messo in
evidenza comportamenti che si esprimono indipendentemente da qualsiasi
influsso culturale; d’altro canto, se l’uomo sa produrre cultura, se sa
esprimere comportamenti acquisiti e trasmessi socialmente, è perché ha
ereditato geneticamente, e così trasmette di generazione in generazione le sue
formidabili capacità di apprendimento sociale».
La capacità di adottare, quindi,
sarebbe scritta nel nostro bagaglio genetico. La capacità, cioè,
di occuparsi dei nostri cuccioli, di prenderci cura di loro indipendentemente
dal fatto che siano procreati o meno da noi. La genitorialità
è stata quindi sganciata dalla cosiddetta “cultura del sangue”, quella che
divide i consanguinei dagli altri, considerati comunque
estranei dei quali si deve più o meno diffidare. La genitorialità
è propria di ogni adulto maturo.
La Vegetti
Finzi dice che «possiamo considerare le possibilità
procreative come un complesso di energie, di affetti, di emozioni, di pensieri,
di disposizioni all’accoglimento, all’accudimento,
alla tutela che può essere speso, non necessariamente, per procreare un figlio.
Potrebbe essere indirizzato su altri progetti di vita» e parlando in
particolare delle donne afferma: «Se
intendiamo la maternità non solo come un “fare
bambini”, ma anche come uso di risorse femminili duttili e mobili, cessa la
divisione tra madri e non madri, tra donne sterili e donne feconde. Ciò che le
accomuna è il senso di responsabilità: di fronte ai propri figli, ma anche a se
stesse e al mondo».
Molti animali non si preoccupano
se un cucciolo è loro o no, istintivamente se ne prendono cura se si trova solo
e in pericolo. Persino gli scorpioni hanno questo atteggiamento.
Racconta Mainardi: «Jean Henri Fabre,
l’ottocentesco naturalista, descrisse in modo perfino poetico le cure materne
degli scorpioni. Poetico, ma scientificamente corretto. Così, i piccoli, appena
nati, si arrampicano l’uno dopo l’altro sul dorso della madre transitando lungo
le sue chele tenute abbassate per facilitare la salita. Quindi si stringono
tutti sul dorso, aggrappandosi tenacemente con le loro piccole zampe. Fabre racconta qualche suo esperimento. Quando
avvicinava un filo di fieno alla madre, questa alzava subito le sue pinze,
pronta a combattere. Se poi con un pennellino faceva
delicatamente scendere i piccoli dal dorso, essa andava alla loro ricerca. Si
avvicinava e porgeva le chele aiutandoli così nella risalita. Osservò inoltre
che la femmina accoglieva con buona grazia anche i piccoli non suoi».
Questo comportamento negli
animali è dettato dall’istinto: non è una scelta, quindi è del tutto naturale.
Ci dice ancora Mainardi: «Faccio un piccolo tuffo nella zoologia. Ho allevato tanti cani nella
mia vita e così ho potuto notare, con stupore e ammirazione, come anche una
cagna primipara possieda tutte le
istruzioni su come allevare la prole.
Istruzioni che vengono espresse cadenzate nel
tempo in modo perfetto. La mia Mimi, fin
dal suo primo parto, calibrava con puntualità i comportamenti meglio di un
manuale: l’igiene, l’educazione, la sorveglianza, la nutrizione (prima solo lattea,
poi puntualmente, intorno al quarantesimo giorno, iniziava a rigurgitare carne
trita in parte predigerita). Infine l’emancipazione.
Insomma, ogni cagnetta ha tutto “scritto dentro” e ciò, a ben pensarci, non
deve meravigliarci, data l’importanza del momento riproduttivo. Meraviglia,
piuttosto, la carenza di istruzioni genetiche che, al
proposito, caratterizza noi umani. Siamo noi l’eccezione. Eppure
è così. La nostra evoluzione ha privilegiato la
trasmissione culturale, e quel poco che è rimasto “scritto dentro” troppo
spesso viene violentato, vanificato. C’è inoltre da chiedersi: siamo davvero
così ignoranti o preferiamo esserlo? Non sarà che nell’umana gerarchia di
valori altre attività tendono a prevaricare le parentali?».
Dovrebbe anche per noi essere
naturale farci carico di tutti quei bambini che sono in situazioni di
difficoltà. L’adozione è il punto d’incontro tra il bisogno dell’adulto di
avere figli e del bambino di avere dei genitori adatti
a lui e alle sue necessità. Ma l’adozione è anche
l’affermazione del diritto di tutti i bambini ad avere una famiglia, luogo
degli affetti e della cura che solo può farli crescere sani e sereni. È di
questo messaggio, di questa cultura che dobbiamo farci
portavoce ovunque noi operiamo.
(1) Silvia Vegetti Finzi, Il romanzo
della famiglia, Oscar Mondatori, Milano.
www.fondazionepromozionesociale.it