Prospettive assistenziali, n. 150, aprile - giugno 2005
PUBBLICA TUTELA E DIFESA DEI DIRITTI DEL TUTELATO
Mauro
Perino *
Premessa
In un articolo pubblicato qualche
tempo fa su questa rivista proponevo alcune
riflessioni, di ordine generale, sul tema dell’ambiguo compito dell’attuale pubblico tutore (1). Vorrei
tornare sull’argomento perché credo sia importante –
alla luce del disposto dell’articolo 5, comma 2, lettera j) della legge
regionale piemontese 1/2004 (2) – che la Giunta, nel dettare i criteri per
l’istituzione dell’ufficio provinciale di
pubblica tutela, consideri le complesse problematiche che sottendono
l’esercizio della funzione di pubblica tutela a fronte del quadro normativo che
regola i rapporti tra sanità ed assistenza.
Come noto,
«la tutela dei minori» - e delle
persone interdette in genere – «che non
hanno nel luogo del loro domicilio parenti conosciuti o capaci di esercitare
l’ufficio di tutore, può essere deferita dal giudice tutelare a un ente di
assistenza nel comune dove ha domicilio il minore o all’ospizio in cui questi è
ricoverato. L’amministrazione dell’ente o dell’ospizio delega uno dei propri
membri a esercitare le funzioni di tutela» (3).
Per quanto attiene all’individuazione dell’ente al quale deferire la tutela «il giudice tutelare può chiedere
l’assistenza degli organi della pubblica amministrazione e di tutti gli enti i
cui scopi corrispondano alle sue funzioni» (4). Lo scopo dell’ente – ovvero la maggiore adeguatezza potenziale ad
esercitare la funzione di tutela - dovrebbe dunque rappresentare il criterio
base per l’individuazione del soggetto al quale affidare una tutela.
Ma in cosa si sostanzia tale
funzione? Secondo il codice civile «il
tutore ha la cura della persona del minore, lo rappresenta in tutti gli atti
civili e ne amministra i beni» (5). Dopo ormai
molti anni di esercizio della funzione di pubblico
tutore – svolta in quanto legale rappresentante di un ente assistenziale –
credo di dover ribadire che se per il «buon
padre di famiglia» è agevole
contemperare cura, rappresentanza ed
amministrazione del proprio tutelato, per un direttore di consorzio socio-assistenziale è invece
molto difficoltoso conciliare un corretto esercizio del compito di tutore con
l’incarico di dirigenza. Non ho dubbi che della cura della persona debba farsi carico il servizio (e quindi l’ente assistenziale) i cui
scopi corrispondano alle funzioni di
tutela; per quanto attiene però alla rappresentanza
ed alla amministrazione dei beni del
tutelato sarebbe quanto mai opportuno individuare un ente terzo al quale affidare il controllo sull’operato dei servizi
– sociali e sanitari – preposti all’assistenza dei tutelati.
Dalla vicenda che mi appresto a
raccontare credo emerga – con drammatica evidenza – un quadro di forte
discrezionalità nella definizione di quali
e quante prestazioni spettino all’utente per diritto e, di riflesso, di quali e quanti oneri di spesa possano venire
addebitati al tutelato. Ed è pur
vero che la decisione ultima spetta (fortunatamente) al Giudice tutelare, ma
questi non può che basarsi sulle informazioni fornite dai rappresentanti degli
enti ai quali sono deferite le tutele che – a loro volta – operano sulla base di differenti, e spesso contrapposte,
interpretazioni del quadro normativo che regola l’erogazione delle prestazioni.
Tutore, tutelato e
livelli essenziali di assistenza socio-sanitaria
Nel mese di ottobre
dell’anno passato un mio tutelato (“rivalutato” disabile ex ricoverato presso
un ospedale psichiatrico), stabilmente ospitato in un presidio residenziale (Raf) dell’Azienda sanitaria gestito da una cooperativa
sociale, viene trasportato al pronto soccorso e successivamente ricoverato in
ospedale. Il ricovero ha luogo di sabato e nella
mattinata del lunedì successivo la referente della struttura informa il
servizio sociale consortile che – come da
prassi – la cooperativa aveva provveduto a contattare una agenzia privata
per garantire una assistenza continuativa
in ospedale al tutelato. Gli operatori del reparto ospedaliero,
immediatamente sentiti dall’assistente sociale, confermano (verbalmente) che,
data l’estrema agitazione del paziente, è necessaria la presenza di una persona
che eviti all’uomo di strapparsi la flebo e di farsi
fisicamente del male. Preso atto dell’impossibilità da parte della struttura
ospedaliera di garantire direttamente la necessaria assistenza, l’assistente
sociale provvede, quindi, ad organizzare l’intervento dell’operatrice fornita
dall’agenzia privata su richiesta della struttura.
Terminata la degenza il tutelato viene dimesso
dall’ospedale e reinserito nel presidio per disabili dell’Azienda sanitaria e -
come da prassi (da me ignorata sino a
quel momento) – le spese per l’assistenza
privata vengono addebitate al tutore.
Considerato che, a mio parere, la
vicenda configura una violazione del disposto dell’articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e s.m.i
– secondo il quale «il servizio sanitario
nazionale assicura, attraverso risorse finanziarie pubbliche individuate ai
sensi del comma 3 e in coerenza con i principi e gli obiettivi indicati dagli
articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, i livelli essenziali e
uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario
nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del
bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle
cure e della loro appropriatezza riguardo alle
specifiche esigenze, nonché dell’economicità
nell’impiego delle risorse» – provvedo immediatamente a comunicare ai
responsabili dell’Azienda sanitaria ed alla cooperativa, che non ritengo legittimo addebitare al tutelato le spese
derivanti da un intervento assistenziale di competenza della struttura
ospedaliera o, quantomeno, della struttura residenziale inviante. È infatti paradossale che ad una persona alla quale viene
garantita, in via ordinaria, una assistenza 24 ore su 24 nel presidio per
disabili (assegnato dalla normativa alla titolarità sanitaria, pur con oneri a
carico dell’utente/consorzio in base alla disciplina dei Lea, livelli
essenziali di assistenza) si neghi la necessaria continuità assistenziale proprio nel delicato momento del ricovero
ospedaliero.
In esito alla mia comunicazione vengo informato, in forma scritta, dalla direzione sanitaria
della struttura che il capitolato di appalto - al quale la cooperativa
incaricata della gestione della struttura deve fare riferimento - prevede che «nulla sarà dovuto alla ditta appaltatrice
per le giornate di assenza dell’ospite» e che, in caso di ricovero
ospedaliero, «gli operatori sono tenuti
all’accompagnamento dell’ospite presso il presidio ospedaliero di zona e alla
sua assistenza sino al momento del ricovero (quindi per tutta la permanenza
dell’ospite presso il pronto soccorso)». Secondo i miei interlocutori «tale impostazione è nata dall’esigenza di
definire con chiarezza competenze e costi all’interno dei servizi, sia inter istituzionali che intra aziendali. Essa non ha prodotto nel
passato abusi o disguidi ma, in analogia a quanto avviene per qualunque
altro cittadino residente al proprio domicilio o in strutture di accoglienza
territoriale, ha determinato lo sviluppo di un rapporto diretto tra cittadino
stesso e struttura ospedaliera che lo accoglieva. Se il cittadino residente
nella Raf è in condizioni di tutela
è ovvio che il rapporto deve svilupparsi tra tutore ed ospedale. Poiché è di
tutta evidenza che le persone inserite nella Raf necessitano abitualmente di assistenza personale,
complementare a quella sanitaria e non sostitutiva di essa, si ritiene che il
rapporto avrebbe dovuto svilupparsi tra il tutore e l’ospedale».
La persona in
pubblica tutela ha gli stessi diritti degli altri cittadini?
Proprio perché «è di tutta evidenza che le persone inserite
nella Raf necessitano
abitualmente di assistenza personale, complementare a quella sanitaria e non
sostitutiva di essa» non si riesce a comprendere le ragioni per le quali -
in caso di ricovero ospedaliero – si imponga all’utente, al tutore o alla
famiglia l’onere di procurarsi tale assistenza. Nei confronti di un utente Raf non ci si può comportare «in analogia a quanto avviene per qualunque altro cittadino residente
al proprio domicilio», in primo luogo per ragioni giuridiche! La Raf è un presidio che deve
assicurare assistenza tutelare (personale, complementare e sanitaria)
continuativa. Detta assistenza tutelare (in tutte le sue componenti)
rientra tra i livelli essenziali di assistenza che il Servizio sanitario (e non la famiglia o il tutore) è tenuto a garantire. E
ciò deve valere per tutti i presidi residenziali. Il ricovero temporaneo in
ospedale dell’assistito non può essere equiparato ad una «assenza dell’ospite» determinata – ad esempio – da un rientro in
famiglia durante il fine settimana! Se non vi è dimissione deve essere
garantita la continuità assistenziale (personale, complementare e sanitaria) tra
la Raf (di cui il comparto sanitario è responsabile) e l’ospedale (anch’esso,
come noto, afferente al medesimo comparto). In tal senso è del tutto
irrilevante – dal punto di vista del tutore – se a provvedere è l’ospedale
stesso o il presidio inviante (la Raf). L’importante
è che venga fornita – come prevede la legge – tutta
l’assistenza «socio-sanitaria»
necessaria a garantire l’appropriatezza delle cure
(complessive) riguardo alle specifiche esigenze del paziente.
Giova inoltre ricordare che – in
base alla vigente normativa sui livelli essenziali di assistenza
- la contribuzione che l’utente/tutore ed il Consorzio sono tenuti a
corrispondere è finalizzato alla copertura delle spese – non attribuibili al
fondo sanitario – relative alla realizzazione del progetto assistenziale individuale (definito dalla competente Unità
di valutazione). Ove in tale progetto si preveda – come è
auspicabile – anche la possibilità di un ricovero (e la relativa fornitura di
diverse od ulteriori prestazioni) è vincolante che alla ripartizione di tutti gli oneri d’intervento si provveda
secondo le percentuali di attribuzione della spesa indicate dalla normativa
stessa. E se la retta praticata risulta insufficiente
– in quanto ritenuta congrua per la sola assistenza in Raf
– è bene che si provveda ad adeguarla!
Il parere del Giudice tutelare
In esito al carteggio con la
direzione sanitaria del presidio – e dell’assedio al quale sono stato
sottoposto dall’agenzia privata di assistenza che
reclamava il pagamento della prestazione (dal tutore che non l’aveva ordinata!)
– ho deciso di richiedere conforto al Giudice tutelare che – con estrema
sollecitudine – ha espresso il seguente parere chiarificatore: «Il problema dell’assistenza necessaria ed
utile alle persone ricoverate in ambito ospedaliero rappresenta una questione
particolarmente delicata. Tale problema dovrebbe trovare la sua soluzione
nell’applicazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza)
e nell’individuazione della natura dell’intervento richiesto, se cioè lo stesso
sia prettamente sanitario o riconducibile a tale comparto, oppure se sia
assistenziale o riconducibile a tale ambito. È irrilevante nel procedere alle
valutazioni sopra indicate la circostanza che il Sig. (omissis) sia in tutela. L’esistenza della tutela assume rilievo solo
perché qualsiasi richiesta deve essere inoltrata non al Sig. (omissis), ma al suo tutore, interlocutore privilegiato,
rappresentante ex lege (articolo 357 del codice
civile) del tutelato. L’individuazione della natura della prestazione erogata,
se appartenga cioè ad una competenza sanitaria (in
quanto in stato di ricovero) a valenza sanitaria (legata ad un intervento
sanitario) o una competenza sanitaria (in quanto in stato di ricovero) a
rilevanza socio assistenziale (legata cioè ad un intervento dal contenuto
assistenziale) dovrebbe comportare, rispettivamente, nel primo caso
l’intervento esclusivo della Asl e nel secondo caso
l’intervento della Asl e dell’ente deputato
all’assistenza, il tutto nel rispetto della disciplina connessa ai Lea».
Considerazioni finali
La vicenda, sin qui
sinteticamente narrata, suggerisce alcuni interrogativi: se il tutore del
disabile fosse stato individuato nell’ambito dell’Azienda sanitaria – come
forse si sarebbe dovuto fare in considerazione del fatto che alla cura del tutelato già ricoverato in
ospedale psichiatrico provvedono, nei fatti, i servizi sanitari – la questione
del pagamento dell’assistenza privata si sarebbe posta (e risolta) nello stesso
modo? Ed ancora: quali saranno le conseguenze del
contenzioso più sopra descritto, per quanto attiene alla qualità dei rapporti
(necessariamente stretti) tra il Consorzio e l’Azienda sanitaria? Infine: chi
può garantire che l’assistenza al tutelato non diventi “oggetto di scambio”
nella quotidiana contrattazione tra i due comparti? Per “far posto” ad un
anziano del territorio in uno dei (solitamente pochi) posti residenziali messi
a disposizione dall’Azienda sanitaria si può – a fin di bene, naturalmente -
rinunciare alla quota sanitaria del tutelato, inserendolo in struttura con
totale assunzione di spesa da parte del tutelato stesso (per decisione del
tutore, assistenziale o sanitario che sia). Di contro
se il tutore – in presenza di una valutazione di non
autosufficienza da parte della competente Unità di valutazione – decidesse, con
il consenso del Giudice tutelare, di procedere all’inserimento del tutelato in
una struttura residenziale (malgrado l’indisponibilità dell’Azienda ad erogare
la quota sanitaria) e pretendesse, successivamente, il rispetto del diritto soggettivo del proprio tutelato
a beneficiare dell’intervento economico sanitario, sarebbe messo in grado (dal
suo ente di appartenenza) di attivare un contenzioso nelle sedi opportune?
Credo che il complesso delle
problematiche evidenziate, faccia comprendere la necessità che si provveda al
più presto – da parte della Regione e della Provincia – alla costituzione di un
ufficio di pubblica tutela che non si limiti a svolgere compiti «di supporto a favore dei soggetti ai quali
è conferito dall’autorità l’esercizio delle funzioni di tutore» ma che
assuma direttamente – in accordo con i Giudici tutelari – la titolarità
dell’esercizio di tali funzioni; quantomeno in quelle situazioni nelle quali è
evidente l’oggettiva impossibilità di
garantire una efficace rappresentanza delle persone interdette.
* Direttore del Cisap, Consorzio intercomunale
dei servizi alla persona dei Comuni di Collegno e Grugliasco, Torino.
(1) Mauro Perino, “L’ambiguo
compito dell’attuale pubblico tutore” in Prospettive
assistenziali n. 141/2003.
(2) Legge regionale 8 gennaio 2004, n. 1 “Norme per la
realizzazione del sistema regionale integrato di interventi e servizi sociali e
riordino della legislazione di riferimento”.
(3) Codice civile, articolo 354 (Tutela affidata a enti di
assistenza).
(4) Codice civile, articolo 344, comma 2 (Funzioni del
giudice tutelare).
(5) Codice civile, articolo 357 (Funzioni del tutore).
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