Prospettive assistenziali, n. 150, aprile - giugno 2005

 

 

SCUOLA E AFFIDAMENTI FAMILIARI

EMILIA DE RIENZO *

 

 

 

II bambino, quando entra a scuola, non è una scatola vuota che si può riempire di nozioni senza tenere conto di quello che lui già è, senza sapere quale situazione vive alle spalle, in quale contesto vive e ha vissuto la sua vita. Ha già quindi un suo sapere fatto di conoscenze, ma anche di emozioni, ricordi, sentimenti, con i suoi sensi di adeguatezza o meno.

Un bambino affidato, in particolare, entra con la sua storia individuale e con una peculiarità: quella di avere una famiglia in più, quella affidataria che affianca quella di origine in un momento di difficoltà più o meno lungo. 

Ma il bambino affidato, come quello adottivo, non è l’unico bambino portatore di diversità culturale nella scuola. Nella stessa classe possono trovarsi accanto ai cosiddetti “bambini normali” il bambino straniero, il bambino handicappato, il figlio di genitori separati o il bambino che vive con un solo genitore…

Sicuramente la scuola, se di fronte ai cambiamenti che la famiglia ha registrato in questi ultimi decenni, non si aggiorna e non modifica i propri atteggiamenti, non conosce a fondo le nuove realtà, non impara a rapportarsi ad esse, può diventare un veicolo di stereotipi e modelli che se passano, rischiano di mettere ai margini quelli che se ne discostano.

La legge sull’adozione e sull’affidamento familiare ha messo al centro del rapporto familiare la solidarietà affettiva come cemento del gruppo.

È nata la cultura del bambino come soggetto di diritti. Si è riconosciuto al bambino il diritto alla famiglia, e quindi il diritto ad avere “un proprio spazio nella mente di qualcuno” che sappia accogliere su di sé i suoi sentimenti, che abbia la capacità di trovare delle risposte che siano in sintonia con i suoi bisogni: un diritto quindi che permetta lo sviluppo sano del bambino, di quel particolare bambino.

Parlando di affidamento è poi facile che si faccia fatica a concepire che un bambino possa avere due famiglie, due punti di riferimento magari abbastanza diversi fra di loro.

La difficoltà a darsi una risposta nasce dalla mentalità diffusa nella nostra società che vede, nella famiglia nucleare, l’unica detentrice del monopolio degli affetti.

È necessario guardare le cose da un punto di vista diverso, cambiare ottica.

Difficilmente, infatti, ci si interroga su quali problemi ha portato l’eccessiva nuclearizzazione delle famiglie.

Molti studiosi oggi hanno messo in rilievo una povertà sconsolante di reti di sostegno formali/informali.

Le famiglie, prevalentemente, sono sole, mute, senza interlocutori significativi.

La famiglia può essere  oggi più facilmente a rischio proprio perché è andata sfaldandosi la sua vecchia rete di sostegno:

• sono finiti i rapporti di vicinato che hanno leso il sentimento di appartenenza ad una comunità, mancano ambiti di socializzazione e di confronto;

• gli orari di lavoro a volte impediscono l’adempimento delle funzioni di cura dentro la famiglia e producono purtroppo spesso solitudine infantile;

• ci sono poi situazioni in cui il confronto genitore-figlio avviene in una dinamica duale, sono in aumento i genitori soli e il rischio che il disagio dell’adulto si rifletta sul bambino senza mediazioni aumenta pericolosamente e forse irrimediabilmente. Alla spesso drammatica solitudine di un bambino, fa da specchio la simmetrica solitudine (consapevole o meno) dei suoi genitori;

• molti genitori poi hanno difficoltà ad offrire ascolto ai loro figli, questi genitori sono soprattutto incapaci di chiedere aiuto esattamente come noi siamo incapaci di intercettare questa difficoltà.

L’antropologa Mead afferma che in certe situazioni la suddivisione dell’assistenza al bambino fra più persone permetterebbe di assicurare una maggiore  stabilità e un minor trauma alla eventuale perdita totale o parziale della figura materna. Possono, cioè, devono coesistere più figure nell’educazione dei bambini. 

Luca Cavalli Sforza ci racconta che uno degli aspetti che più lo ha colpito studiando la popolazione dei pigmei «è l’amore eccezionale che sia i padri che le madri hanno per i bambini che vengono cresciuti dai genitori, ma sono trattati da tutti gli adulti del gruppo come propri figli. Se un bambino rimane orfano viene adottato automaticamente nella famiglia degli zii ed è considerato al pari dei loro figli. (…) I bambini chiamano “padre” e “madre” tutte le persone della generazione dei genitori e “nonni” tutti quelli della generazione precedente, “fratello e sorella” quelli della loro età».

Io credo che nessuno possa dire che a un bambino possa quindi far male essere amato da più persone: fa male, invece:

• se tra chi ama c’è competizione e rivalità, se di fatto si pone il bambino di fronte ad una scelta fra due famiglie che sono altrettanto importanti per lui;

• se si stigmatizza la diversità. Questo è un problema che devono risolvere gli adulti, non i bambini.

Bisogna che ci si prepari all’incontro con la diversità. Ancora troppo spesso, quando pensiamo all’altro, partiamo da noi stessi, dal nostro modo di pensare e di essere. Per questo molto spesso ci è difficile comprendere.

La scuola rimane legata ancora a schemi vecchi, bisogna invece farsi portatori dei nuovi valori, non creare gerarchie nel modo di vedere la famiglia adottiva per esempio da quella biologica, capire che allargare la famiglia, che bisogna imparare a dare e chiedere aiuto.

Una cosa è certa. Non può esserci sviluppo del singolo individuo se il singolo individuo non è all’interno di una rete, di una situazione di aiuto. E l’affidamento ha questo significato, non una buona azione, ma la creazione di una rete che sostenga il bambino.

L’affidamento, in questo senso, contiene in sé una grossa provocazione: chiama in causa le famiglie ad aprirsi ai valori dello scambio, della solidarietà, è una rete di scambi affettivi ed emotivi che gli permettano di crescere nel modo migliore possibile.

Ma è una provocazione anche per tutti noi, perché ci interpella come adulti che non dovrebbero chiudersi nel loro privato, ma offrire il loro sostegno, aprire le proprie porte. Come comunità dovremmo intervenire in modo più naturale, più spontaneo di fronte ad un bambino che ha bisogno. E la nostra società di naturale ha ormai molto poco.

L’affidamento insomma non dovrebbe essere considerato solo un’istituzione messa in atto per supplire a una carenza, ma dovrebbe diventare “cultura”, modo di essere e di pensare.

Ed è proprio in quest’ottica che dobbiamo metterci per parlare di affidamento a scuola.

Dobbiamo prima di tutto ritrovare il significato più profondo della parola “affidamento”. Deriva dal latino “fidere”, che vuol dire “avere fiducia” “affidarsi”, potersi abbandonare.  In effetti l’affidamento può dirsi riuscito quando il bambino pian piano sente nascere dentro la fiducia nelle persone che stanno prendendosi cura di lui.

Quando siamo all’interno di una comunità come quella scolastica tutti i bambini dovrebbero sentirsi affidati.

In realtà tutti i bambini che entrano nella scuola si aspettano qualcosa:

þ  si aspettano di essere riconosciuti per quello che sono;

þ  che li si aiuti a scoprire e valorizzare le loro potenzialità;

þ  si aspettano di imparare, di faticare;

þ  ma di essere aiutati e guidati nel loro cammino;

þ  così come un figlio si aspetta di essere amato dai suoi genitori.

Quando un bambino è ancora piccolo ha bisogno di un ambiente accogliente, di persone che sappiano accogliere tutti i bambini: adottivi, affidati, stranieri, handicappati, tranquilli, meno tranquilli, di persone che sappiano vederli semplicemente come bambini, senza etichette da conoscere e da cui farsi conoscere.

I loro genitori, in effetti, ce li affidano e possiamo vedere tutta la loro apprensione nel farlo: essi delegano a noi una parte della loro educazione (ci vediamo solo nel ruolo di dare istruzione).

Il collante del legame tra genitori-bambino-insegnanti dovrebbe essere proprio la fiducia. Un rapporto solidale tra genitori e insegnanti nell’interesse del bambino. Bisogna assolutamente lavorare per questo obiettivo, ed essere molto attenti a non creare un clima conflittuale a costo di avere un atteggiamento unilaterale.

• Quello che professionalmente si chiede ad un insegnante è la capacità di essere persona adulta e matura, in grado di esprimere la propria genitorialità, la capacità cioè che non è solo del padre e dalla madre, di prendersi cura di sé e degli altri, di essere una figura di riferimento al fianco di soggetti in crescita.

• Quello che si chiede ai genitori è un dialogo costruttivo e paziente nella consapevolezza che il ruolo dell’insegnante è difficile e delicato. Io credo che incontrarsi, parlare, partendo dai bambini e non dalle nostre diffidenze e paure porterebbe a grossi risultati, spezzerebbe il cerchio della solitudine che spesso ci tiene segregati nelle nostre case e nei nostri ruoli.

Bisogna invitare tutti a essere più corresponsabili. Una classe è una classe di bambini e di insegnanti, ma anche di genitori che in qualche modo devono fare la loro parte.

Dobbiamo ricostruire una corresponsabilità per crescere i nostri figli bene e, se possibile, e sarebbe auspicabile, meglio di noi. Dobbiamo essere più partecipi nelle varie situazioni.

Dice Morin: «L’indebolimento di una percezione globale conduce all’indebolimento del senso di responsabilità così come all’indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato».

È questo che dovremmo insegnare ai bambini: in una comunità nessuno dovrebbe sentirsi mai solo. E la parola “sentirsi” dovrebbe essere ben messa in evidenza.

Parliamo molto di solidarietà, ma troppo poco aiutiamo i ragazzi a capire nella quotidianità questa esperienza.

Il bambino non dovrebbe, mai, sentirsi come si è sentito un mio allievo che ha scritto questa poesia:

Io

Che vago nel buio

In una foresta

Senza un’anima viva

e che più volte mi aveva dichiarato: «Vorrei che qualcuno mi obbligasse a non fare ciò che faccio». Marco è un ragazzo con una situazione familiare molto difficile e non aveva mai avuto l’aiuto di nessuno. Aveva trascorso un’infanzia sulla strada e a 13 anni si cominciava a rendere conto di come fosse pregiudicato il suo futuro.

Qui c’è un io, nel buio, in una foresta quindi piena di pericoli nascosti, senza un’anima viva: il contrario quindi del vivere in una situazione di solidarietà, dove c’è coesione, unità.

Ai bambini e alle loro storie ci si accosta in punta di piedi. Si accettano i loro silenzi, i loro rifiuti. Si aspetta pazienti un segno di avvicinamento, non per inondarli dei nostri discorsi e dei nostri consigli, ma per far loro sentire la nostra presenza e il nostro interesse.

I problemi non sempre trovano una soluzione ma si vivono: cammin facendo qualcosa può suc­cedere.

In questo contesto proprio il bambino più difficile, con una storia alle spalle più problematica

a dovrà capire che il posto, dove è entrato, è un posto speciale;

a dove anche lui, che si sente a volte triste, arrabbiato, solo, senza spesso neanche capire fino in fondo perché, troverà un luogo caldo e disponibile ad ascoltarlo;

a ad ascoltare non solo quello che sa, ma anche quello che sente. 

Il più delle volte il linguaggio nelle scuole è asettico, neutro, poco affettivo. Bisogna ricordarsi che di fronte a noi ci sono bambini e ragazzi in crescita che hanno bisogno di quello che la Dolto chiama la «comunicazione umanizzata», un linguaggio cioè che sappia raggiungere il suo cuore qualsiasi età egli abbia, un linguaggio attento, paziente, affettuoso. È questo linguaggio, però, che si va perdendo nella nostra società che non si dà il tempo di «parlare aiutando  il bambino a riconciliarsi con se stesso» e avere «tolleranza, attenzione, empatia e verso le sue manifestazioni di sofferenza».

La «comunicazione umanizzata» si contrappone al giudizio precostituito, quello che oggettivando il sapere del bambino, rischia di oggettivare il bambino stesso.

Primo compito di un insegnante è quello di lavorare per creare un buon clima di classe.

Solo in questo modo la scuola può diventare un luogo di confronto, dove ogni bambino si incontra con altre realtà di vita e

apuò ritrovare la propria diversità in mezzo ad altre diversità,

ai propri problemi in mezzo ad altri problemi.

Solo se le emozioni e i sentimenti degli allievi sono accolti e riconosciuti come aspetti strettamente legati all’esperienza e non come ostacolo o disturbo allo svolgimento del programma:

1. il bambino può trovare la forza di raccontarsi,

2. di appropriarsi della propria storia, anche se a volte dolorosa,

3. come un valore

4. e non come un motivo di esclusione da tutti gli altri, può imparare a costruire quello che lo psicoanalista Soulè chiama il «suo romanzo familiare».

Gli aspetti cognitivi e gli aspetti affettivi-relazionali, infatti, sono in stretta correlazione.

Questa riflessione sui sentimenti rende significativa e ricca anche per noi, ci insegna giorno dopo giorno a comprendere meglio gli altri, ma anche noi stessi, a ridare dignità alla nostra professione.

 

Il passato non è solo un archivio di dati anamnesici

Essere attenti alla storia del bambino vuol dire sapere che il passato non è solo quello raccontabile a parole; il passato si incide nei cuori, nell’anima, si trasforma in dolore, sofferenza o gioia e serenità o in comportamenti (quando un bambino è per esempio aggressivo, svogliato, disattento, quando si sente inadeguato… sta raccontando qualcosa di sé).

Conoscere la storia di un bambino significa capire quali segni questa storia ha lasciato in lui e quanto questi hanno influito sul suo modo di stare al mondo.

La conoscenza avviene nella relazione quotidiana, in un colloquio costante e attento, direi instancabile. Ma bisogna stare attenti, come dice Galimberti, che quando si apre un dialogo non siano subito «i pregiudizi ad occupare la scena».

Le nostre parole, pur evocando a volte principi encomiabili, possono essere scrigni vuoti nel momento in cui non sanno attecchire nell’altro, scivolano senza rimanere nei loro cuori.

 

La conoscenza avviene anche e soprattutto nell’ascolto

Quando parliamo di ascolto, è meglio precisarlo subito, non si parla tanto di ascoltare discorsi razionali, ma quello che di più profondo si muove dentro un bambino. Più un bambino ha sofferto, meno saprà raccontarsi, esprimere il proprio dolore con le parole.

Dice Simone Weil che il pensiero della sofferenza non è discorsivo, non si costituisce in unità logiche e rigorose di significato, ma si smarrisce «come una mosca che corre sempre contro un vetro» che vuole uscire ma che non trova il modo. Non è facile, quindi, la comprensione. È importante però cercare insieme a lui.

È quindi necessario saper fare silenzio dentro di noi, far tacere le tante parole che giudicano, che stigmatizzano, che interpretano, che a tutti i costi vogliono trovare soluzioni veloci. Le parole che presumono di aver già capito senza prima aver affiancato, condiviso, amato. Le parole specializzate che etichettano e non lasciano venir fuori l’individuo nella sua interezza.

Solo da questo silenzio può nascere l’ascolto dell’altro, un silenzio che è spazio, apertura all’altro.

Un silenzio per dirla con la Weil che ci «permette di cogliere verità che altrimenti resterebbero celate per sempre». In ognuno di noi c’è qualcosa di “indicibile”, che non riusciamo a dire o a comunicare, a volte neanche a noi stessi e che ha bisogno di tempo, pazienza per emergere dal profondo.

 

Bisogna imparare ad aprire un dialogo in cui il dire è esso stesso ascolto

È la realtà il vero punto di partenza, ciò che viviamo quotidianamente, giorno dopo giorno, con tutte le contraddizioni e i problemi che ci possono essere. Non c’è una teoria che cala sulla realtà, ma c’è una realtà che ogni giorno può insegnarci qualcosa di nuovo.

Maria Zambrano dice: «Bisogna avere la capacità di stare in presenza…». Nella realtà non tutto è visibile, qualcosa si nasconde, qualcosa che va cercato con pazienza e amore, qualcosa che anche nel ragazzo che sembra più disperato e difficile può tornare alla luce. Ogni piccolo gesto in questo senso può essere molto importante.

Bisogna riuscire a sostenere la contraddizione, a non averne paura, perché solo la contraddizione, la complessità rende la realtà quella che è. E non la nasconde in facili quanto dannosi schematismi.

Affidarsi a noi vuol dire che i ragazzi possono con noi affrontare e vivere le loro fragilità, le loro paure, i loro sensi di inadeguatezza.

Tante volte noi insegnanti pensiamo che di fronte a bambini problematici debbano essere gli psicologi ad intervenire ed in parte è vero.

Ma dimentichiamo che prima di tutto, tutti i bambini, anche quelli apparentemente più equilibrati, hanno bisogno di atmosfere calde ed umane per crescere sani e che comunque la quotidianità è terapeutica di per sé, senza una buona quotidianità non esiste cura che tenga.

Questo modo di vedere ci aiuta a fare della scuola un luogo dove «non si chieda di essere “forti”, ma in cui sia possibile non essere né forti né deboli, e accettare insieme la fragilità della vita»,

a una scuola che sappia vedere nelle persone,

a individui non etichettabili,

a che riconosca “la molteplicità”: ogni individuo si può esprimere in diversi modi,

e questo riconoscimento «non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di “normale”, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…). Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel “niente da segnalare” della norma che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di “dover essere forti”, “all’altezza”” recidendo “ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità» (L’epoca delle passioni tristi) (1).

Può succedere, dice la Vegetti Finzi, che «per essere accettato, riconosciuto, amato, il bambino si sforza in tutti i modi di compiacere le aspettative dei genitori, dell’ambiente che lo circonda, dimostrandosi non solo bravo e intelligente, ma più bravo, più intelligente di altri». Questo atteggiamento, però, ci avverte la psicologa, ha un rischio perché «avviene a spese del nucleo più profondo e più vero della sua personalità, quello legato alle emozioni e alla creatività, che non ha modo di manifestarsi, soffocato com’è da questo imperativo categorico: devi essere intelligente, se vuoi essere accettato».

Si tratta spesso di un rischio «differito» che emerge più avanti «quando l’intelligenza non basta più per sentirsi vivi, amati e accettati. Quando si cerca se stessi. E non ci si trova: perché l’intelligenza, appunto, non è tutto nella vita di una persona» (2).

 

 

* Relazione tenuta all’incontro svoltosi a Torino il 22 gennaio 2005 sul tema “Bambini con una famiglia in più. Come parlare di affidamento a scuola”, organizzato dall’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie, dalla Fondazione Promozione sociale, dal Coordinamennto sanità e assistenza tra i movimenti di base in collaborazione con l’Associazione nazionale pedagogisti italiani e con il contributo del Comune di Torino.

(1) Miguel Benasayag e Gerard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004.

(2) Silvia Vegetti Finzi e Anna Maria Battistin, I bambini sono cambiati, Arnoldo Mondatori Editori, 1996.

 

www.fondazionepromozionesociale.it