Prospettive assistenziali, n. 151, luglio - settembre 2005
Il sostegno
alla famiglia d’origine prima, durante e dopo l’affidamento familiare: Gli
interventi necessari e le possibili
integrazioni fra servizi
Stefania
Miodini * e Sara Borelli **
L’intervento al convegno nasce
nell’ambito dell’esperienza costruita in questi anni nella provincia di Parma,
che ha visto impegnati operatori dei servizi pubblici (assistenti sociali,
educatori, neuropsichiatri infantili e psicologi),
del privato sociale e del mondo del volontariato, legati ovviamente al mondo
dell’affidamento familiare e, comunque, della tutela
dei minori e delle loro famiglie.
La Provincia di Parma è composta da quattro distretti, due in zona montana e due in zona
pianeggiante/rivierasca (sul fiume Po), di cui un distretto comprendente in
modo prevalente la città capoluogo di provincia. Nonostante la presenza di
differenze gestionali e organizzative (solo il Comune
di Parma con gli altri quattro piccoli Comuni parte del Distretto ha ritirato
le deleghe su tutti gli ambiti del servizio sociale, mentre il distretto
montano della Valtaro-Valceno le ha affidate alla
Comunità montana e gli altri due, che fanno capo l’uno sul Comune di Langhirano
e l’altro sul Comune di Fidenza, hanno attribuito le deleghe all’Azienda unità
sanitaria locale per le aree minori, famiglie, adulti e disabili) da alcuni
anni è stato costituito a livello provinciale il Coordinamento affidi, che ha
elaborato diversi documenti di indirizzo sul tema dell’affidamento familiare,
cercando di portare avanti obiettivi comuni e costruire linguaggi il più
possibile omogenei o, comunque, capaci di dialogare tra loro per discutere
sulle modalità operative e sui modelli teorici di riferimento.
L’ultimo di questi documenti,
sulla “Famiglia naturale” (o “d’origine” come preferisce il coordinamento nazionale),
è stato completato lo scorso autunno, dopo circa un anno e mezzo di lavoro,
composto di incontri mensili in sede provinciale e di
ricerche e sperimentazioni continue e livello locale.
Il percorso è stato realizzato
con la collaborazione di operatori e responsabili
appartenenti ai servizi sociali di tutti e quattro i distretti e confrontato
con altri servizi contigui (in particolare con il servizio di neuropsichiatria
infantile), con associazioni e cooperative a livello provinciale.
Questo lavoro è nato dalla
consapevolezza di diverse problematiche presenti nei servizi:
• la presenza di pochi affidi a breve
termine e la presenza altresì di un numero consistente di affidi sine-die, segno
di un “non cambiamento” nella famiglia naturale;
• la fatica ad agganciare e costruire
progetti con le famiglie d’origine;
• l’esito non sempre ottimale dei
percorsi di affido familiare (o anche di inserimento in comunità familiari e/o
educative), considerando per “non ottimale” il frequente rientro in famiglia al
raggiungimento della maggiore età senza che siano cambiate le condizioni di
vita e, quindi, con rilevanti rischi per il lavoro portato avanti nel periodo
di affido.
La famiglia d’origine di uno o più minori che devono essere collocati al di fuori del proprio nucleo familiare viene definita
in genere multiproblematica, in
quanto famiglia “fragile”, spesso gravata da problemi personali e relazionali
dei loro componenti: è una famiglia che non è in grado di rispondere ai bisogni
dei figli in modo adeguato anche se non è quasi mai d’accordo con l’attivazione
di un progetto di affido (queste famiglie preferiscono l’istituto, soluzione di
certo meno minacciosa per l’identità familiare), a volte svantaggiata dal punto
di vista socio-economico e socio-culturalmente deprivata.
Molto spesso in queste famiglie
l’allontanamento del figlio è l’ultimo anello di una catena di
interventi, che peraltro non sono riusciti a produrre cambiamenti
significativi, dove per “cambiamento” non si intende un’azione di “controllo
sociale” e/o di “normalizzazione” (termine peraltro non proprio nella logica
del servizio sociale), ma il raggiungimento di una soglia minima di
consapevolezza delle proprie difficoltà e lo sforzo di indirizzarsi in un
percorso che tenga conto di una genitorialità
affettiva e contenitiva nei confronti dei propri
figli.
È possibile individuare alcune
tipologie di svantaggi (1) che possono intervenire ad ostacolare una buona dinamica di vita relazionale all’interno della famiglia e in genere si riferiscono a:
• svantaggi materiali,
• mancanza di sintonia nella coppia (insoddisfazione, disaccordo, trascuratezza);
• isolamento sociale, geografico, mancanza di reti formali o informali;
• patologie fisiche o psichiche;
• devianza (furto,
droga, prostituzione).
Non sempre il nucleo familiare è
capace di svolgere la sua fondamentale funzione personalizzante e
socializzante, ma può, anzi, essere gravemente disturbante e distorcente. Le
insufficienze familiari sono spesso alla radice di trascuratezze e violenze
psicologiche nell’infanzia e di devianze preadolescenziali
e adolescenziali, che possono condizionare tutta la vita. Possono delinearsi varie tipologie di famiglie talmente disturbanti
(2) da essere distruttive:
• la famiglia conflittuale, in cui regnano profondi disaccordi
e tensioni tra i coniugi, incapaci di conseguire un equilibrio. Il ragazzo si sente
profondamente diviso, vive sensi di colpa, perenni insicurezze e angosce che
gli tolgono la capacità d’affrontare con serenità le sue difficoltà e di
superarle senza traumi. Uno dei genitori può, inoltre, far assumere al figlio
un ruolo sostitutivo di quello di sostegno in cui l’altro coniuge ha fallito,
turbando il suo regolare processo di crescita (instaurarsi di un rapporto di
tipo incestuoso, anche se virtuale, che distrugge il ragazzo);
• la famiglia silente, in cui è fortemente carente una comunicazione
con i figli per aiutarli nelle difficoltà e per sostenerli durante il trauma
del trapasso dalla dipendenza infantile all’autonomia adolescenziale. i bisogni materiali sembrano essere gli
esclusivi bisogni dei figli e gli unici che è in grado
di appagare. Il ragazzo vive in un ambiente povero di stimoli, in un deserto di
sentimenti e di ideali, in cui non può comunicare i
suoi problemi esistenziali;
• la famiglia narcisistica si ritiene autosufficiente, si chiude ad ogni esperienza
sociale; svaluta e ritiene nemica ogni istituzione estranea a sé. Avviluppa in un amore adorante ma
possessivo e statico, tende a legare il figlio con il sottile ricatto della
riconoscenza verso il nucleo. Non è consentita un’autentica crescita in
autonomia e in libertà ed un fisiologico, progressivo sganciamento, ma solo un
traumatico strappo o una fuga;
• la famiglia abdicante rinuncia a comunicare valori, con il pretesto di voler
rispettare la libertà del figlio ma, in realtà, questi sono assenti. Teorizza l’autorealizzazione dei suoi membri solo fuori del nucleo,
estromette precocemente i figli e non rispetta i tempi di crescita fisiologici;
non sa trovare equilibrio tra autonomia e controllo, tra libertà e sostegno;
• la famiglia esigente richiede al ragazzo di non sbagliare mai, è sempre pronta a condannare, a colpevolizzare perché
ogni errore o deviazione dal modello familiare costituisce un tradimento.
L’insicurezza, la costante paura di sbagliare, la mancanza di fiducia possono bloccare il processo di crescita e portare a vivere
una dipendenza parassitaria o provocare atteggiamenti di rivolta e sensi di
colpa;
• la famiglia violenta le cui debolezze, vulnerabilità psicologiche, lo scarso equilibrio emotivo
e affettivo dei genitori, le incapacità di sviluppare relazioni positive di attaccamento si riverberano tutte sul ragazzo,
visto come capro espiatorio delle insufficienze familiari e come cuscinetto
rispetto alle aggressività familiari
latenti. La scarsa fiducia e la mancanza di autostima
dell’adulto vengono camuffate dalla violenza fisica che dà l’impressione di
potersi imporre; la scarsa tolleranza impedisce di accettare le inadempienze
agli ordini dati e di saper attendere i lenti progressi maturativi del ragazzo
che vive in un clima violento e disorientante;
• la famiglia deviante orienta la propria vita in modo alternativo
rispetto all’ordinamento della società. Sono nuclei in cui sono normalmente praticati
prostituzione, tossicodipendenza, criminalità. Tutto questo impedisce al
ragazzo di sviluppare un rapporto non conflittuale con la società, avviandolo
verso la devianza.
Le famiglie in carico ai servizi
sociali non sempre rientrano in una di queste categorie in modo preciso, ma
hanno spesso caratteristiche “miste” e questo aumenta la complessità
dell’intervento di aiuto.
Nella storia di una famiglia
l’affidamento di un figlio rappresenta spesso un evento che indica un processo
di crisi dalle radici profonde. È stato ipotizzato che una patologia dei
processi separativi costituisca un tratto
caratterizzante del nucleo familiare multiproblematico che vive l’esperienza
dell’affidamento familiare (3). A proposito dei motivi sostanziali che, al di là della circostanze scatenanti, sono all’origine del
provvedimento di affido, è presente una difficoltà nella relazione precoce
genitore-figlio, causa profonda della separazione successiva e dell’affido.
Già Minuchin (4) aveva, precedentemente,
messo in luce come i membri delle famiglie multiproblematiche sembrino
oscillare tra il coinvolgimento totale (invischiamento)
ed il disinteresse/disimpegno (in particolare dei genitori nei confronti dei
figli); a questo corrisponde un’incompleta definizione dei limiti tra gli
individui, da una fusione indifferenziata ad una brusca separazione. Quest’ultima può assumere, frequentemente, il carattere estremo di abbandono
sia fisico sia psicologico (5).
Da questi diversi
contributi emerge una convergenza sulla centralità delle difficoltà nei processi
di coesione e differenziazione tra i suoi membri come origine dei meccanismi di espulsione del bambino dal nucleo che inducono
all’affidamento familiare. Questo trova conferma anche nelle osservazioni di
Cirillo (6), che individua due categorie di giochi connessi con l’esclusione di
un figlio.
I giochi di inclusione/esclusione
sono presenti in
nuclei caratterizzati da un perenne
stato d’incompletezza dovuto all’allontanamento di un familiare molto
importante, non elaborato dai membri della famiglia; indicano la presenza di un
legame mai rescisso. Possono provocare l’esclusione di un figlio come minaccia
o punizione nei confronti del membro che si è allontanato e come meccanismo teso a indurne il
riavvicinamento: l’espulsione del figlio mira all’inclusione di un altro membro
nella famiglia e al ripristino di un equilibrio.
Nei giochi di esclusione
del capro espiatorio la famiglia mira, attraverso l’espulsione di un figlio
(capro espiatorio), a raggiungere un equilibrio mai sperimentato prima.
I problemi relazionali
tra i bambini in affido e i genitori sembrano, a loro volta, fare eco alle
difficoltà incontrate dai genitori stessi con le loro famiglie d’origine.
Un’altra modalità
d’espressione della problematica separativa è costituita dal ripetersi del
concepimento di altri figli poco dopo la separazione e
l’affido dei primi. Ciò sembra configurare una coazione a concepire figli e a
separarsi da loro che, nell’oscillare tra un desiderio di fusione
fantasticamente soddisfatto dalla gravidanza e un’istanza
di separazione che viene concretizzata nell’allontanamento del figlio,
testimonia ancora la presenza di una patologia dei processi separativi.
Nel lavoro con le famiglie
multiproblematiche s’incontrano situazioni così profondamente dolorose, con
esiti di così pesanti e grave deterioramento, tali da
suscitare negli operatori forti ansie,
continuo senso d’emergenza e costanti preoccupazioni; a tali condizioni ognuno
reagisce in maniera differente e personale ed è, perciò, fondamentale imparare
a capire e a distinguere quali siano le reazioni individuali e quali le reali
esigenze dell’intervento (7).
Se, nel costruire il quadro di una situazione
familiare per formulare un progetto d’intervento, ci si muove spinti dal dolore
che viene comunicato dal padre o dalla madre, significa che è in atto
un’identificazione con loro e con i loro sentimenti. Si tenderanno a prendere
decisioni che subordinano il benessere del bambino a quello di uno dei due genitori. Se, invece, si è completamente focalizzati
su ciò che al bambino manca e dal desiderio di mettere fine alla sua
sofferenza, i genitori appariranno come intollerabilmente cattivi e scarsa sarà
la valutazione di una loro possibilità di recupero.
Un altro aspetto particolarmente
importante è il fattore tempo. Spesso si lascia scorrere il tempo attuando
mille interventi di sostegno in accordo con la famiglia, nell’inconsapevole
speranza che prima o poi “tutto si aggiusti”.
Purtroppo questo si sposa con la tendenza della famiglia a negare che esista un
problema e si rischia di creare una situazione di blocco. In
questi periodo di solitudine e abbandono, i richiami e le richieste di
aiuto del bambino restano inascoltati e si spengono, la sua fiducia nel fatto
che i grandi possano soddisfarlo e soccorrerlo svanisce, impara che può fidarsi
solo di se stesso e chiude i contatti con la realtà.
Se nella fase della presa in
carico si aderisce troppo alle richieste della famiglia, si stabilirà con essa un rapporto di apparente fiducia, ma basato solo su una
condivisione dei loro sentimenti di tristezza e su un tacito accordo a non
parlare di ciò che non va. Nel momento in cui
s’interverrà in maniera più normativa per l’attuazione di un progetto, la
famiglia si sentirà tradita ed il rapporto col servizio si spezzerà, rendendo
estremamente difficile una successiva collaborazione.
Esiste il rischio reale che i
servizi sociali si trasformino in servizi “al limite”
se, con i loro interventi, colludono con le dinamiche patologiche dell’ambiente
di vita quotidiano. Quando ciò avviene i servizi
partecipano attivamente a mantenere nel tempo le situazioni disfunzionali
nella famiglia e con la
famiglia.
A titolo esemplificativo si
possono distinguere i rischi associati ad alcune categorie d’intervento (8):
• interventi disperati: rischio di togliere ogni speranza
operativa prima di cominciare a causa della preoccupazione dei servizi di
tutelare il
caso;
• interventi intempestivi: inizialmente viene
ipotizzato un intervento, ma l’attuazione avviene in ritardo, quando ormai la
situazione è cambiata e l’intervento ipotizzato a suo tempo, ha ora un
significato completamente diverso;
• interventi conflittuali: gli operatori dei diversi
servizi sono incapaci di ricomporre e integrare le informazioni e gli
interventi sul caso; sono in conflitto tra recuperabile/irrecuperabile, sono
alternativamente iperattivi o impotenti;
• interventi sostitutivi: il conflitto di coppia viene proiettato nell’ecosistema dei servizi; ogni coniuge
cerca di essere riconosciuto adeguato dagli operatori, ma contro l’altro coniuge che si è fatto sostituire dai
servizi, fissando la propria assenza. Per gli operatori il
rischio è quello di prendere il posto del coniuge, anziché aiutarlo a
riprendere il proprio posto e le proprie funzioni.
Si possono, inoltre,
esaminare diversi aspetti relativi al progetto di
affido che riguardano la posizione che in esso va ad assumere la famiglia
d’origine (9):
• consenso o dissenso della famiglia d’origine: gli affidi consensuali sono ben
pochi anche se, in alcuni casi, un consenso mancante
all’inizio viene successivamente acquisito (non sembra, comunque, che venga
particolarmente ricercato dagli operatori). La famiglia manifesta più
frequentemente un atteggiamento positivo riguardo ad
affidi chiaramente finalizzati e motivati da ragioni precise (scolastici,
diagnostici, terapeutici). Sono quelli socialmente più giustificabili e
psicologicamente più accettabili che non espongono ad un giudizio negativo. La
massima percentuale di dissensi si concentra sull’affido educativo, perché
sembra bollare la famiglia come indegna o incapace;
• sostegno alla famiglia d’origine: in linea generale, tranne il
sostegno terapeutico alla madre, tutte le forme di sostegno previste prima
dell’affido calano o restano invariate. Le famiglie maggiormente sostenute sono
quelle con bambini più piccoli;
• rapporti con il minore: nelle situazioni più gravi
spesso si ritiene meglio troncare o mantenere molto allentate le relazioni col
minore e la famiglia d’origine, sia pure per un certo periodo. Per i bambini
più piccoli sono previsti rapporti molto frequenti; per i più grandi, invece,
spesso non è formulato un
programma ed i rapporti si considerano “non prestabiliti”.
Il rapporto con la
famiglia d’origine da parte degli operatori dovrebbe avvenire all’insegna della
massima trasparenza, dell’assoluta sincerità relativamente
alla situazione nella quale si trova i bambino o alle sue possibili
cause. Si parte da un momento di sofferenza, in cui il servizio non dovrebbe
porsi come spalla su cui piangere un’irreparabile perdita, ma come capacità
adulta di guardare insieme alla situazione, di pensare e di realizzare insieme
delle soluzioni.
Per realizzare un
affido e contemporaneamente sostenere la famiglia d’origine bisogna costruire
una dimensione progettuale su più livelli. Il progetto è soprattutto pensiero,
prima ancora che organizzazione.
Avere lo spazio per
pensare, soprattutto per pensare “insieme”, aiuta a
immaginare e costruire una nuova realtà pur di fronte a situazioni molto
difficili e poco agganciate ai servizi.
Il progetto deve
essere scritto, perché lo scritto lascia traccia della storia: possono avvenire
fatti nuovi o possiamo modificare la lettura degli
eventi, ma all’interno di una strategia consapevole.
È quindi necessario:
• scrivere il
progetto;
• definire chi fa che
cosa;
• costituire un
tavolo degli operatori coinvolti;
•
gestire in équipe l’affido e la relazione con la
famiglia d’origine;
• individuare un
referente;
• definire le
procedure e i collegamenti;
• fare le verifiche
e l’aggiornamento del progetto;
• gestire la
conclusione dell’affido e, quindi, il rientro nella famiglia d’origine.
Il percorso
metodologico di intervento a favore della famiglia
naturale e per la tutela del minore
Partendo dalle riflessioni
esposte nei paragrafi precedenti, il Coordinamento provinciale sull’affido
familiare ritiene necessario proporre uno schema operativo relativo
all’intervento a sostegno della famiglia di origine
sottolineando la necessità che, prima di decidere un progetto di affido, è
necessario un approfondito percorso di conoscenza e di valutazione diagnostica e prognostica
della famiglia di origine.
Tale percorso ha l’obiettivo di:
• capire i motivi relazionali che
hanno provocato il pregiudizio del minore;
• fare una prognosi sulle
capacità genitoriali con indicazione degli eventuali
interventi terapeutici ed educativi utili al recupero
della funzione genitoriale.
Si dovrà poi cercare di ottenere
il massimo del consenso da parte dei genitori alla decisione di
collocare il figlio in un’altra famiglia. Sappiamo bene quanto questo passaggio
sia delicato, facendo emergere, anche in adulti
disattenti e inadeguati, il fantasma dell’espropriazione.
Si dovrà quindi lavorare con
particolare impegno, integrando fermezza e delicatezza, per preparare la
famiglia a tale evento, adoperandosi affinché
risultino chiari motivazioni e obiettivi del progetto.
Tale approccio andrà
mantenuto anche in quei casi in cui l’affido viene
disposto da un decreto del Tribunale per i minorenni, dove si potrebbe fare a
meno dell’assenso dei genitori. Impegnarsi nel costruire una relazione di
collaborazione, pur nel rispetto delle regole del contesto
coatto, è comunque importante per evitare o ridurre lacerazioni affettive nel
bambino.
Contestualmente
all’avvio dell’affido si darà vita (o verranno mantenuti, se già in atto)
agli interventi di sostegno e cura a favore della famiglia di origine, previsti
dal progetto, finalizzati al recupero delle capacità genitoriali.
Gli esiti prodotti da tali interventi andranno costantemente monitorati. Sarà
anche di fondamentale importanza verificare le reazioni provocate dall’avvio
dell’affido, offrendo spazi
e tempi di incontro per raccogliere lamentele, timori, richieste.
Comunque è fondamentale attivare un
lavoro psicologico e pedagogico nei confronti della famiglia di origine, anche
nelle situazioni in cui si evidenziasse l’impossibilità di un recupero delle
competenze genitoriali, per aiutarla a comprendere ed
accettare le ragioni della sua incapacità a prendersi cura del figlio,
permettendo che altri lo facciano al suo posto e per mantenere il massimo della
genitorialità residua di cui è capace.
La famiglia di origine dovrà essere preparata e sostenuta anche nella
fase di rientro del bambino in famiglia, dovrà essere aiutata a ridefinire
regole e a stabilire nuovi equilibri
relazionali.
Il documento sulla
famiglia naturale, frutto del confronto fra gli operatori dei servizi affidi
del territorio, si è ovviamente proposto di essere una traccia di riferimento
per il lavoro nell’ambito dei servizi per la tutela dei minori, ma anche di
essere il punto di partenza per costruire e favorire il confronto con:
• la
neuropsichiatria infantile per quanto riguarda la lettura, la diagnosi e gli
interventi di aiuto per il minore;
• i servizi socio-sanitari per
adulti (servizio di salute mentale, servizio tossicodipendenza, servizio
sociale adulti, ecc.)
Per mettere in pratica questo
percorso è necessario uno sforzo costante di comunicazione tra servizi e,
ovviamente, la disponibilità ad investire nei percorsi di recupero delle
famiglie d’origine attraverso la presenza di un numero adeguato di operatori e la loro formazione permanente e supervisione
dei casi in carico, al fine di ipotizzare una reale progettazione in cui utenti
e servizio sono co-protagonisti del cambiamento.
Bibliografia
Giorgio Chiosso e Mario Tortello (a cura di), La famiglia difficile, Utet Torino,
1997.
Stefano Cirillo, Famiglie in crisi e
affido familiare, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1976.
Donatella
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Francesca
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Salvador
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Wanda Scopel, “Tutela dei minori e servizi”, Prospettive sociali e sanitarie, n. 18,
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Helm Stierlin, La famiglia e i disturbi psicosociali, Boringhieri, Torino, 1981.
Francesco
Vadilonga e Marco Chistolini,
“Protocollo per la progettazione e la gestione dell’affido familiare. Corso di formazione sull’affido organizzato dalla Regione Emilia
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Maria Clelia Zurlo, “La patologia dei
processi separativi nell’affido familiare: un’ipotesi operativa”, Minori Giustizia, n. 4, 1997, pag.
96-108.
* Stefania Miodini,
responsabile dei servizi sociali dell’Azienda Usl,
distretto di Fidenza (Pr).
Relazione tenuta al convegno nazionale “Affidamenti familiari; dalla
discrezionalità ai diritti dei bambini” (Milano, 16 maggio 2005), organizzato
dall’Associazione nazionale famiglie adottive e
affidatarie, dalla Fondazione promozione sociale, da Prospettive assistenziali, con la collaborazione del Coordinamento
nazionale servizi affidi.
** Sara Borelli, psicologa.
(1) Giorgio Chiosso e Mario Tortello (a cura di), La famiglia difficile, Utet, Torino, 1997.
(2) Giorgio Chiosso e Mario
Tortello, op. cit.
(3) Maria Clelia Zurlo,
“La patologia dei processi separativi nell’affido familiare: un’ipotesi
operativa”, Minori Giustizia, n. 4,
1997, pag. 96-108.
(4) Salvador Minuchin e Braulio Montalvo, “Technique for Working with Disorganized Low
Socioeconomic Families”, American Journal
of Orthopsychiatry, n. 37, 1967, pag. 880-887.
(5) Helm Stierlin, La famiglia
e i disturbi psicosociali, Boringhieri, Torino, 1981.
(6) Stefano Cirillo, Famiglie in crisi e affido familiare, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1976.
(7) Donatella Fiocchi, “La famiglia d’origine
durante l’affidamento familiare: il ruolo dei servizi”, Prospettive assistenziali, n. 122, 1998, pag. 21-25.
(8) Wanda Scopel, “Tutela
dei minori e servizi”, Prospettive
sociali e sanitarie, n. 18, 1993, pag. 1-3.
(9) Francesca Mazzucchelli (a
cura di), Percorsi assistenziali e affido
familiare, Franco Angeli, Milano,
1993.
www.fondazionepromozionesociale.it