Prospettive assistenziali, n. 151, luglio - settembre 2005
Libri
ELENA FERIOLI, Diritti e servizi sociali nel passaggio dal welfare statale al welfare municipale, Giappichelli
Editore, Torino, 2003, pag. 315, euro 31,00.
Nel commentare la
legge 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, l’Autrice avanza alcune
affermazioni sconcertanti.
A pagina 84 sostiene
che la legge suddetta conferma «la
competenza di carattere generale in capo ai Comuni, i quali sono titolari (…)
delle attività di assistenza già di competenza delle
Province» e che alla legge regionale viene assegnato «il compito di trasferire ai Comuni funzioni in materia di assistenza
ai figli illegittimi e abbandonati ai sensi delle leggi n. 283/1928 [in
realtà si tratta della legge 2838/1928] e
67/1993».
Purtroppo non è affatto vero. Infatti il 5°
comma dell’art. 8 della legge 328/2000 prevede che «la legge regionale (…) disciplina il trasferimento ai Comuni o ad altri enti locali delle funzioni
indicate dal regio decreto legge 8 maggio n. 798 convertito dalla legge 6
dicembre 1928 n. 2838 e dal decreto legge 18 gennaio 1993, n. 9, convertito,
con modificazioni, dalla legge 18 marzo 1993, n. 67».
Ne consegue che le
Regioni possono (e non devono) trasferire ai Comuni le funzioni relative ai minori nati fuori del matrimonio (che non
dovrebbero essere chiamati “illegittimi”), ma detta materia può essere
assegnata ad altri enti locali e
cioè, ad esempio, a consorzi di Comuni e Province oppure essere riconfermata
alle Province, perpetuando l’attuale incivile e disumana separazione
dell’assistenza ai minori nati nel matrimonio da quelli generati al di fuori di
esso.
Le suddette
competenze, ai sensi delle citate leggi 2838/1928 e 67/1993 non riguardano l’«assistenza ai figli illegittimi ed
abbandonati» come sostiene l’Autrice, ma i minori nati fuori del matrimonio
anche se non in situazione di abbandono, nonché le
gestanti e madri ed «i ciechi e sordi
poveri rieducabili», così definiti dal regio decreto 383/1934.
Anche per i suddetti
soggetti, il sopra menzionato 5° comma dell’art. 8 della legge 328/2000
consente il trasferimento delle attività assistenziali
«ad
altri enti locali».
A questo proposito
ricordiamo che né il Ministro On. Livia Turco, né la
relatrice On. Elsa Signorino avevano accolto le
ripetute richieste del Csa (Coordinamento sanità e
assistenza fra i movimenti di base) volte ad ottenere che la legge 328/2000
obbligasse le Regioni ad assegnare tutte le competenze assistenziali ai Comuni.
L’Autrice
a pagina 80
afferma che la legge 328/2000 è stata approvata «a più di un secolo di distanza dall’ultimo provvedimento statale di
riorganizzazione delle funzioni socio-assistenziali (la legge Crispi del 1890)».
Orbene, com’è noto
la legge Crispi, la n. 6972 del 1890, non ha affatto disposto la «riorganizzazione delle funzioni socio-assistenziali», in quanto si
è limitata a provvedere alla ridefinizione delle
competenze delle istituzioni pubbliche di assistenza, in precedenza denominate
“Opere pie”.
Inoltre non si
comprende per quale motivo si asserisca a pagina 20
che «la legislatura del periodo pre-costituzionale non ammette alcun diritto dei
beneficiari alle relative prestazioni».
Al riguardo facciamo
presente che ai sensi del regio decreto 6535/1889 i Comuni erano obbligati ad
assistere «le persone dell’uno e
dell’altro sesso, le quali per infermità cronica o per incurabili difetti
fisici o intellettuali non possono procacciarsi il modo di sussistenza»,
obbligo che è tuttora contemplato dagli articoli 154 e 155 del
regio decreto 773/1931 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza).
Ricordiamo, inoltre,
che l’obbligatorietà delle spese assistenziali dei
Comuni e delle Province, prevista dal regio decreto 383/1934 (testo unico della
legge comunale e provinciale) è stata abrogata dal decreto legge 10 novembre
1978, n. 702, convertito nella legge 8 gennaio 1979, n. 3.
Infine, non si può
ignorare che la competenza relativa alle cure
occorrenti per gli anziani colpiti da patologie invalidanti e da non
autosufficienza, attribuita al Servizio sanitario nazionale dalla legge
833/1978 (che al riguardo riprendeva le norme delle leggi 692/1955 e 132/1968),
è stata in gran parte attribuita all’assistenza (sopprimendo gli allora
esistenti diritti esigibili alle prestazioni da parte dei vecchi malati
cronici) mediante il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8
agosto 1984. Purtroppo la legge 328/2000 ha confermato detta abrogazione di
diritti.
Non corrisponde, dunque, alla
realtà dei fatti la sopra citata affermazione di Elena
Ferioli secondo cui «la legislazione del periodo pre-costituzionale
non ammette alcun diritto dei beneficiari alle relative prestazioni», ma è
purtroppo vero che la legge 328/2000 di riforma dell’assistenza e dei servizi
sociali non ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico alcun nuovo diritto,
al punto che per ottenere il ricovero di minori, di soggetti con handicap e di
anziani in gravi difficoltà socio-economiche occorre far ancora oggi
riferimento ai già citati articoli 154 e 155 del testo unico della pubblica
sicurezza 773/1931, mentre per i servizi alternativi al ricovero non ci sono
tuttora norme di legge che consentano ai cittadini di pretenderne la messa in
atto da parte degli enti gestori delle attività socio-assistenziali.
Stefania lorenzini,
Adozione internazionale. Genitori e figli tra estraneità e familiarità, Alberto Perdisa Editore,
Bologna, 2004, pag. 177, euro 12,50.
Il volume affronta il tema
dell’adozione internazionale nell’ottica della
pedagogia interculturale, ambito di ricerca familiare all’Autrice, che intende
infatti «far emergere la necessità di
guardare all’adozione internazionale come a una realtà complessa, e ciò
certamente per le dinamiche interne alle relazioni familiari e a quelle proprie
della società in cui la famiglia è inserita, ma anche in quanto fenomeno che
interessa più ampi orizzonti che dai rapporti tra genitori e figli arrivano – o
meglio partono e sempre riconducono – a quelli che riguardano la tutela
dell’infanzia a livello interstatale, e ai rapporti tra Nord e Sud del mondo».
Il libro si apre con l’esame critico
della normativa nazionale ed internazionale in materia; vengono
poi forniti, dopo una presentazione delle problematiche relative ai rapporti
tra i paesi di provenienza e i paesi di accoglienza dei bambini, i dati forniti
dalla Commissione per le adozioni internazionali presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri aggiornati al 2001, in alcuni casi al 2002.
Si prosegue con l’analisi degli aspetti
problematici dell’adozione internazionale (nel
tentativo di mettere in luce la particolare tensione tra familiarità ed
estraneità che caratterizza la relazione genitori-figli) dal tema
dell’abbandono a quello della ricerca delle origini, dalla presenza nel nucleo
familiare di figli biologici della coppia ai rapporti tra fratelli.
La terza parte è dedicata alle
esperienze e alle testimonianze. Pur non nascondendo l’eventualità,
percentualmente limitata ma reale, che esso fallisca,
come i dati forniti dalla Commissione testimoniano, la validità dell’istituto
dell’adozione internazionale viene confermata attraverso le parole di alcuni
protagonisti, figli e genitori adottivi. Essa può mostrarsi come «una forma straordinaria e ormai sempre più
consueta di formazione di nuclei familiari che dimostrano, incarnandola, la
possibilità di superare le barriere della distanza causata dalla differenza,
sapendola integrare in un riconoscimento profondo, radicandola nel valore
essenziale degli affetti filiali e genitoriali».
Il testo è corredato da una significativa bibliografia.
UGO DE AMBROGIO
(a cura di), Valutare gli interventi e
le politiche sociali, Carocci Editore, 2003, pag.
276, euro 20,00.
Il libro si rivolge
a chi opera nel settore sociale, in particolare a coloro che
rivestono funzioni valutative («operatori,
responsabili di servizi, dirigenti, amministratori, consulenti») ed offre
una serie di riflessioni, metodologie e criteri di approfondimento utili per
poter verificare l’efficacia degli interventi e delle politiche sociali. La
valutazione dei casi dovrebbe avere l’obiettivo di perfezionare la qualità
della vita del singolo beneficiario «per
fornire migliori risposte alle esigenze individuali» e di permettere agli
operatori di capire quali siano le carenze o le
validità dei servizi sociali. Dette iniziative sono
importanti per adeguare gli interventi alle reali esigenze degli utenti.
Per i servizi sociali gli accertamenti sono necessari «per offrire risposte appropriate efficienti
ed efficaci al gruppo dei destinatari». Secondo l’Autore, tra le proposte
metodologiche, la carta dei servizi è lo strumento che promuove «percorsi di valutazione partecipata della
qualità nei servizi sociali». Purtroppo, però, le carte dei servizi, in
genere, non contengono disposizioni esigibili da parte degli utenti.
Per quanto riguarda
la valutazione delle politiche, le analisi devono essere compiute senza cadere
in visioni settoriali. Infatti «agire in
un’ottica di piano significa privilegiare la
trasversalità e promuovere connessioni fra ambiti e settori di intervento
tradizionalmente separati».
Ma in tutte queste
analisi e valutazioni mai vengono presi in effettiva
considerazione dall’Autore i beneficiari degli
interventi e delle politiche sociali, e cioè gli utenti. La qualità, quindi, è
considerata soltanto dagli operatori del settore e sarà quindi valutata a senso
unico, con il gravissimo rischio di non tenere conto delle esigenze reali degli
utenti.
Pertanto, a nostro avviso,
occorre modificare sostanzialmente l’impostazione della valutazione della
qualità dei servizi e delle politiche sociali. Detta
attività, per essere accettabile, non deve essere affidata agli addetti ai
lavori (che generalmente, salvo casi rarissimi, non sono disponibili alle
valutazioni negative del loro operato), ma alle
organizzazioni dell’utenza, in un rapporto paritetico con gli organismi
rappresentativi degli operatori.
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