Prospettive assistenziali, n. 151, luglio - settembre 2005
POVERTà E REDDITO DI CITTADINANZA NELLA REGIONE CAMPANIA
Giuseppe D’Angelo
Premessa
La Regione Campania ha introdotto
per gli anni 2004-2005-2006 un provvedimento di
contrasto alla povertà denominato “Reddito di cittadinanza”.
La relativa norma (1) è stata
approvata nel febbraio 2004. Nel giugno seguente la Giunta regionale campana ha
varato il relativo regolamento (2); successivamente è
stato pubblicato il bando assieme alle linee operative di attuazione (3).
Il “Reddito di cittadinanza” è un
provvedimento sperimentale che ambisce ad aiutare i nuclei familiari e le
persone singole in difficoltà socio-economiche.
Prevede l’erogazione di una prestazione di tipo monetario nonché
l’assegnazione di alcuni supporti volti all’inserimento sociale.
La Costituzione
Un preliminare riferimento alla
Costituzione appare d’obbligo per cercare di inquadrare l’argomento che
sottende al presente articolo.
Diciamo, in estrema sintesi, che
secondo la nostra Carta costituzionale l’intervento
primario delle istituzioni al fine di contrastare e ridurre la povertà dovrebbe
essere volto a creare innanzitutto occupazione (stabile e con livelli di
retribuzione adeguati) per quanti sono in grado di lavorare, nonché fornire i
necessari sussidi per chi è inabile al lavoro.
Difatti, gia
nel suo primo articolo la Costituzione sancisce che «l’Italia è una Repubblica democratica,
fondata sul lavoro».
E all’articolo 4 afferma: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto» (4).
L’affermazione di questo
fondamentale diritto non può trovare, evidentemente, automatica soddisfazione. Affinché si confermi il suo enunciato, occorre costantemente
– tanto più nei momenti di difficoltà di mercato – il massimo sforzo a tutti i
livelli istituzionali per promuovere serie politiche di sviluppo, non soltanto
di tipo economico ma anche sociale e ambientale, al
fine di generare occupazione e produrre reddito e benessere.
Altresì, all’articolo
36 la Costituzione prevede che «il
lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità
del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa». Giungono subito alla mente quei contratti
di lavoro precari, che sempre più molti lavoratori si trovano costretti ad
accettare non avendo migliori alternative. Tipologie di contratto che bisognerebbe rivisitare alla luce del
dettato costituzionale. Salari ridotti, poche tutele e forme non stabili
di impiego non possono certo garantire al lavoratore e
alla sua famiglia una sussistenza libera
e dignitosa. Se queste forme di impiego si prolungano
nel tempo concorrono fortemente a creare indigenza.
Anche la salute è primariamente
tutelata dalla Costituzione. Afferma l’articolo 32, primo comma: «La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti». Così pure è previsto all’art. 38,
secondo comma, che «i lavoratori hanno
diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e
vecchiaia, disoccupazione involontaria».
Chi, invece, pur avendo abilità
lavorative, si trova in mancanza di lavoro, dovrebbe essere sostenuto con un
adeguato sussidio per la disoccupazione involontaria (erogato nell’ambito del
settore lavoro), unitamente alla fruizione di
iniziative atte a favorire le sue possibilità occupazionali, come per esempio
la frequenza di corsi di formazione, in attesa – al più presto – di un
inserimento, o meglio, re-inserimento nel mondo del lavoro.
Tale indennità di disoccupazione
però non dovrebbe riguardare solo chi ha già guadagnato l’accesso ad
un’occupazione regolare, come oggi avviene. Un reddito
minimo garantito dovrebbe essere quindi previsto per coloro i quali non sono
ancora entrati nel mondo del lavoro. E dovrebbe essere erogato unitamente
all’avvio di iniziative volte all’inserimento
lavorativo e sociale in genere.
Se a chi ha abilità lavorative
dovrebbe essere garantita un’occupazione, a chi è «inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere» la
Carta costituzionale riconosce il diritto al
«mantenimento e all’assistenza sociale» (cfr. l’articolo 38, primo comma).
Pertanto, chi si trova nelle
condizioni d’inabilità al lavoro – e solo per quelli – dovrebbero essere
previsti adeguati livelli di pensione e indennità tali da garantire realmente
il mantenimento e la necessaria assistenza.
Povertà
Prima di giungere all’analisi della
legge regionale campana sarà utile soffermarci, seppur brevemente, sul tema
della povertà. In particolare cerchiamo di esaminare alcune indicazioni fornite
in merito dall’Istat, l’Istituto nazionale di
statistica italiano.
Da qualche anno, è risaputo, l’Istat diffonde i dati delle indagini sulla povertà in
Italia. Questi dati sono desunti sulla base dei consumi delle famiglie.
Il focus sui consumi rappresenta un
percorso alternativo, probabilmente più comodo, rispetto a quello del computo
del reddito e delle sue modalità di rendicontazione
(5).
L’Istat,
ricordiamo, specifica principalmente la povertà relativa e la povertà assoluta. Per povertà relativa intende la condizione
di una famiglia di due persone che spende meno del
consumo medio pro capite (nel 2003 la soglia di povertà relativa per una
famiglia di due persone era pari a 869,50 euro al mese). Per definire la
povertà assoluta, invece, l’Istituto di statistica individua un livello di
spesa pari a quello necessario per soddisfare i consumi di base (casa,
alimentazione, abbigliamento, …) previsti da un “paniere” stimato dall’Istat come essenziale per garantire una sopravvivenza
dignitosa: nel 2002 la soglia di povertà assoluta era pari a 382,66 euro/mese
per una persona, era invece di 573,63 euro per un nucleo di 2 persone.
Diciamo che la povertà relativa ha mere
finalità statistiche.
È, per contro, la definizione di
povertà assoluta che trova maggiore identificazione con una reale condizione di indigenza (a patto che il paniere di riferimento sia individuato
adeguatamente). Pertanto, essa individua l’insieme della popolazione verso la
quale prioritariamente occorre corrispondere appropriati interventi di
sostegno. Il tasso medio nazionale della povertà assoluta – dati
Istat del
2002 (6) – è pari al 5,1% della popolazione. Nel Mezzogiorno il dato
raddoppia: 10,2%.
Purtroppo nel 2004 l’Istat ha prodotto solo le risultanze
dell’analisi della povertà relativa, in quanto ha interrotto la pubblicazione
dei dati sulla povertà assoluta. Pertanto, proprio l’analisi più interessante
per permettere la calibrazione di mirati rimedi
contro le carenze di reddito è stata (speriamo solo
temporaneamente) messa da parte. La motivazione addotta è stata peraltro
riferita ad una metodologia che, a quanto pare, ha
necessità di essere rivista (7).
Alcune utili indicazioni, comunque, ci pervengono dall’analisi della distribuzione
della povertà relativa (8). Vediamole in estrema sintesi:
- l’incidenza della povertà negli
ultimi anni appare sostanzialmente stabile (nel periodo 1997-2002 la povertà
relativa è attestata intorno all’11-12% delle famiglie
su scala nazionale);
- si accentua sempre più il
divario fra Nord e Centro rispetto al Mezzogiorno, dove la povertà resta circa
il doppio – per incidenza e intensità – della media nazionale. Appare subito
chiaro che proprio il Centro-sud e il Sud, quindi, necessitano di prioritarie
iniziative in merito alla predisposizione di corretti interventi di
contrasto alla povertà e all’esclusione sociale;
- la maggiore incidenza della povertà
si ha tra le famiglie numerose (in particolare quelle con tre o più figli) e
quelle con componenti non occupati. Purtroppo la
povertà del nucleo familiare si ribalta sui minori ivi
presenti. Si tratta di una povertà di “seconda battuta”, che dipende
dalla condizione dei genitori, ma che incide sui figli, sul loro percorso di
crescita intessuto di marginalità e disagio e che, se non interverranno fattori
esterni, perpetuerà la condizione di povertà (9).
Crediamo che queste risultanze di per se stesse dovrebbero portare a
considerare, in maniera assai più seria di quanto non sia stato fatto sinora,
ponderate misure di contrasto alla povertà in Italia.
La vicenda del reddito minimo di inserimento
A tutt’oggi
l’iniziativa della Regione Campania si inserisce in
uno scenario che brilla per l’assenza a livello nazionale di misure di sostegno
per chi si ritrova in condizioni di povertà economica (al di là degli
interventi pensionistici, previsti ad ogni buon conto solo per specifiche
categorie di soggetti bisognosi quali anziani e handicappati) (10).
A livello statale dobbiamo però ricordare il decreto legislativo n. 237 del 18
giugno 1998 che aveva previsto su scala nazionale – benché con finalità di
sperimentazione su un numero ristretto di Comuni – il cosiddetto “reddito
minimo di inserimento” (11).
L’obiettivo del decreto citato
era quello di sperimentare una forma di contrasto alla povertà e all’esclusione
sociale attraverso trasferimenti monetari e programmi di inserimento
(o re-inserimento) personalizzati – di tipo scolastico, lavorativo e sociale
– del beneficiario (12).
La sperimentazione attraverso il
decreto legislativo n. 237, durata diversi anni, prevedeva per esempio nel caso
di un adulto solo e senza figli l’erogazione di una somma che copriva la
differenza tra 258 euro (500 mila delle ex lire) e il reddito individuale (13).
Tutti i soggetti aventi reddito
non da lavoro e non assistenziale o dei beni di
proprietà (ad esclusione della casa di abitazione, qualora il valore
dell’immobile fosse stato al di sotto del limite massimo stabilito dal relativo
Comune di residenza) non rientravano nel programma (14).
L’unità di base per la
determinazione dell’eleggibilità al reddito minimo di inserimento
era il nucleo familiare e non l’individuo.
L’erogazione monetaria era
condizionata dalla disponibilità del beneficiario a partecipare a programmi
personalizzati di integrazione sociale (ricerca di
occupazione, corsi di formazione, servizi alla persona, ecc.).
Alcuni dati sui risultati della
sperimentazione del reddito minimo di inserimento sono
stati resi disponibili da parte di istituti di ricerca indipendenti (15).
Tra i risultati emersi spicca
soprattutto quanto segue (16):
- una difficoltà, in particolare
dei Comuni più piccoli, a gestire questo istituto
(carenza di personale e/o di competenze, ecc.);
- una mancanza di risorse da
parte di molte amministrazioni locali, con conseguenze negative
nell’attivazione dei programmi di inserimento;
- la necessità
di adottare strumenti più equi e meno variabili localmente, per la verifica
dell’accesso alla prestazione assieme ad un calcolo automatico del reddito
presunto predeterminato;
- il rischio di
scaricare sull’istituto del reddito minimo troppi bisogni lasciati
insoddisfatti dagli altri settori sociali;
- la necessità di supportare il
sostegno monetario con una serie di efficaci
iniziative di “reinserimento”. Difatti «nelle
realtà locali dove i progetti sono stati finanziati adeguatamente ed
organizzati efficacemente, hanno dimostrato una influenza
diretta sulla possibilità di uscire dal bisogno di ricevere il reddito minimo
di inserimento» (17).
Le disposizioni introdotte nel
1998 dal suddetto decreto sul reddito minimo di inserimento,
sono state riecheggiate nella legge nazionale sull’assistenza (18). La legge
328/2000 (legge “Turco”) all’articolo 23 ha difatti ipotizzato la messa a
regime del reddito minimo di inserimento, evidenziando
la necessità di creare una omogeneità di criteri di accesso a livello nazionale
(19). In ogni caso ne ha purtroppo demandato la definizione operativa ad un
successivo provvedimento; inoltre, non ha garantito le risorse necessarie al
fine di una applicazione estesa a tutto il territorio
nazionale e finalizzata a soddisfare i bisogni dei cittadini in gravi
difficoltà economiche (20).
Di seguito, nel 2001, il Governo Berlusconi, ha deciso – infelicemente – di non approvare
alcuna norma in materia di contrasto alla povertà. Il “Patto per l’Italia”,
difatti, ha previsto al punto 2.7 che l’approvazione di norme relative al reddito minimo di inserimento – ribattezzato
reddito di ultima istanza – vengano demandate alle Regioni, mentre all’Amministrazione
centrale viene attribuito solo un ruolo di coordinamento e controllo, ancorché
di co-finanziamento in misura minore attraverso il
Fondo per le politiche sociali (21).
Riscontro preciso di tutto ciò si
è avuto, peraltro, nell’assenza di specifiche risorse dedicate all’argomento
(si vedano le ultime leggi finanziarie in proposito).
Nonostante ciò, la
sperimentazione del decreto n. 237 del 1998 è stata prorogata per via dei fondi
non ancora completamente utilizzati, nonché a seguito
della mobilitazione soprattutto dei cittadini interessati (22).
La legge finanziaria per il 2004
ha previsto l’introduzione del reddito di ultima
istanza – pur confermando che lo Stato concorre al finanziamento delle Regioni
che lo istituiscono – ma anche in questo caso senza impegni specifici di spesa
(23).
Tutte queste vicissitudini
normative forniscono il substrato dal quale sboccia la legge campana sul reddito
di cittadinanza, che prende corpo pertanto quale autonoma iniziativa regionale.
La legge della
Regione Campania sul reddito di cittadinanza
Innanzitutto la legge regionale 2/2004
rinnova la denominazione del provvedimento in reddito di cittadinanza (a livello
nazionale, ricordiamo, la denominazione prevista è reddito di ultima istanza,
peraltro già reddito minimo di inserimento).
Altresì, considera tale sussidio
uno strumento per affermare «un diritto
sociale fondamentale». E si
preoccupa di stabilire che «il reddito di
cittadinanza rientra nei livelli essenziali delle prestazioni sociali da
garantire su tutto il territorio nazionale nell’ambito delle politiche di inclusione e coesione sociale promosse dalla Unione
europea» (24).
Le premesse appaiono confortanti,
poiché si fa riferimento a diritti e garanzie.
Ma già al comma 3 dell’articolo 1
apprendiamo che – anche questa volta, seppur nell’ambito regionale campano –
abbiamo a che fare con un’altra sperimentazione. Dopo anni di tentativi – vuoi
a livello locale, vuoi a livello nazionale – ci
chiediamo che cosa rimanga ancora da sperimentare.
Invero, la sperimentazione dà
soprattutto opportunità alla Giunta regionale di soprassedere ad una completa
copertura degli stanziamenti.
Difatti, a dispetto dei diritti
dichiarati (cfr. l’articolo
1), la norma prevede all’articolo 7 che «la
Giunta della Regione ripartisce» le risorse «sulla base delle disponibilità di bilancio». Le disponibilità di
bilancio condizionano quindi il diritto all’accesso alla prestazione
(provvedimento peraltro dichiarato giustamente urgente all’articolo 10)
trasformandolo di fatto in un diritto non
effettivamente esigibile. Non siamo dunque in presenza
di un diritto soggettivo (25).
A chi si rivolge il
provvedimento? Al riguardo il 1° comma dell’articolo 2
stabilisce quanto segue: «Il reddito di
cittadinanza come misura di contrasto alla povertà e all’esclusione e come
strumento teso a favorire condizioni efficaci di inserimento
lavorativo e sociale» è assicurato (sempre in funzione delle disponibilità
di bilancio, come visto poc’anzi) «ai residenti comunitari ed extracomunitari
da almeno sessanta mesi nella Regione Campania che si trovano nelle condizioni
di cui all’articolo 3».
Il comma 2 dell’articolo 2
riferisce sul previsto importo erogato «che
fa riferimento alle persone nel contesto del nucleo
familiare» e che «consiste in una
erogazione monetaria che non supera i 350,00 euro mensili per nucleo familiare»
(26).
Pertanto, ciascun nucleo
familiare può essere beneficiario di uno e un solo trasferimento monetario pari
a 350 euro al mese.
Hanno diritto «all’erogazione monetaria di cui al reddito
di cittadinanza i componenti delle famiglie
anagrafiche con un reddito annuo inferiore ad euro 5.000».
Interessante, a dire il vero,
appare la norma prevista per il calcolo del reddito, che nella fattispecie è precisata dal relativo regolamento (cfr.
la precedente nota 2). In tale provvedimento si
prevede all’articolo 3 che «per la
determinazione del valore del reddito (…) è utilizzato il valore più alto tra quello risultante dalla certificazione Isee
(Indicatore della situazione economica equivalente, n.d.r.)
prodotta e quello risultante dalla
elaborazione della formula di cui al comma 2» (27).
Pertanto si utilizzano sia l’Isee (28) sia il reddito presunto calcolato sulla base di un computo dei consumi; si confrontano i due
risultati e il più alto viene considerato ai fini dell’ammissione nella
graduatoria di ambito territoriale.
In Campania, dove in particolare,
com’è noto, è diffuso il fenomeno del lavoro nero (29), risulta
evidente che affidarsi esclusivamente allo strumento dell’Isee
poteva generare risultati non corretti.
Difatti, l’Isee, tra le altre cose, ha il limite di
essere ancorato alle dichiarazioni fiscali: laddove vi fossero redditi sommersi
l’indicatore non ne terrebbe conto, permettendo così di usufruire di
agevolazioni che non spetterebbero (30).
Sempre il regolamento chiarisce
inoltre (cfr. art. 2, comma
2) che «ai fini dell’accesso al reddito
di cittadinanza, si considerano residenti i senza fissa dimora domiciliati in
uno dei Comuni della Regione da almeno 60 mesi alla data della pubblicazione
della legge regionale, o in mancanza di domiciliazione
e qualora non abbiano domicilio in altro comune d’Italia, nati in uno dei comuni
della Regione».
Sono i singoli Comuni ad assicurare «la gestione delle erogazioni relative al
reddito di cittadinanza» (articolo 4, comma 1). Altresì «l’organizzazione e la gestione della misura
del reddito di cittadinanza è programmata all’interno
dei piani sociali di zona» (articolo 4, comma 2).
Insieme all’erogazione monetaria,
il reddito di cittadinanza è costituto anche da «specifici interventi mirati all’inserimento scolastico, formativo e
lavorativo dei singoli componenti delle famiglie
anagrafiche (…) senza limiti di numero» (cfr. articolo 3 comma 2).
Pertanto, se l’intervento
monetario non può superare i 350 euro mensili per nucleo familiare, gli
interventi di cui sopra appaiono invece estesi a tutti i componenti
del nucleo stesso (sempre, però, sulla base delle risorse disponibili).
Di seguito l’elenco degli
interventi previsti (cfr. articolo
6, comma 2 della legge regionale 2/2004):
«a) sostegno alla scolarità nella fascia d’obbligo, in particolare per
acquisto libri di testo;
b) sostegno alla scolarità e alla formazione degli
adolescenti e dei giovani, in particolare per acquisto libri di testo;
c) accesso gratuito ai servizi sociali e socio-sanitari;
d) misure tese a promuovere l’emersione del lavoro irregolare o l’avvio
all’auto-impiego attra-
verso percorsi che permettono l’utilizzo di risorse regionali;
e) misure tese a promuovere l’accesso ai dispositivi della politica del
lavoro regionale indirizzati alla formazione e di incentivo
all’occupazione;
f) agevolazioni per l’uso dei trasporti pubblici regionali;
g) sostegno alle spese di affitto;
h) inserimento nelle attività culturali».
L’articolo 6, comma 3, stabilisce
che le misure sopra riportate debbano essere
maggiormente articolate nel relativo regolamento (previsto all’articolo 3). Di
fatto, occorre notare, il regolamento si limita a ripetere quasi identicamente
le sopra citate misure senza dettagliare le modalità e i criteri per la loro
erogazione (31).
L’articolo 8 stabilisce al comma 5 che «la
sperimentazione (…) ha durata triennale. Alla scadenza della
sperimentazione la Giunta regionale, sulla base dei risultati conseguiti,
delibera, previo parere favorevole delle Commissioni consiliari
competenti, l’eventuale prolungamento dell’efficacia della legge».
Le risorse attualmente
stanziate dalla regione Campania per il reddito di cittadinanza ammontano a 77
milioni di euro. Diviso 350 euro per 12 mensilità, la somma
assegnata può “soddisfare” circa 19 mila famiglie campane, mentre quelle in
stato di povertà assoluta risulterebbero essere molte di più, all’incirca 150
mila (32).
Le domande per ottenere il
sussidio erano da presentare al Comune di residenza su scheda predefinita entro
il 9 dicembre 2004. Il Comune controlla le condizioni di ammissibilità
in particolare per quanto riguarda il reddito. A seguire la graduatoria
definitiva degli aventi diritto (prodotta entro il 10
marzo 2005).
Alcune considerazioni
Come ricorda Giovanni Sarpellon: «i poveri
non sono più i mendicanti, i disgraziati, i menomati descritti nei romanzi
dell’Ottocento»; si tratta invece di
«persone che vivono in mezzo a noi, come noi, nella casa accanto. Sono quelli
che, nella corsa verso il
benessere, sono rimasti indietro» (33).
La povertà odierna è un fenomeno
complesso, frutto di molteplici variabili, non solo
strettamente economiche, ma anche sociali, relazionali, ecc.
Come riportato più volte su Prospettive assistenziali,
per la risoluzione di situazioni di disagio, non sono sempre necessari aiuti
particolari dei servizi socio-assistenziali; spesso è sufficiente che i settori
fondamentali (lavoro, sanità, casa, scuola, trasporti, ecc.) non escludano
nessuno.
Se non si opera
perché i servizi fondamentali siano usufruiti da tutta la popolazione,
inevitabilmente i servizi socio-assistenziali assumono
il ruolo di gestori dell’emarginazione e dell’esclusione sociale. Come sta
avvenendo, per esempio, citando solo le situazioni più eloquenti, per i malati di Alzheimer, per gli anziani cronici non autosufficienti,
per i pazienti psichiatrici con limitata o nulla autonomia rifiutati dalla
sanità e per i soggetti handicappati e quelli cosiddetti svantaggiati in grado
di svolgere proficuamente attività lavorativa, ma non inseriti nelle normali
aziende private e pubbliche e collocati nelle cooperative sociali.
Ad esempio,
l’emarginazione degli anziani cronici non autosufficienti (il cui numero può
essere calcolato in 500/800 mila) può essere vinta solamente quando le
autorità, assieme agli operatori, i sindacati e le altre forze sociali
riconosceranno che si tratta di persone malate che hanno diritto, come
prevedono le leggi vigenti e soprattutto conformemente alle loro esigenze, alle
cure sanitarie e socio-sanitarie senza limiti di durata.
Ricordiamo, per
esempio, le situazioni di povertà che sono provocate dal trasferimento
illegittimo di pazienti cronici dalla sanità all’assistenza. La devastante
caduta in povertà delle famiglie, causata in larga misura dalla richiesta di
contributi economici avanzata illegalmente dagli enti pubblici, in particolare
dai Comuni, ai parenti dei soggetti con handicap intellettivo in situazione di
gravità ed agli ultrasessantacinquenni colpiti da
patologie invalidanti e da non autosufficienza o dalla malattia di Alzheimer o da altre forme di demenza senile.
Come risulta dal documento “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali” predisposto nell’ottobre
2000 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio del Ministro per la
solidarietà sociale «nel corso del 1999,
2 milioni di famiglie italiane sono scese sotto la soglia della povertà a
fronte del carico di spese sostenute per la “cura” di un componente affetto da
una malattia cronica».
Altresì, al fine di
combattere la povertà causata dalla richiesta illegale di contributi economici
ai parenti degli assistititi, sarebbe finalmente
auspicabile che i Comuni applicassero correttamente la normativa in vigore e
rispettassero i diritti dei cittadini più deboli. Ricordiamo in proposito
l’intervento del Difensore civico della Regione Campania, avv. Giuseppe
Fortunato, in data 23 dicembre 2002, per «richiamare
i Comuni al rispetto della normativa sul pagamento delle prestazioni assistenziali» e in particolare «a rappresentare ai Comuni della Campania l’illegittimità di richiedere
ai parenti degli anziani ultrasessantacinquenni il
pagamento delle prestazioni assistenziali e delle rette di ricovero».
L’invito è stato anche comunicato al Ministero della Salute e all’Assessore
alla sanità della Regione Campania “per ogni opportuna attività” (34).
Appare dunque
abbastanza chiaro che gli interventi diretti di sostegno, quali le riparazioni
monetarie alla carenza di reddito, non possano essere
oggi né l’unica risposta né la prioritaria al problema povertà.
Occorre ripartire
dal riconoscimento dei diritti, da quelli legati alla tutela della salute anche
per le fasce più deboli e per chi non è in condizioni economiche agiate, a
quelli legati alle prestazioni familiari (aiuti – servizi e prestazioni
– alle famiglie con figli a carico), a quelle legate alla disoccupazione, ecc.
All’uopo, il reddito
minimo non deve essere visto come elemento sostitutivo o integrativo di tutte
le altre necessarie prestazioni, vuoi delle misere
pensioni di inabilità, vuoi delle indennità di disoccupazione, oppure a
copertura di prestazioni – come quelle sanitarie – che dovrebbero essere
fornite ai cittadini e in maniera gratuita agli indigenti.
Per quanto riguarda invece il
problema del lavoro, soprattutto nelle aree depresse come quella campana, e più
in generale del Sud, sarebbe assai auspicabile un intervento di tipo
sovra-regionale per favorire l’occupazione nel Mezzogiorno, per rilanciare
l’economia, nonché per contrastare il sommerso e
l’economia mafiosa (35).
Conclusioni
La legge 2/2004
della Regione Campania introduce a livello locale un importante strumento di
lotta alla povertà. Essa prevede l’erogazione di una prestazione di tipo
monetario, nonché l’assegnazione di alcuni supporti
volti al reinserimento sociale (di tipo scolastico, lavorativo, ecc.).
Gli appunti che
possiamo muoverle sono essenzialmente i seguenti:
– non c’è copertura
totale degli aventi diritto, in quanto vi è una
discrezionalità all’intervento dovuta agli stanziamenti di bilancio non
vincolati. E ciò avviene sia in riguardo all’erogazione monetaria sia al
riguardo degli interventi di inserimento o
re-inserimento previsti;
– l’importo monetario massimo
previsto per il reddito di cittadinanza, pari – ripetiamo – a 350 euro mensili,
appare misero. Occorre ricordare che la soglia di povertà assoluta nel 2002 era
pari a 382,66 euro/mese per una persona singola, per giungere poi a 1031,77 per
un nucleo di quattro componenti. Dunque
il reddito minimo di cittadinanza è minore dell’importo che caratterizza la
soglia della povertà assoluta. Da notare che l’importo rimane fisso in quanto
non è modulato in funzione del numero dei componenti
del nucleo familiare; invece, la sperimentazione avvenuta col decreto n. 237
del 1998 prevedeva – nel 1998 – un importo minimo di 258 euro per un soggetto
singolo che poi veniva modulato secondo una scala di equivalenza (36). Da
notare ancora che se il reddito annuo del nucleo familiare, i cui componenti – uno o più – richiedono il reddito di
cittadinanza, è zero oppure 4999 euro, l’importo dell’erogazione monetaria non
muta, cioè è sempre pari a 350 euro/mese;
– la definizione degli
interventi, che unitamente alla prestazione monetaria devono essere erogati al
fine di contribuire a superare lo stato di povertà del nucleo familiare
interessato, è definita in maniera abbastanza superficiale.
Visto che si tratta di una
sperimentazione è auspicabile che le osservazioni sopra riportate trovino
adeguato recepimento nella fase di messa a regime
della legge.
In ogni caso occorre concludere che la legge 2/2004 della Regione Campania appare
una misura di contrasto alla povertà di una certa rilevanza, anche in
considerazione – purtroppo – della vacuità normativa e, pertanto, dello scarso
impegno che in proposito continuano a regnare a livello nazionale.
(1) Legge regionale n. 2 del 19 febbraio 2004
“Istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza”, pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione
Campania n. 8 del 23 febbraio 2004.
(2) Regolamento consiliare n. 1/2004 “Regolamento di
attuazione della legge regionale 19 febbraio 2004, n. 2 concernente
‘Istituzione in via sperimentale del reddito di cittadinanza” pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione
Campania n. 28 del 7 giugno 2004.
(3) Si tratta delle seguenti disposizioni pubblicate sul Bollettino ufficiale della Regione
Campania n. 53 del 10 novembre 2004:
-
deliberazione n. 1586 del 20 agosto 2004 “Istituzione in via sperimentale del
reddito di cittadinanza - Approvazione bando, linee guida per le procedure di attuazione, indicazioni per la corretta applicazione e
per l’approvazione del modulo. Definizione delle percentuali per il riparto
fondi fra gli ambiti della Regione”;
- decreto dirigenziale n. 186 del 18 ottobre 2004 “Approvazione del modulo
di domanda per l’accesso alla sperimentazione del reddito di cittadinanza di cui alla legge regionale n. 2/2004”.
(4) Peraltro lo stesso articolo 4 ricorda che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
(5) A nostro avviso, sino a quando non vi sarà una
completa raccolta dei dati reddituali e patrimoniali,
l’analisi della povertà potrà difficilmente essere effettuata sulla base delle
cosiddette “entrate”. Difatti ad oggi la dichiarazione dei redditi in Italia,
sorprendentemente, non è centrata anche sulla denuncia del valore dei patrimoni
posseduti e delle relative acquisizioni. Cfr. “È
povero anche chi non ha redditi ma possiede
patrimoni?”, Prospettive assistenziali,
n. 117, 1997. Altresì: “Come viene fatta la
dichiarazione dei redditi e dei beni in Svizzera”, Ibidem, n. 118, 1997.
(6) Cfr. Note rapide, Istat, anno 8, n.
2, 22 luglio 2003.
(7) Scrive infatti l’Istat
nel rapporto “Povertà relativa in Italia nel 2003. Famiglia e società.
Statistiche in breve”, Istat, 13 ottobre 2004: «A partire dal 2000 l’Istat ha condotto una serie di
attività di carattere metodologico e di analisi per la verifica del paniere di
povertà assoluta, che dovrebbe essere rivisto entro dieci anni, come suggerisce
anche la letteratura internazionale. I risultati ottenuti – propedeutici alla
rivisitazione del paniere della povertà assoluta – e la riflessione sulla
metodologia utilizzata ne hanno messo in evidenza
alcuni limiti, come ad esempio l’opportunità di includere i costi per i servizi
sanità e istruzione e di utilizzare indici di variazione dei prezzi per singole
categorie di beni ai fini dell’aggiornamento del valore monetario del paniere (cfr. su ww.istat.it
“La metodologia della povertà assoluta”, Istat.
2004). Pertanto l’Istat ha costituito una nuova
commissione di studio, coordinata dal prof. Livi Bacci, chiamata a rivedere la metodologia, garantendo il
carattere di minimalità del paniere di beni e
servizi, aggiornandone la sua composizione, includendo/escludendo beni e
servizi che acquistano/perdono carattere di essenzialità
e rivedendone il valore monetario anche alla luce dei cambiamenti normativi. L’Istat, nel 2003, interrompe quindi la pubblicazione della
stima della povertà assoluta basata sulla vecchia metodologia e pubblicherà le
nuove stime a conclusione dei lavori della commissione e della definizione
della nuova metodologia». In un comunicato stampa del 14 ottobre 2004 l’Adusbef (Associazione difesa utenti servizi bancari
finanziari postali e assicurativi) ha riferito quanto segue (cfr. www.adusbef.it): «Tale
avvertenza, scritta in caratteri microscopici in calce alla prima pagina,
dimostra che negli anni scorsi l’Istat ha raccontato
favole agli italiani in ordine al numero dei poveri,
non diminuiti ma cresciuti in valori assoluti di ben 800.000 unità nel 2002,
perché il “paniere della povertà assoluta”, non tiene conto delle spese per la
sanità, l’istruzione ed i servizi socio-assistenziali, ipotizzando che i poveri
ne usufruiscano gratuitamente! La soglia di povertà, vale a dire la spesa per
l’acquisto di un paniere di 42 tra beni e servizi essenziali (predeterminati
dall’Istat), viene
rivalutata annualmente dal 1997, non sulla base di indici specifici dei prezzi
per le singole componenti, ma utilizzando la variazione dell’indice generale
dei prezzi al consumo, che include, quindi, la totalità dei prodotti osservati,
compresi quelli relativi ai consumi ritenuti non di prima necessità. Tale
metodologia sbagliata ammessa implicitamente dall’Istat,
era stata messa alla berlina da un approfondito studio del sindacato della
ricerca pubblicato sul suo sito www.usirdbricerca.it e sul sito www.adusbef.it
dal 1° luglio scorso, perché a fronte di una variazione dal 1997 al 2003 del
14,7 per cento per la generalità dei prezzi al consumo, i prezzi di alcuni beni e servizi essenziali avevano fatto registrare
variazioni ben superiori: patate (+47,9%), merluzzi (+33,8%), ortaggi (+29%),
frutta (+27,9%), sogliole (+26,4%), affitti delle abitazioni (+19,7%).
Rimuovendo questi fattori distorsivi, l’analisi –
condotta utilizzando esclusivamente dati Istat – ha
evidenziato che il numero di nuclei familiari che nel 2002 si trovavano in
condizioni di povertà assoluta era pari a 1.200.000, il 5,4% del totale delle
famiglie residenti, oltre 250.000 famiglie in più
rispetto ai valori diffusi dall’Istat. A loro volta,
gli individui poveri erano più di 3.700.000, pari al 6,5 %
della popolazione residente, un numero superiore di 800.000 unità rispetto alle
stime dell’Istat. Nel 2002 e 2003, vale a dire da quando è stato introdotto l’euro, le famiglie in
condizioni di maggiore disagio economico hanno subito una inflazione molto più
alta della media. Adusbef e Codacons,
che continuano a stigmatizzare le favole raccontate
dall’Istat, ritengono che misurando con criteri
corretti ed oggettivi gli indici di povertà, il totale delle famiglie che sono
state spinte a vivere nella povertà assoluta, sia per la rincorsa sfrenata agli
aumenti con il pretesto dell’euro che per le colpevoli omissioni del Governo
nel controllo dei prezzi nel biennio 2002-2003, sia aumentato di ben 1,5
milioni e non diminuiti, come l’Istituto di statistica, che continua ad
utilizzare il metodo “trilussiano”, vorrebbe far
credere».
(8) Cfr. “Povertà relativa
in Italia nel 2003. Famiglia e società. Statistiche in
breve”, Istat,
13 ottobre 2004.
(9) Cfr. “Politiche
familiari e prestazioni sociali”, Giovanni B. Sgritta,
Prospettive assistenziali,
n. 110, 1995.
(10) Peraltro nell’area dell’Unione europea soltanto
l’Italia e la Grecia sono i Paesi tuttora privi di un sistema nazionale di
protezione espressamente diretto a coloro che vivono sotto la soglia della
povertà. A fronte di questa assenza esistono da molti
anni alcune misure di assistenza sparse a livello locale (come per esempio
quelle relative al minimo vitale), con carattere però forzatamente disomogeneo
in assenza di norme nazionali di riferimento.
(11) Cfr. Prospettive assistenziali, n. 123, 1998, ove è stato
riportato il testo integrale del decreto legislativo 18 giugno 1998 n. 237
“Disciplina dell’introduzione in via sperimentale, in talune aree,
dell’istituto del reddito minimo di inserimento, a norma dell’articolo 59,
commi 47 e 48, della legge 23 dicembre 1997, n. 449”.
(12) Peraltro non si comprendono i motivi reali della
necessità di una sperimentazione, visto che vi sono numerosi Comuni che da
molti anni procedono al versamento di danaro ai nuclei familiari in difficoltà
e alle persone singole con redditi insufficienti, garantendo in tal modo il
minimo necessario economico per vivere. Per esempio, Comuni
come Torino (1978), Ancona (1981), Catania (1983) e Milano (1989) hanno
introdotto il minimo vitale negli anni indicati.
(13) Abbiamo
già rilevato che tale iniziativa fu assunta, però, senza tener conto delle
esperienze già maturate dai Comuni, loro Consorzi e da Comunità montane, alcune
delle quali avviate anche vent’anni fa. Osserviamo
inoltre che l’importo di 500 mila delle ex lire, indicato nel
decreto 237/1998 quale «soglia
della povertà» appare sicuramente insufficiente per garantire il minimo
indispensabile per vivere. Al riguardo, segnaliamo per esempio che il Comune di
Torino fin dal 1978 ha assunto quale livello base del minimo vitale l’importo
della pensione minima di vecchiaia erogata dall’Inps. A questa cifra si aggiunge poi il rimborso delle
spese d’affitto (con un tetto massimo mensile), nonché
un contributo per il riscaldamento. Dunque, per i
torinesi il minimo vitale mensile è assai maggiore (circa il doppio)
dell’importo stabilito dal decreto legislativo 237/1998. Cfr.
“Parte male la sperimentazione relativa al reddito
minimo di inserimento”, Prospettive
assistenziali, n. 124, 1998. Ricordiamo che il decreto suddetto prevede che
lo Stato partecipi per un importo minimo pari al 90% ed i Comuni per un importo
complementare fino al 10%.
(14) Peraltro, non si comprende per quali seri motivi
il sussidio economico venga erogato ai proprietari dell’alloggio in cui vivono.
Per evidenti ed elementari ragioni di giustizia a coloro che
posseggono beni immobili e non dispongono di redditi, non dovrebbero
essere concessi contributi a fondo perduto, ma esclusivamente prestiti che i
beneficiari dovrebbero essere tenuti a rimborsare appena abbiano risolto le
loro difficoltà economiche oppure, per esempio, in occasione della apertura
della loro successione. Cfr. “Parte male la
sperimentazione relativa al reddito minimo di
inserimento”, Prospettive assistenziali,
n. 124, 1998.
(15) Cfr. “Valutazione
della sperimentazione dell’istituto del reddito minimo di inserimento
e valutazioni tematiche della sperimentazione”, Irs -
Istituto per la ricerca sociale, Centro studi e formazione sociale della
Fondazione E. Zancan, Cles
- Centro di ricerca e studi sui problemi del lavoro, dell’economia e dello
sviluppo, Roma, maggio 2001. Il rapporto avrebbe dovuto essere oggetto di
relazione al Parlamento da parte del Ministro del Welfare ma ciò ad oggi non è
ancora avvenuto.
(16) Cfr. S. Sacchi, “Reddito minimo e politiche di contratto alla
povertà in Italia”, Urge - Unità di ricerca sulla governance europea,
n. 1/2005.
(17) Cfr. Chiara Saraceno, “Quando mancano gli standard
minimi”, 19 dicembre 2002, www.lavoce.info
(18) Legge 8 novembre 2000, n. 328 “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali” pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 265 del 13
novembre 2000, supplemento ordinario (cfr. Prospettive assistenziali,
n. 130, 2000). Peraltro la riforma costituzionale dell’ottobre 2001 (Legge
costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001) ha attribuito la competenza esclusiva
alle Regioni in materia di assistenza sociale (ad
eccezione della «determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Cfr. Costituzione, art. 117, comma m).
Spettano altresì allo Stato i poteri sostitutivi «nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della
normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza
pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Cfr. Costituzione,
art. 120.
(19) Art. 23 (Reddito
minimo di inserimento). «1. L’articolo 15
del decreto legislativo 18 giugno 1998, n. 237, è sostituito dal seguente: “Art. 15. - (Estensione del reddito minimo di inserimento). - 1. Il Governo, sentite la Conferenza
unificata di cui all’articolo 8 del decreto
legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e le organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative, riferisce al Parlamento, entro il 30 maggio 2001,
sull’attuazione della sperimentazione e sui risultati conseguiti. Con
successivo provvedimento legislativo, tenuto conto dei risultati della
sperimentazione, sono definiti le modalità, i termini e le risorse per
l’estensione dell’istituto del reddito minimo di inserimento
come misura generale di contrasto della povertà, alla quale ricondurre anche
gli altri interventi di sostegno del reddito, quali gli assegni di cui
all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e le pensioni
sociali di cui all’articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, e successive
modificazioni”. 2. Il reddito minimo di inserimento di cui all’articolo 15 del decreto
legislativo 18 giugno 1998, n. 237, come sostituito dal comma 1 del presente
articolo, è definito quale misura di contrasto della povertà e di sostegno al
reddito nell’ambito di quelle indicate all’articolo 22, comma 2, lettera a),
della presente legge».
(20) Cfr. M. G. Breda, D. Micucci, F. Santanera,
“La riforma dell’assistenza e dei servizi
sociali - Analisi della legge 328/2000 e proposte attuative”, Utet Libreria, Torino, 2001.
(21) Il “Patto per l’Italia. Contratto di lavoro.
Intesa per la competitività e l’inclusione sociale”, è l’accordo tra il Governo e le parti
sociali (ad esclusione della Cgil) firmato il 5
luglio del 2002. Il punto 2.7. titolato “Il sostegno al reddito di ultima istanza” così recita: «Il sistema di sostegno al reddito verrà
completato da uno strumento di ultima istanza, caratterizzato da elementi solidaristici e finanziato dalla fiscalità generale. La
sperimentazione del reddito minimo di inserimento ha
consentito di verificare l’impraticabilità di individuare attraverso la legge
dello Stato soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di sicurezza
sociale. Appare perciò preferibile realizzare il cofinanziamento,
con una quota delle risorse del Fondo per le politiche sociali, di programmi
regionali, approvati dall’amministrazione centrale, finalizzati a garantire un
reddito essenziale ai cittadini non assistiti da altre misure di integrazione del reddito. L’amministrazione centrale avrà
un ruolo di coordinamento e di controllo sull’andamento e sui risultati dei
programmi medesimi. L’eventuale prosecuzione dell’esperimento relativo al reddito minimo di inserimento dovrà essere
coerente con le finalità sopra descritte e con gli obiettivi di contrasto
dell’economia sommersa».
(22) Nell’ottobre 2002 il termine venne posticipato
al 31 dicembre 2004 (cfr. l’art.
5 del decreto legge n. 236 del 25 ottobre 2002). Da ultimo un recente
emendamento approvato alla Camera dei Deputati il 3 marzo 2005 ha previsto un ulteriore slittamento al 30 aprile 2006.
(23) Legge 350 del 24 dicembre 2003, art. 3, n. 101:
«Nei limiti delle risorse preordinate
allo scopo dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali nell’ambito del
Fondo nazionale per le politiche sociali di cui all’articolo 59, comma 44,
della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, e detratta
una quota fino a 20 milioni di euro per l’anno 2004 e
fino a 40 milioni di euro per ciascuno degli anni 2005 e 2006 da destinare all’ulteriore
finanziamento delle finalità previste dall’articolo 2, comma 7, della legge 27
dicembre 2002, n. 289, nonché una quota di 15 milioni di euro per ciascuno
degli anni 2004, 2005 e 2006 da destinare al potenziamento dell’attività di
ricerca scientifica e tecnologica, lo Stato concorre al finanziamento delle
Regioni che istituiscono il reddito di ultima istanza quale strumento di
accompagnamento economico ai programmi di reinserimento sociale, destinato ai
nuclei familiari a rischio di esclusione sociale ed i cui componenti non siano
beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro».
(24) L’articolo 1 della legge regionale 2/2004 è così
redatto: «1. La Regione Campania
considera il reddito di cittadinanza una prestazione concernente
un diritto sociale fondamentale. 2. Il reddito di cittadinanza rientra
nei livelli essenziali delle prestazioni sociali da garantire su tutto il
territorio nazionale nell’ambito delle politiche di inclusione
e coesione sociale promosse dalla Unione europea. 3. La Regione Campania, nel
quadro delineato dai commi 1 e 2, avvia una
sperimentazione sul territorio regionale del reddito di cittadinanza».
(25) Per l’approfondimento del significato, talvolta
abusato, di diritto soggettivo si rimanda all’articolo “La scuola dei diritti -
Diritto alla salute, ai servizi sociali, all’assistenza. Aspetti costituzionali
ed operativi”, Roberto Carapelle, Prospettive assistenziali,
n. 108, 1994.
(26) Se appare positivo il riferimento al nucleo
familiare (ambito più esteso che non il riferimento alla famiglia unita da
vincolo di matrimonio) non è certamente adeguato l’importo previsto di 350 euro
al mese.
(27) La
formula utilizzata è la seguente:
X = 1,35 x (Ut. tel. +
Ut. elettr. +
dove:
X = valore dell’indicatore di
reddito annuo stimato;
Ut = valore dei consumi (in
euro) relativi alle utenze dell’anno solare precedente alla scadenza del
termine per la presentazione della domanda relativa a
telefonia, elettricità, gas;
A = valore dei consumi presunti
in relazione alla proprietà di automobili. A acquista un valore pari a 5000 euro se l’auto è di
cilindrata superiore a 1401 cc. ed è stata
immatricolata nei 4 anni precedenti a quello di riferimento ai fini
dell’accesso al reddito; 4000 euro se di cilindrata compresa tra 801 e 1400 cc. ed immatricolata nei 4 anni antecedenti a quello di
riferimento; 3000 euro se di cilindrata inferiore a 800 cc.
e immatricolata nei 4 anni antecedenti; alle auto immatricolate negli anni
precedenti ai 4 di cui sopra si attribuisce un valore di 2000 euro;
M = valore dei consumi presunti
in relazione alla proprietà di motocicli. M avrà
valore di 1000 euro se il motociclo è stato immatricolato nei 4 anni precedenti
a quello di riferimento e la cilindrata del veicolo è di 125 cc.; avrà valore di 2000 euro se
l’immatricolazione è avvenuta nei 4 anni precedenti a quello di riferimento e
la cilindrata è compresa fra i 125 e i 300 cc.;
infine avrà il valore di 3000 euro se l’immatricolazione è avvenuta nei 4 anni
precedenti a quello di riferimento e la cilindrata supera i 301 cc.; per i motocicli immatricolati anteriormente ai 4 anni
precedenti a quello di riferimento M assume valore di 500 euro;
AB = valore dei consumi
presunti in relazione all’abitazione in cui si vive.
Per coloro che sono proprietari di unità immobiliari
AB avrà valore uguale all’importo dell’Ici dovuto moltiplicato per il seguente
coefficiente (1000 : aliquota Ici) x (7 : 1000); per coloro che conducono in
locazione unità abitative si indica l’importo annuale corrisposto per il canone
detraendo l’importo in franchigia di 3.787,00 euro; per i canoni annuali uguali
o inferiori all’importo di € 3.787,00, AB ha valore pari a zero;
S = valore del parametro della
scala di equivalenza utilizzata per la determinazione
dell’Isee ai sensi del decreto legislativo n.109/1998 e successive modificazioni e integrazioni, come
di seguito determinato:
Componenti nucleo familiare Valore
di S
1 1,00
2 1,57
3 2,04
4 2,46
5 2,85
Il parametro S viene poi maggiorato nei seguenti casi: + 0,35 per ogni
ulteriore componente del nucleo familiare; + 0,20 in caso di presenza nel
nucleo di un solo genitore e figli minori; + 0,50 per ogni componente con
handicap psicofisico permanente di cui all’art. 3, comma 3, della legge n.104/1992 o d’invalidità superiore al 66%; + 0,20 per i
nuclei familiari con figli minori in cui entrambi i genitori svolgono attività
di lavoro o d’impresa. La maggioranza spetta quando i
genitori risultino titolari di reddito per almeno 6 mesi nel periodo afferente
la dichiarazione sostitutiva. Spetta al nucleo composto da
un genitore ed un figlio minore, purché il genitore dichiari un reddito di
lavoro dipendente o di impresa per almeno 6 mesi.
(28) L’Isee è stato
introdotto dai decreti legislativi 109/1998 e 130/2000. Il testo unificato è
stato pubblicato sul numero 138, 2000 di Prospettive
assistenziali.
(29) La stima del lavoro sommerso nel napoletano va
dal 25 al 33%, secondo il prof. Ugo Marani
dell’Istituto campano di ricerche economiche e sociali (cfr.
l’articolo “Qui uno su dieci è pagato dai clan. Ecco
il libro mastro della camorra”, la
Repubblica, 24 gennaio 2005).
(30) Il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109
“Definizioni di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei
soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate, a norma dell’articolo
59, comma 51, della legge 27 dicembre 1997, n. 449” integrato con le modifiche ed aggiunte
riportate dal decreto legislativo 3 maggio 2000, n. 130 stabilisce all’articolo
2 comma 4 quanto segue: «L’indicatore
della situazione economica è definito dalla somma dei redditi, come indicato
nella parte prima della tabella 1. Tale indicatore del reddito è combinato con
l’indicatore della situazione economica patrimoniale nella misura del venti per cento dei valori patrimoniali, come definiti
nella parte seconda della tabella 1». Pertanto nell’applicazione dell’Isee i Comuni sono autorizzati a tenere in considerazione i
patrimoni immobiliari posseduti da coloro che richiedono
le prestazioni sociali agevolate per un importo del 20%. Inoltre
devono tenere in considerazione i beni mobiliari.
(31) L’articolo 8 del regolamento di cui alla nota 2,
al comma 3 riporta quanto segue: «3. Le
misure di cui al comma 2 dell’articolo 6 della legge regionale n. 2/2004 sono
così articolate: a) integrazione delle risorse finanziarie destinate ai Comuni
per la gratuità dei libri di testo; b) accesso a percorsi di integrazione
fra istruzione e formazione ed a percorsi di recupero dell’obbligo scolastico;
c) accompagnamento alla fruizione degli interventi e dei servizi attivati ai
sensi della legge n. 328/2000 e dei successivi provvedimenti regionali di
attuazione; d) attivazione di misure specifiche per l’auto-impiego e
l’emersione dal lavoro nero; e) attivazione di una riserva nell’ambito delle
attività formative programmate ordinariamente, riguardante tutte le diverse
tipologie di attività formative; f) assegnazione di risorse al Consorzio unico
Campania per le politiche tariffarie dei trasporti; g) attribuzione di priorità
nell’ambito delle politiche di contrasto dell’emergenza abitativa attivate
dalla Regione Campania e dai Comuni, con incremento sino al 15% del contributo
previsto ai sensi della legge 9 dicembre 1998, n. 431; h) riduzione
sull’acquisto dell’art-card e facilitazioni per le manifestazioni culturali
promosse dalla Regione».
(32) Elaborando i dati tratti dalle raccolte Istat 2002 (popolazione residente in Campania: 5.725.098
unità; numero medio di componenti: 3,1 unità per famiglia (il dato regionale
più alto d’Italia); tasso di povertà assoluta in % delle famiglie: 8,9%) si può
ricavare il numero delle famiglie in povertà assoluta (150 mila).
(33) Cfr. “La povertà non è
né di destra né di sinistra”, Giovanni Sarpellon, Avvenire, 18 luglio 2002, ripreso in Prospettive assistenziali, n. 140, 2002. Peraltro, afferma Sarpellon «da poco
più di vent’anni anche in Italia viene
misurata la diffusione della povertà fra le famiglie» e nonostante che «in vent’anni il
benessere è continuamente aumentato nel nostro paese» constata che «anno dopo anno le statistiche danno,
grosso modo, gli stessi risultati».
(34) Cfr. “Continua
l’imposizione illegittima di contributi economici ai congiunti dei soggetti con
handicap grave e degli ultrasessantacinquenni non
autosufficienti”, Francesco Santanera, Prospettive assistenziali,
n. 141, 2003.
(35) “La mafia fattura mille miliardi. L’allarme di
Vigna. La presenza nel Sud di una ‘economia mafiosa’ impedisce lo
sviluppo nel meridione e la crescita delle imprese”, La Stampa, 20 gennaio 2005. Altresì, il rapporto 2005 dell’Eurispes sullo stato del Paese riporta l’incidenza
dell’economia sommersa al 28% del Pil (Prodotto
interno lordo), pari a 302 miliardi di euro,
unitamente all’evasione fiscale pari nel 2004 a 134 miliardi, che nel 2005 saliranno,
secondo stime, a 145 miliardi di euro.
(36) Per esempio, per una famiglia di quattro persone
l’importo previsto era di circa 635 euro. A questo importo
andava detratto il reddito mensile disponibile della famiglia beneficiaria.
www.fondazionepromozionesociale.it